La letteratura può salvarci da apparenza e indifferenza

di Antonio Errico

La letteratura serve a poco, serve sempre di meno, forse non serve più a niente. Non sappiamo che farcene dei profili di esistenza, delle configurazioni di destini, delle storie profonde, complesse, degli interrogativi, dei dubbi, dei ragionamenti a cui ci costringe. Noi adoriamo la linearità, la superficie. Anche il vuoto. Non vogliamo risposte perché non abbiamo e non vogliamo domande. La letteratura che frequentiamo, casualmente e per spassatempo, pensata e prodotta per i nostri brevissimi intermezzi, non deve implicare il pensiero, non deve complicare la vita, non ci deve richiedere di soffermarci a pensare, perché quello che pensiamo ci basta ed avanza, perché abbiamo tanto da fare e andiamo in fretta. Ma poi, il suo universo è ormai superato, consumato nei suoi significati, nelle sue metafore. E’ un universo di opaca nostalgia. Ne abbiamo altri, adesso, di universi. Risplendenti, stralucenti, che proiettano forme e sostanze adeguate ai tempi. In questi universi l’esperienza di esistere è collettiva, senza differenze di felicità e di angoscia. Siamo tutti felici e angosciati all’identico modo. Soddisfatti da un’esteriorità che trascura o ignora la dimensione interiore.

Però, di tanto in tanto qualcuno insinua un dubbio: si avventura nel dire che stiamo perdendo o abbiamo già perso autenticità, identità, pensiero. Dice che abbiamo perso la parola che significa, che vale.

Di tanto in tanto qualcuno insinua dubbi.

All’inizio di una conversazione fra Zigmunt Bauman e Riccardo Mazzeo, proposta in un libro che s’intitola, semplicemente, Elogio della letteratura, Mazzeo sostiene che se si vuole rispettare la complessità e l’infinita variegatezza dell’esperienza umana così come viene percepita e vissuta intimamente, è evidente che non si possono ridurre gli individui a “homunculi” identificabili o descrivibili in termini di schemi e statistiche, di dati e fatti oggettivi, e la letteratura è per sua stessa natura ambivalente, metaforica e metonimica, capace di rendere la solidità e la liquidità, l’omogeneità e la pluralità, il liscio della continuità ma anche l’agro, il ruvido, il crocchiante che abitano le nostre esistenze. Non solo siamo carenti delle parole per dire chi siamo e che cosa vogliamo, ma siamo finanche imbeccati, rimpinzati e saturati di parole tanto vuote e inerti quanto luccicanti e attraenti e adescatrici. Sono le parole chiave che ci vengono ripetute dalle sirene dell’ entertainment, dei nuovi sbalorditivi dispositivi tecnologici, dei sempre nuovi irresistibili prodotti di culto che ci consentono di apparire in società come gli altri si aspettano.

Ecco, dunque. Forse viviamo in una bolla colorata che in qualche caso si dissolve, e quando si dissolve ci lascia nella solitudine più assoluta e nella totale irriconoscibilità di noi stessi.

Non abbiamo parole per dirci, raccontarci, per esprimere le nostre paure e le nostre speranze, se non quelle false registrate in un dizionario del mercato al quale facciamo ricorso per ogni evenienza.

Allora, forse avremmo bisogno di ricercarci nella letteratura: in quella realtà di finzione che però rappresenta un catalogo dei tempi e delle creature, in quel linguaggio che nella forma dell’ artificio cela la sostanza della naturalezza, della sincerità.

Ne avremmo bisogno a livello soggettivo e a livello di civiltà. Per non farci travolgere, singolarmente e collettivamente, dalla valanga della vacuità e dell’indifferenza, per non ridurre le nostre esistenze ad immagine e somiglianza di robot.

Forse la letteratura è ancora una delle poche condizioni che ci consentono la possibilità della riflessione, dell’analisi, del confronto. Ma forse è proprio questa la ragione che ci induce, consapevolmente o inconsapevolmente, a sbarazzarcene. Perché vogliamo pensare sempre di meno. Vogliamo indagarci sempre di meno. Comprenderci sempre di meno. Vogliamo allontanarci dalla nostra congenita complessità, metterci al riparo dalla sassaiola di domande che altri potrebbero farci, che più probabilmente noi stessi potremmo farci. La moltitudine di strumenti che abbiamo a disposizione e di cui ci siamo circondati, ci ha fatto capire che possiamo fare a meno di cercare risposte dentro di noi perché abbiamo a disposizione sistemi che danno immediatamente risposte comode, compiacenti, che non ci scuotono, che non ci incomodano, che non ci inquietano. Che ci illudono sempre, non ci deludono mai.

Non vogliamo parole e rappresentazioni con le quali dirci chi siamo, veramente, di che cosa abbiamo paura o desiderio, veramente. Stiamo bene sotto la grande, immensa galleria della luminaria che attraversiamo continuamente e non vogliamo conoscere il sottosuolo, non vogliamo neppure il buio che ci permette di vedere le stelle. Ci piace la luce innaturale.

Non si vuole fare nessun riferimento all’antica questione della funzione sociale della letteratura. Però viene spontaneo affermare che, forse mai come in questo tempo, la letteratura si carica di una funzione essenziale per l’espressione dell’unicità della condizione umana. Perché il rischio che si possa arrivare a non saper pronunciare neppure il proprio nome, si deve mettere nel conto.

Probabilmente l’affermazione risulta esagerata. Però talune volte accade che le esagerazioni si costituiscano come previsioni. Nessuno lo vorrebbe, certamente.

Se questo tempo ha bisogno della letteratura più di quanto ne abbiano avuto i tempi passati, probabilmente lo si deve alla circostanza che mai come in questo tempo i prodotti creati dall’uomo possono finire con l’assoggettarlo.

Così quella letteratura che serve proprio a poco, che serve sempre di meno, che non serve quasi a niente, forse rimane ancora la sola situazione in grado di raccontarci non solo come siamo stati e come siamo, ma anche come sarà il mondo domani, domani l’altro, come saranno coloro che lo abiteranno. In modo da poterci regolare sul da farsi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 17 marzo 2019]

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