Federico II e Giorgio da Gallipoli

Una smania irrefrenabile nell’erigere fortilizi, castelli, casini di caccia, rocche, palazzi. Quasi mai chiese o altri luoghi di culto religioso, anzi in palese contrapposizione ad essi, ad eccezione della cattedrale di Altamura, l’unica costruzione sacra voluta dall’Imperatore. Ma Ettore Vernole, nel suo libro, Il Castello di Gallipoli, praticamente non fa cenno di questi interventi dell’imperatore. Insomma considerare federiciano il Castello di Gallipoli sarebbe una grossa forzatura. C’è infine – e stavolta il legame è forte, importante, – un uomo che unisce Federico a Gallipoli e si tratta di Giorgio di Gallipoli, il chartophilax, dignitario ecclesiastico bizantino, il rappresentante più importante della scuola poetica greca nel Salento bizantino. Federico lo conobbe quando venne per la prima volta a Otranto, nel 1228, e conobbe il circolo di Nettario, di Giovanni Grasso e, appunto, di Giorgio di Gallipoli, che gli fu a fianco unitamente al notaio anche al momento del testamento e del trapasso, a Castelfiorentino, il 13 dicembre 1250. Per Federico il rapporto con questi grandi uomini di cultura salentini, maestri di greco e di latino, ma anche poeti insigni, fu immediato, spontaneo, e scavò in profondità. Fu un fatto quasi naturale per una personalità come Federico, – uno dei più notevoli ingegni dell’umanità, che parlava e scriveva correntemente l’italiano, il tedesco, il francese, il latino, il greco e l’arabo, con cognizioni di diritto filosofia medicina e storia naturale, che fondò a Napoli un’università che sarà presto alla pari con quella di Bologna, che chiama a Palermo dotti di ogni paese, che costruì – splendido diadema – un gioiello come Castel del Monte, che ebbe un senso ecumenico ante litteram (vanno bene tutte le religioni), – avere un afflato con quella gente di cultura greca e quella terra d’Otranto, dove c’era, nel monastero di Casole, la più importante biblioteca di testi greci. Lì avrebbe trovato conferma alle sue idee e risposte alle sue curiosità, così come nell’antiromanità” ghibellina di un Giovanni Grasso (grammatico imperiale), nell’irredentismo religioso di Nettario e di Giorgio di Gallipoli avrebbe trovato conferma alle sue scelte, a certe sue preferenze, alle sue prospettive politiche. Giorgio di Gallipoli compose per lui un poema encomiastico, in cui lo fa apparire come una sorta di Zeus tonante e fulminante dell’Olimpo greco (un frammento del suo poema fu stampato nel “Catal. Cod. Graec.”, Firenze , 1764 vol. 1, pag. 26), opera che fu largamente apprezzata dall’imperatore che quando si trovava nella terra d’Otranto – e vi si trovò in diverse altre occasioni – non mancava di far convocare Giorgio il Bizantino di Gallipoli, gran maestro di greco e gran poeta, che ebbe modo di testimoniare dell’incredibile energia, una forza vitale, taumaturgica, che emanava l’imperatore svevo. C’è una curiosa testimonianza di due secoli dopo la sua morte: la scoperta di una carpa trovata in uno stagno vicino a Heilbronn, in Germania, nelle cui branchie, sotto la pelle, era fissato un anello di rame recante un’iscrizione greca, prova certa che l’imperatore in persona aveva deposto quel pesce nello stagno, e che suscitò grande stupore e il desiderio di studiare la lingua greca da parte dei tedeschi.

Con la morte dello “ Splendore del Mondo”, il 13 dicembre 1250 – era ridotto ormai ad un vecchio stanco, roso e tormentato da un cancro allo stomaco, nonostante avesse solo 56 anni – per la terre di Sicilia e di Puglia si spense la luce. Da quel momento in poi, infatti, cadranno nel lungo tunnel delle dominazioni straniere e nel dimenticatoio della storia.

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