Occasioni artistiche salentine

Allora, fuori da ogni mitologia sudista, converrebbe proporre come tema di discussione questo: Come so-stare tra i punti cardinali? Comevivere tra cinesi e sudamericani, statunitensi e africani, essendo europei, finalmente privi delle vecchie manie eurocentriche, senza rimpianti e senza nostalgie di nessun tipo?

So-stare, facendo in modo che il prefisso -so (lat. sub-stare significa stare saldo) non implichi alcuna esclusiva appartenenza territoriale, non una sorta di ius terrae, che non sta scritto da nessuna parte, se non nell’arroganza dello stanziale che si vede insidiato dal migrante: agricoltori contro cacciatori-raccoglitori. Ahimé, noi che so-stiamo a Sud ci siamo armati fino ai denti e siamo pronti, come in un fortino, a difenderci dagli attacchi degli indiani; mandiamo elemosine al Sud del nostro Sud per placare la coscienza che rimorde e intanto leviamo il lamento di Maria verso un Nord che ci lascia indietro. Indietro rispetto a cosa? Sono modi in cui non mi sento di so-stare a Sud. Sono modi smodati, pieni di hybris. Eppure so-stare si può e si deve, se non altro per far crescere meglio i bambini, per accudire i vecchi, per onorare i morti. I giovani e gli adulti devono andare e venire, per conoscere luoghi e persone, e riportare il meglio del meglio di quanto hanno appreso. Poi anche loro potranno so-stare, facendosi vecchi, e so-stando raccontare. Raccontare è certo il miglior modo per ingannare il tempo della sosta (il tempo del pensiero). E quando dico raccontare, dico raccontare in qualunque modo, anche dipingendo un bel quadro …

So-stiamo senza mitologie, senza querimonie, disarmati, tra i nostri simili di tutte le razze e di tutte le religioni, guardando in ogni direzione. Non diamo retta a chi ci mette addosso la paura dell’essere esposti al mondo, al passaggio violento del nemico, alla sua barbarie. E’ lui il nemico, è lui il barbaro. So-stiamo senza paura, con molta curiosità verso quanto avanza tutt’intorno, lungo la linea lontana dell’orizzonte. Da lì, come sempre, i nostri amici, migranti come uccelli, porteranno le risposte giuste a noi che so-stiamo.

2. Ut pictura poesis: per Luigi Latino

Scritto introduttivo al Catalogo di Luigi Latino, Panico, Galatina 2010.

Che cosa accade quando un pittore depone il pennello, almeno temporaneamente, e prende in mano la penna? O meglio: che cosa accade in chi è abituato a vedere le opere pittoriche di un artista, quando ad esse si affiancano, fino quasi a sostituirsi, alcune scritture vergate dalla stessa mano, che non possono essere lette se non sinotticamente, come traduzione a fronte di una già sperimentata arte visiva? Il pittore diventa poeta, il fruitore d’arte lettore. Si rischierebbe un effetto straniante, se non si avvertisse subito che una medesima tensione anima pittura e poesia. Così accade per i quadri e le scritture di Luigi Latino.

Nell’informale della visione pittorica di Latino negli ultimi tempi sono apparsi sagome e lineamenti di volti umani come relitti di una realtà naufragata, di un umanesimo tragicamente tramontato.  Sono i segni di una concezione anarchica della vita, elaborata in anni che oggi appaiono lontani e tremendi. Parlo degli anni Settanta, gli anni di una giovinezza allevata nella violenza (chi aveva allora vent’anni non lo dimentica), incapace, dunque, di progettare un futuro migliore. In ciascuno permaneva il desiderio di vivere libero nella propria sconsolata soggettività, in un’infelice solitudine. Oggi, col senno di poi, possiamo dire che un orizzonte comunitario era presente, ma come uno sfondo falso e convenzionale fatto di specchi translucidi, che riflettevano l’immagine deturpata di una generazione, dividendola da un abisso assai prossimo. Forse questo fu l’errore, comune a un’intera generazione: quello di non essere in grado (di non avere la forza) di portare la critica allo status quo fino ai suoi estremi, di rompere quel fondale e riconoscere nella propria condizione individuale non il manifestarsi narcisistico del desiderio, ma un destino comune da realizzare nell’utopia di un mondo tutto da costruire. L’immaginazione non solo non prese il potere, ma si infiacchì presto e non diede più che stanchi segnali di vita. Di narcisismo, infatti, si muore e molti della generazione di Latino (classe 1954) morirono allora, senza mai diventare adulti, altri, e furono i più, divennero adulti e intristirono rendendo triste il mondo nel quale oggi viviamo. Non riesco a leggere l’opera di Luigi Latino se non a partire da queste premesse, che a mio avviso costituiscono il retroterra culturale generazionale della sua visione del mondo.

