Insegnare la gentilezza attraverso la conoscenza

Forse la gentilezza della conoscenza è questo rendersi e rendere migliore il piccolo universo al quale si appartiene. Con umiltà. Senza presunzione. Soltanto con la consapevolezza che esiste un universo infinito ma anche una combinazione di innumerevoli universi domestici, quotidiani, circoscritti, sempre cangianti, che in ogni istante finiscono e nello istante si rigenerano.

Sono universi fragili, gli universi quotidiani; sono universi delicati nei confronti dei quali occorre assumere modalità di confronto conformi alla natura che essi hanno. Bisogna trattarli con delicatezza. Per cui è indispensabile comprendere di che materia e in che modo sono fatti, quali sono i loro meccanismi di funzionamento, che cosa li avvantaggia e che cosa li danneggia.

Bisogna avere conoscenza. La gentilezza è una conseguenza, un riflesso della conoscenza. Non esiste una poesia che non sia delicata, né un affresco, né una formula matematica. Nessun contenuto di disciplina è grossolano, goffo, volgare; non può esserlo in quanto ogni organizzazione del sapere in disciplina e ogni contenuto di quel sapere, ogni segmento dell’organizzazione, sono un modo e un mezzo per indagare l’universo piccolo e grande, e l’universo, piccolo o grande che sia, è delicato.

Allora, si potrebbe anche dire, forse, che la gentilezza consista in una sentimentale e razionale configurazione della relazione che ciascuno di noi, soggettivamente, stabilisce con l’universo.

Ma si potrebbe anche dire, forse, che la gentilezza consiste nella relazione che una comunità, una civiltà stabilisce con l’universo.

Per esempio: una civiltà che trascura, che deturpa, che offende i luoghi che abita, è una civiltà priva di gentilezza. Una civiltà che non crea occasioni di crescita, di sviluppo, di progresso, è priva di gentilezza.

Una civiltà che non difende e non onora la sua storia, la sua memoria, o che non proietta il presente verso orizzonti di futuro, che non mette pienamente a frutto le energie dell’umano, è una civiltà che non ha gentilezza. Quindi è una civiltà insensibile, indifferente, apatica, che dissipa quello che ha, che non si preoccupa e non si occupa del proprio destino. Perché probabilmente si tratta soltanto di preoccuparsi e occuparsi del proprio destino, che può compiersi esclusivamente in un rapporto di prossimità e di reciprocità con ogni condizione della natura con cui si entra in contatto.

Forse la gentilezza è una maniera di stare al mondo, di comprendere e interpretarne i segni, le manifestazioni, le espressioni, i sintomi, gli eventi, e di intervenire su di essi. E’ una maniera di costruire la propria identità personale e sociale e di proporla a se stessi e agli altri, di confrontarsi con l’alterità, di dare un senso alla propria esperienza di esistere. Non c’è nulla di moralistico, di edificante, di esemplare in una sorta di “elogio della gentilezza” (s’intitola così un saggio di Adam Philipps e Barbara Taylor). Non c’è nulla di romanticheggiante, di manierato, melenso. Per la gentilezza ci vuole il coraggio di una sfida nei confronti dei luoghi comuni, delle banalità, delle convenzioni mediocri. Per la gentilezza ci vuole la disponibilità al sacrificio che pretende la conoscenza.

Sarebbe peraltro del tutto improprio, fuorviante e falso pensare, per esempio, che la gentilezza possa derivare soltanto da un processo di conoscenza lineare, morbido, ordinato e che produca condizioni altrettanto lineari, morbide, ordinate. Spesso è l’esatto contrario. Spesso la gentilezza matura in un processo di conoscenza tortuoso, ribollente, caotico, inquieto, turbolento, a volte finanche disperato. Forse la gentilezza non frequenta il sapere della serenità ma quello della sofferenza. La storia della scienza, dell’arte, della letteratura, della filosofia, della musica, sono attraversate da sofferenze e inquietudini strazianti che hanno prodotto sublimi gentilezze.

Ma poi, alla fine dei conti, forse la gentilezza è soprattutto una variante formale ma non sostanziale di quel comandamento che dice così: ama il prossimo tuo come te stesso. Una sfida, anche questa. Forse la sfida più grande.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 5 maggio 2019]

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