La carenza di investimenti pubblici all’origine della nuova recessione italiana

Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari. Aumenta considerevolmente il tasso di inflazione, soprattutto a seguito dello shock petrolifero del 1973. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est. Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione comincia a essere ridotta.

L’arrivo della crisi del 2008 fa deflagrare tutti i problemi sedimentatisi nei decenni precedenti e si innesta su una struttura produttiva divenuta progressivamente sempre più fragile e caratterizzata da piccole dimensioni aziendali, forte dipendenza dal credito bancario, specializzazione in settori tecnologicamente maturi (turismo, agroalimentare, beni di lusso).

Negli anni più recenti, nessun Governo ha provato a invertire la rotta, ovvero a rendere il nostro sistema produttivo più forte e più competitivo su scala internazionale attraverso investimenti in innovazione. Per contro, gli investimenti pubblici si sono continuamente ridotti e si è continuamente ridotta la spesa pubblica in ricerca e sviluppo (a fronte peraltro di una spesa privata in ricerca e sviluppo di dimensioni irrisorie). Ciò è probabilmente da imputare all’estrema difficoltà di recuperare il terreno perso (è difficile re-industrializzare un Paese dopo decenni di politiche di de-industrializzazione), alla convinzione che l’Italia possa crescere in virtù della presunta eccellenza del ‘piccolo è bello’ e delle sue produzioni artigianali, alla scorciatoia politica di rinunciare a interventi sulla struttura produttiva con investimenti pubblici il cui effetto si vedrebbe nel lungo periodo. Si aumenta dunque la spesa corrente, quella che maggiormente si presume abbia effetti sull’acquisizione di consenso.

Si arriva al 2018. Il cosiddetto Governo del cambiamento fa propria la convinzione che questi problemi dipendano dai vincoli europei, sulla scia di una ormai decennale elaborazione teorica per la quale le condizioni materiali di vita dei cittadini italiani migliorerebbero se si potesse fare a meno dell’euro. Si tratta di una tesi errata e che non coglie la reale portata del problema (economico e politico). Va ricordato che le svalutazioni della lira (7 casi dal 1979 al 1992) si sono sempre accompagnate a cali di produttività, per effetto della possibilità accordata alle imprese di competere con un cambio favorevole rinunciando a innovare. A ciò si può aggiungere il fatto che, poiché soprattutto negli ultimi decenni le imprese italiane esportatrici sono localizzate prevalentemente a Nord, le svalutazioni della lira hanno di norma prodotto un ampliamento dei divari regionali.

Il Governo del cambiamento prova invertire la rotta, rispetto alle politiche di austerità degli anni precedenti, ma, almeno al momento, con effetti addirittura negativi sul tasso di crescita.

Ciò a ragione del fatto che non è il segno della manovra (espansivo) di per sé a produrre incrementi del Pil, ma la sua composizione. E la politica economica in atto è eccessivamente sbilanciata sulla spesa corrente: trasferimenti monetari alle famiglie (reddito di cittadinanza e quota 100 in primis) – rispetto alla spesa per investimenti.

Gli investimenti pubblici rispetto ai trasferimenti monetari presentano un duplice vantaggio ai fini della crescita:

  1. Creano uno stock di capitale fisso (si pensi alla messa in sicurezza del territorio, alle opere pubbliche, alle infrastrutture) che attiva effetti di complementarietà rispetto agli investimenti privati: si pensi, a titolo esemplificativo, al potenziamento della logistica (dunque al potenziamento della rete dei trasporti) e agli effetti che questa misura potrebbe avere per l’aumento degli investimenti o per l’attrazione di investimenti dall’estero.
  2. Se rivolti al finanziamento della ricerca (che, per sua natura, dà risultati incerti e di lungo periodo) possono attivare crescita attraverso la generazione di innovazioni. Si può considerare, a riguardo, che – come ampiamente mostrato – pressoché tutte le innovazioni del Novecento nel settore privato si sono rese possibili a seguito di una preventiva spesa dello Stato per il finanziamento di centri di ricerca.

La scelta di allocare gran parte delle risorse pubbliche disponibili per spesa corrente – oltre a essere finalizzata all’acquisizione di consenso in un’ottica di breve periodo – risponde anche alla base elettorale dei partiti di Governo. Schematicamente, essi tutelano gli interessi della piccola impresa che opera su mercati locali, che non esporta e che produce prevalentemente beni di consumo per i quali non occorrono innovazioni. Assecondare questi interessi significa far sopravvivere imprese che diversamente fallirebbero nella competizione globale e soprattutto – dati i vincoli del bilancio pubblico – rinunciare a politiche alternative, in primis di incentivazione alle innovazioni, che costituirebbero il presupposto per il rilancio dell’economia italiana.

In tal senso, la linea di politica economica che si sta perseguendo negli ultimi mesi in Italia sembra, in definitiva, basarsi su una riproposizione della vecchia tesi del “piccolo è bello” – associata alla convinzione della superiore efficienza delle piccole imprese a vocazione artigianale – combinata con la sostanziale rinuncia a posizionare l’economia italiana in un segmento alto della catena globale del valore, consentendo alle nostre imprese (alle piccole, in particolare) di sopravvivere vendendo sul mercato interno.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”. 5 aprile 2019]

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