Latino probabilmente riuscì a sottrarsi alla realtà che gli era stata ammannita su un piatto d’argento, creando un altro mondo dentro il quale non so bene se abbia trovato un rifugio oppure una via di fuga; sta di fatto che egli ha continuato instancabilmente a lavorare, a dipingere, oggi a poetare. Portare la libertà del pensiero anarchico, bandita dal sistema capitalistico avanzato, nei colori, nella materia, nelle linee prive di un disegno preconfezionato dell’opera: questo lo scopo che Latino si è dato, questa la strada seguita. Non so se la comparsa della figura umana appena abbozzata (ma era mai del tutto sparita?) nella pittura di Latino sia il segno di un cedimento o di ripensamento. Per saperlo dovremmo rispondere alla domanda: quale uomo dipinge Latino? E’ l’uomo massificato, sorvegliato, giudicato, incarcerato, violentato, assassinato, l’uomo che subisce la guerra, l’uomo che sconta l’edonismo della vita quotidiana con l’inferno della sua esistenza profonda.  Sagome e volti si scontornano appena entro i segni materici dei colori stesi sul supporto pittorico. L’Umanità si fa materia e si confonde con essa, fino a seguirne il medesimo destino di corruzione e morte.

La poesia rifà il verso alla pittura, esprimendone con parole le ragioni. Era necessaria questa spiegazione o non è essa il segno di una ricerca che non si rassegna a “mostrare”, ma vuol anche “dire”? “Comunicare”, scrive Latino, ecco che cosa è necessario. Sostituire, io intendo, al mondo della comunicazione globale, una comunicazione più umana, scavalcando quanto i media suggeriscono, cercando di persuadere i più riottosi (riconosco Latino come appartenente con convinzione a questa razza). Anche nella poesia il pensiero anarchico ha modo di esprimersi con rivendicazioni e ribellioni e severe denunce (la violenza della guerra, le menzogne del potere, la disoccupazione, le dure condizioni di lavoro e le morti bianche, il problema dei rifiuti, ecc.) che fanno di questa poesia una poesia civile, ovvero inevitabilmente di intervento nella prassi della politica, per quando è dato alla poesia intervenire… Essa  indulge talvolta alla ricerca di rime facili, cui forse si assegna il compito di addolcire il difficile e aspro messaggio: viviamo in un mondo orribile e siamo responsabili di tutto l’orrore che è intorno a noi, da noi stessi prodotto, il che pone la nostra vita in uno stato violento, quasi sadomasochistico, e rischia di irretire anche la più autentica volontà artistica.

Questo è l’orizzonte speculativo della poesia e della pittura di Luigi Latino: ut pictura poesis, direbbero i nostri antichi, stante la corrispondenza delle motivazioni, dei fini e dei risultati. Ed è il segno della coerenza di una complessa ed inesausta ricerca che dura ormai da più di trent’anni.

3. Arte di Vincenzo Congedo

Ho trascorso una bella mattinata in Via Lucerna, a Galatina, all’ombra della Chiesa delle Anime, in compagnia di Vincenzo Congedo. Gli avevo chiesto di incontrarlo per vederne le opere e per sentirlo raccontare alcuni episodi della sua vita, così intrecciata alle opere, come avviene sempre quando si è trascorsa una vita laboriosa.

Una volta – era ancora un ragazzetto – aiutava il padre a scavare un pozzo nella campagna riarsa di contrada “Vore”, e scavando scavando venne fuori l’argilla, e il ragazzetto ci mise le mani dentro e cominciò a impastare, a plasmare e dare forma ai fantasmi della mente. La prima volta di un artista somiglia tanto alla creazione del mondo raccontata nella Genesi, a una nuova creazione dell’uomo, e forse questo è sempre nelle intenzioni di chi opera nel campo dell’arte.

