Sull’immaginazione del futuro si fonda la nostra esistenza

di Antonio Errico

L’unica condizione che possiamo immaginare è quella del futuro. Il passato soggettivo e il presente costituiscono un’esperienza che abbiamo vissuto e che viviamo in un confronto con la concretezza, per cui non sono immaginabili.

Si può immaginare soltanto il futuro, vicino e lontano.

Dagli argini continuamente frananti dei giorni che vengono e vanno, guardiamo verso un orizzonte chiaro o scuro elaborando scene e figure che a volte sembra che si possano decifrare, a volte sembrano del tutto indecifrabili.

I tempi che attraversiamo, spesso elaborano scene e figure  che sembrano del tutto indecifrabili.  Così il futuro si fa difficilmente immaginabile: la nostra possibilità di proiettarci al di là del presente si riduce, quasi fino ad azzerarsi.

Per esempio, diventa estremamente difficile immaginare quali possano essere le mutazioni che fra vent’anni si realizzeranno a livello sociale e culturale e di conseguenza ipotizzare quali possano essere le conoscenze che si riveleranno funzionali all’essere e all’agire nei contesti sociali generali e particolari. Che cosa dovremo sapere; che cosa dovremo saper fare; in quali lingue parleremo; con chi e con quali situazioni ci confronteremo; quali saranno i lavori che ci richiederanno, quali le competenze necessarie, indispensabili per quei lavori.

Le mutazioni di una civiltà sono naturali. Il progresso è generato dalle mutazioni. Però è vero che mai sono state tanto rapide, tanto vorticose. Ci cambia tutto intorno senza che si abbia la possibilità di organizzare in categorie quello che accade, di concettualizzare, talvolta di poter comprendere.

Quando una cognizione ci sembra maturata, si è costretti a rinunciare ad essa per poterne accogliere una diversa, ricominciando il lavoro di decifrazione, di comprensione, di interpretazione, sempre nell’incertezza dei significati, sempre con il sospetto che tutto cambi di nuovo, all’improvviso, richiedendoci di ricominciare dal niente, di ricostruire sul vuoto. Intorno alla nostra immaginazione del futuro si addensa una nebbia di incertezza, e questa nebbia condiziona anche il nostro presente, ci costringe a vagolare senza direzione, in equilibrio sul filo dell’incertezza,  nella confusione di un precario orientamento.

Spesso ci si ritrova a chiedersi verso quale luogo del futuro si stia andando, e come sarà quel luogo, e la nostra esistenza e la nostra residenza  in quel luogo. Ancora una volta: che cosa dovremo sapere per non ritrovarci emarginati e marginali, estranei o esiliati, inconsapevoli, incoscienti, ignari, inappartenenti, spaesati, senza una cittadinanza culturale, senza un’identità riconosciuta o riconoscibile.

Si diceva qualche riga prima dell’essenzialità dei linguaggi. Ma quali linguaggi attraverseranno i paesaggi del futuro, e in che termini e misure di integrazione.

Le fisionomie dei borghi, delle città, delle nazioni cambieranno più di quanto siano cambiati finora, più di quanto di giorno in giorno cambino.

Di conseguenza si confronteranno con altre storie, con i personaggi, le trame, gli intrecci di quelle altre inedite storie. Si confronteranno con nuovi significati e nuovi immaginari collettivi e individuali.

E’ sempre accaduto, si dice. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, se non la rapidità con cui tutto accade.

Probabilmente è con questa rapidità che bisognerà fare i conti: con la rapidità dei mutamenti come dimensione strutturale di civiltà, con le macchine che cambiano da un giorno all’altro pretendendo il cambiamento dei nostri ragionamenti sul loro funzionamento  e sui loro prodotti, delle nostre logiche e delle relazioni che abbiamo con esse.

Il lavoro che cambia da un giorno e l’altro, per diverse ragioni, per diverse esigenze, imponendo il cambiamento dei livelli di produzione, di qualità, e naturalmente anche la riconversione delle nostre conoscenze, delle competenze e dei metodi per raggiungere quei livelli di produzione e di qualità.

Le nostre esistenze che cambiano ad ogni minuto, che cercano una conformità, una flessibilità che consenta di non restare schiacciate dalla pressa di ulteriori urgenze che comprimono e impongono tempi e ritmi e forme continuamente diverse. 

Così, quel futuro che è l’unica condizione immaginabile, diventa sempre meno immaginabile.

E’ inevitabile chiedersi quale destino si riservi ad una civiltà che non ha possibilità di immaginare il futuro. Senza una immaginazione del futuro, non si può progettare, programmare; si procede per estemporaneità, per improvvisazione, senza una visione.

Allora si impone la necessità di formarsi strumenti che ripristinino in qualche modo la facoltà dell’ immaginazione, che diano la possibilità di una visione.

Ma si immagina e si vede con il pensiero. Per cui occorrono strumenti di pensiero. Gli strumenti di pensiero si chiamano saperi. Per cui occorrono ulteriori pensieri, ulteriori saperi. Oppure gli stessi pensieri e gli stessi saperi che costituiscono la struttura concettuale della civiltà, ma rielaborati, riformulati, rimodulati, integrati e combinati in un modo assolutamente nuovo, coerente con la complessità, la ribollenza, la vorticosità con cui accadono i mutamenti delle scene e le parti dei personaggi.

Però si ha bisogno di una visione complessiva entro la quale collocare i particolari.

I pensieri e le conoscenze settoriali non sono più adeguati, non sono più ammissibili. Non si può più pensare di poter immaginare il futuro considerando soltanto il proprio ed escludendo quello degli altri.

Il futuro sarà sempre di più una interdipendenza, una reciprocità, un dialogo ininterrotto fra il sé e l’altro, una narrazione che si potrà realizzare soltanto a condizione che il racconto sia plurale, che abbia storie e significati condivisi. Il futuro sarà un pensiero capace di rappresentarsi in un tempo e un luogo inesistenti.

A volte quel tempo e quel luogo rassomiglieranno ad un tempo e ad un luogo ai quali siamo affezionati e che ci danno nostalgia.

A volte saranno tempi e luoghi assolutamente sconosciuti, che un poco ci spaventeranno, un poco ci richiameranno.

A volte saranno nostalgia e richiamo in un pensiero solo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 24 febbraio 2019]

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