In via Lucerna si apre il laboratorio di Congedo, due stanze piene di manufatti e di strumenti di lavoro: è il luogo solitario dove egli plasma l’argilla o incide la pietra o dipinge. I risultati sono le opere, cui affida un messaggio ben preciso, che suona come un grido d’allarme: la natura è sopraffatta dall’uomo, un demone distruttivo si è impossessato della ragione, ormai da molto tempo l’uomo appare privo di tutti i valori, e, dunque, bisogna fare qualcosa.  Ma che cosa?

Congedo ha settantadue anni (classe 1939), ha trascorso un’infanzia di guerra e l’adolescenza in un dopoguerra difficile per chi doveva vivere del lavoro della terra, soprattutto nelle nostre contrade. Questi furono gli anni della formazione del carattere, di un mondo morale, alle cui regole – dettate da un padre severo – difficilmente Congedo avrebbe poi rinunciato, passando così incolume attraverso gli anni ingannevoli del boom economico e del post-sessantotto.  Oggi noi non riusciamo a capire bene fino a che punto il mondo rurale di una volta abbia modellato gli animi, infondendo in essi la pazienza, la tenacia, la modestia, in una parola l’essenzialità del sentire, immunizzandoli contro ogni malattia intellettuale. “Donna del Mediterraneo”, “Maria”, “Infanzia salentina”, per fare solo pochi esempi di opere scultoree realizzate da Congedo, provengono da quel mondo lontano, raccontano la vicenda conclusa della campagna meridionale e di una cittadina, Galatina, ancora in gran parte contadina, una realtà a cui troppo in fretta abbiamo voltato le spalle. Ora quel mondo si ripresenta nelle forme dell’immaginazione artistica.

Congedo ha insegnato per trentacinque anni, trentacinque anni di sperimentazioni, di tentativi, di crescita, di esercizio e di uso dei materiali più diversi: argilla, pietra leccese, bronzo, ecc. Insegnare è imparare, incubare a lungo e silenziosamente l’opera, che viene dopo, se mai deve venire. Nel frattempo si insegna e si impara. Questa è la modestia di Congedo, di cui difettano molti professori, i quali pensano di avere già imparato, e dunque “insegnano”…

Che cosa si può fare? Si può modellare la creta, si possono usare i colori o ricercarli e fermarli con la macchina fotografica, si può ricordare. La memoria è madre delle arti perché solo le arti ingannano il tempo, fanno del suo corso irreversibile un eterno ritorno. Ogni statua di Congedo è un ricordo, ogni suo manufatto una brano di memoria personale e collettiva, ogni fotografia un microcosmo di vita, trama lavorata dentro un ordito più ampio, che l’artista ha studiato, imparando le tecniche e mai perdendo di vista la tradizione, dall’antico al moderno, dal classico all’astratto.

I maestri di Congedo furono molti artisti, Ferraro, Palumbo, Giurgola, Della Gatta, Mariano, Palamà, a tutti costoro Congedo deve riconoscere il proprio debito, ma uno solo è stato esempio di vita e fonte di ispirazione, don Tonino Bello.  La  gracilità del corpo e la forza delle idee di don Tonino, anch’egli esempio di modestia e al tempo stesso di determinazione, fanno del vescovo di Molfetta quasi un alter ego dell’artista di Galatina, la personificazione ideale di un rispecchiamento. Ma non veniva anche don Tonino dalle nostre campagne?

Le opere di Vincenzo Congedo sono sparse in molti luoghi pubblici e privati. Sono manufatti che raccontano un pezzo della nostra storia, senza rimpianti o inutili lamentele. Sono testimonianze di come eravamo, o meglio, di come sia possibile oggi immaginare un tempo che ora non è più.

4. Ricercare l’ignoto: per Antonio Stanca

Scritto in occasione della Mostra antologica (dal 19 dicembre 2010 al 2 gennaio 2011 a Castrignano de’ Greci) in cui Antonio Stanca ha presentato cinquant’anni della sua attività pittorica.

Durante le scorse vacanze di Natale, ho visitato la mostra antologica di Antonio Stanca, allogata a Castrignano de’ Greci tra le mura possenti e severe del Palazzo De Gualtieris di recente ristrutturato.

Una volta superata la soglia, il percorso era già prestabilito da un’abile regia che da quel momento avrebbe diretto i miei passi. Alcune frecce segnaletiche invitavano il visitatore a percorrere gli ampi saloni secondo una precisa direzione, che imponeva di girare intorno nelle sale, seguendo con lo sguardo il susseguirsi delle opere su cavalletto, commentate da puntuali didascalie. Si poteva anche far uso, come di un’ottima guida, di un catalogo dal titolo Antonio Stanca. Una vita… una lunga ricerca, con testi (i medesimi del suddetto commento) a cura di Silvia Stanca, figlia dell’artista, e con una Presentazione di Carmen De Stasio, stampato nel dicembre 2010 presso lo Sprint Arti Grafiche di Maglie.

Insomma, nulla era lasciato al caso e all’improvvisazione. E così pure, costeggiando lento pede la mostra, quadro dopo quadro, mi sono accorto subito che questa antologica era in realtà un tentativo, ben meditato da parte di Antonio Stanca (classe 1942), di periodizzare, o per meglio dire storicizzare, i suoi cinquant’anni di attività, distinguendovi fasi e periodi, ostacoli e ripensamenti, interruzioni e riprese, tappe individuate di “una lunga ricerca”, come recita il sottotitolo del catalogo, una vera e propria monografia, che coincide con un’intera vita.

Stanca è un artista molto esigente nei confronti del visitatore. Questi è invitato a lasciarsi il mondo alle spalle e a varcare la soglia di un mondo sconosciuto e per certi versi inquietante. Pochi artisti osano chiedere al distratto fruitore d’arte ciò a cui difficilmente si rinuncia, ovvero di intraprendere un viaggio verso lidi sconosciuti. Stanca lo esige, in un modo che dapprima sorprende e mette in guardia; poi, intriga, avvolge e trasporta, alla ricerca di…

La visita d’insieme della mostra in breve consentiva di passare attraverso le varie fasi dell’attività dell’artista, dal periodo dell’informale (1959-60) a quello in cui si decreta la morte dell’arte (1963); e, dopo una pausa meditativa, la ripresa dell’attività con le esplorazioni dell’inconscio (1969-70), la contestazione con relativa apertura al sociale (1970-1982), e infine  l’approdo alle composizioni astratte (1982-2001), che, in vario modo, germinano fino ai nostri giorni.

Ma alla visita d’insieme già subentrava il desiderio di una sosta più pensosa, soprattutto davanti agli esiti ultimi della laboriosa vita di Stanca, dai panorami di Tancas (un pianeta inventato dall’artista, in realtà anagramma di Stanca) che datano dal 1984, agli universi (dal 2001), agli universi paralleli e multiversi (dal 2007). Qui la richiesta dell’artista al visitatore di abbandonare tutto e seguirlo si fa più imperiosa, come se egli volesse dirci che comprendere l’arte significa proprio entrare in un mondo parallelo a quello della nostra quotidianità e superare la prova, se vogliamo rendercene degni. La prova suprema cui ci sottopone l’arte di Stanca è quella di abbandonare la realtà. Nei suoi quadri non c’è alcuna raffigurazione realistica, non c’è l’uomo con le sue forme. C’è l’espressione di una realtà psichica profonda e ai più invisibile, l’uomo in quanto pura essenza materica e psichica al contempo, che l’artista mette in scena nell’unico modo che gli è proprio, attraverso il colore. Il rifiuto del figurativo, come inadeguato alla vera espressione artistica, non è solo in Stanca il risultato di una delusione storica, quella che seguì gli anni della contestazione e dell’impegno,  l’epoca che molti ricordano come caratterizzata dal riflusso, non è solo una fuga dal mondo che non si riconosce più e si rinnega per quello che di illusorio essa offriva (o si pensava che avrebbe offerto);  bensì è il risultato di una precisa scelta, di una decisione, quella di rappresentare un’altra realtà, di andare alla scoperta di un universo nuovo e diverso rispetto a quello reale, di cui farsi instancabili esploratori e cantori.

Inappagato il bisogno di una giustizia umana e confermato il proprio agnosticismo religioso, il primo, sicura eredità paterna, di un padre ferroviere di cultura antifascista e comunista alla Carlo Mauro, e di sincera fede cattolica – non sembri strana la convivenza di Cristo e Marx nell’immaginario primo novecentesco di molti lavoratori in cerca di riscatto -; il secondo, punto d’approdo di un percorso personale che lo vedrà in giovane età allontanarsi dal cattolicesimo, Stanca immagina universi ignoti,  nei quali sia possibile finalmente vivere in modo autentico la propria esperienza artistica, e vi si immerge. Sono gli universi della psiche umana che si aprono davanti all’artista, deluso ma non arreso, scettico ma non nichilista, contestatore ma non anarchico, come campo di una ricerca infinita; col vantaggio, però, che tutto quello che vi si trova è dentro di noi, a portata di mano, sepolto e invisibile per la maggior parte delle persone, disponibile all’artista; e questi lo tira fuori sotto forma di visioni, un frammento alla volta, un atomo alla volta, isolando in quadri senza cornice istantanee di immagini in movimento, come se fossero fotografie di un momento infinitesimale e irripetibile – nella sua individualità – di vita atomistica, astratto dall’immenso pullulare degli universi. Una visione democritea applicata alla psiche dell’uomo contemporaneo. Esiste, infatti, una storia della psiche come esiste una storia delle forme biologiche. L’artista diventa storico (ricordo che il gr. historia significa ricerca) della psiche, uno storico tutto particolare, poiché egli, a differenza degli storici di professione, ha a disposizione un materiale che non trova nella realtà delle cose, ma, come ho detto, dentro se stesso, e solo la sua arte può oggettivarlo in una visione e renderlo di comune fruizione.

Nelle sue figurazioni l’artista è sostenuto dalle letture dei libri di fantascienza (quanti ne ha letti da giovane nella collana mondadoriana URANIA!), che stranamente vanno a confondersi con le letture di Freud e di Jung; di qui la comparazione della psiche umana con mondi lontani, in cui il colore sovrasta la forma e la determina, in un’esplosione cromatica che ogni volta trova il suo punto di fuga in una luce che balugina in un punto prospettico preciso del quadro, a garanzia che il viaggio non è terminato, che non ci si è perduti, ma esiste sempre una via da seguire, se non altro per tornare indietro. Questa fiducia nella vita come ricerca (di nuovo ritorna il sottotitolo del catalogo: una vita… una lunga ricerca), è leggibile nelle visioni di Stanca, anzi le rende umane e terrene, restituendo loro la cifra di realtà.

Ritorno in me, dunque, distogliendo lo sguardo dalla visione. Guardo tutt’intorno, lungo le ampie volte della sala, e mi sembra di essere in un altro mondo. Penso ai costruttori di questo palazzo, ai suoi antichi abitatori, amici o discendenti degli spagnoli dominatori delle terre salentine;  penso alle loro azioni, alle loro credenze, ai lavori di restauro del palazzo antico, all’uso che oggi se ne fa.  Guardo fuori da una finestra, nel cortile del palazzo, e mi sembra di vedere dei ragazzini nei primi anni Cinquanta, e tra essi il piccolo Antonio Stanca, che seguono con gli occhi sbarrati le immagini in rapido movimento dei film trasmessi le sere d’estate per il pubblico divertimento: mondi lontani e vicini, vecchie prefigurazioni di un’arte avvenire, distrazioni da un presente difficile e tormentoso. Poi torno a guardare i colori delle tele di Stanca, i tracciati impervi delle linee, le fatiche dei viaggi negli universi paralleli e multiversi della psiche, e mi dico che tutto questo appartiene ad una medesima storia, nella quale non esistono dominatori e dominati, né una giustizia da far valere o una certezza da imporre agli altri, ma solo la storia (la ricerca) della psiche umana, mai del tutto compresa, mai del tutto esaurita; una verità finalmente ritrovata, alla quale l’artista – e noi con lui – per nulla al mondo rinuncerebbe…

(2011)

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