Charles Baudelaire

2. Una prodigiosa cassa di risonanza

Ormai il giovane Charles si è “fatto” un altro, diverso da sua madre, con la quale era un tutt’uno, diverso dai suoi compagni di collegio, spensierati e grossolani; si sente e vuol sentirsi unico fino all’estremo godimento solitario, unico fino al terrore. E’ il merlo bianco, dileggiato e deriso da tutti i merli neri dell’Istituto, ma si consola contemplando in tralice il candore delle sue ali. Ciò che abita in questo fanciullo abbandonato non è solo il sentimento di una fortissima individualità, né l’apparizione fortuita e sconcertante della coscienza di sé, ma l’incontro di se stesso con la disperazione, con il furore, con la gelosia, che polarizzerà tutta la sua vita in una meditazione stagnante e ossessiva: “Ho preso coscienza di me stesso verso di voi che mi avete scacciato e verso tutto il resto del mondo…voi potete perseguitarmi nella mia carne, non nel mio essere un altro…”. La sua è una sfida, una rivendicazione, l’orgoglio stoico, l’orgoglio metafisico, l’orgoglio misero e puro, che gira a vuoto e si nutre di se medesimo, l’orgoglio di chi si sente diverso, di chi si curva su se stesso e scopre d’un tratto paesaggi straordinari, fiumi luci desideri e furori, scopre il fondo segreto della propria natura e del proprio destino.

Aveva un cuore ardente come un vulcano, e profondo come il vuoto. In lui erano tutte le benedizioni e le maledizioni, i lamenti e le estasi, tutte le sensazioni e gli impulsi che può raccogliere un organismo finissimo come il suo: era un’arpa, un flauto, un clarino, un tamburo, una grancassa, aveva una sensibilità da cento violini; tutto in lui era una amplificato a dismisura, dentro di lui piombavano abissi e lo sconvolgevano, e vi risuonavano come un’eco ripetuta da mille labirinti. Nessuno strumento umano – dirà Citati – ha mai eguagliato questa prodigiosa cassa di risonanza. Eppure il “vecchio” (aveva appena quarantasei anni, ma ne mostrava settanta) Baudelaire, paralizzato, cieco da un occhio, che articolava a fatica “Bonjour Monsieur, Bonsoir Monsieur”, morì come un mendicante, tra i rifiuti di Parigi. Questo è – talvolta – il tributo che si paga al proprio genio, il c.d. sacrificio che richiede la crudele Dea dell’Arte.

3. Era un grande onanista, come tutti i poeti

Ma in fondo, a pensarci bene, con tutte le sue presunte amanti, dall’ebrea Louchette alla negra Duval, dalla Presidentessa Sabatier a Marie Daubrin, Baudelaire è stato sempre un solitario, un grande onanista, anche nel coito rimaneva tale, un solitario, perché lui godeva solo del suo “peccato”, dei suoi “fiori del male”, che poi – come scrisse Hugo – sono fiori che risplendono e abbagliano come stelle”. In effetti lui stesso scrisse che “fottere è aspirare ad entrare in un altro, mentre l’artista non esce mai da se stesso”. Lui “adorava la vita”, ma la vita incatenata, trattenuta sfiorata, sognata, non quella reale fatta di interessi materiali, di padroni, servi e leccaculi, di viltà, tradimento, bassezza, invidia, brutalità, avarizia… tutte cose che non lo toccarono. A vent’anni, dopo l’odiatissimo periodo trascorso nei collegi di Lione e poi in quello di Parigi (dove fu espulso), in cui lo avrebbero voluto “efficiente, umile e leccaculo”, Baudelaire incontra Sarah, detta Louchette: “Una notte che accanto a una tremenda Ebrea,/ come un lungo cadavere ero steso,/ su quel corpo venduto mi sorpresi a pensare/ alla triste bellezza che sfugge alla mia brama// Mi figurai com’era un tempo, maestoso,/ il suo sguardo tagliente di grazie e di vigore,/ i suoi capelli che le fanno un casco odoroso/ il cui ricordo mi ridà forza per l’amore// Ah, sì, con fervore il tuo nobile corpo avrei baciato,/ e dai piedi fragranti fino alle nere trecce/ avrei sparso un tesoro di carezze profonde// se solo qualche sera con un pianto sincero, / tu spegnessi, o grandissima crudele,/ il freddo faro delle tue pupille.”// “Non ho per amante una donna illustre:/ la stracciona trae dalla mia anima tutto il suo lustro;/ invisibile agli sguardi dell’universo beffardo, /la sua bellezza fiorisce solo nel mio triste cuore// Per avere le scarpe ha venduto l’anima// Ha solo vent’anni; il seno già basso/pende da due lati come zucche,/ eppure, tirandomi ogni notte sul suo corpo,/ come un neonato io la succhio e mordo,// e se spesso non ha un obolo/per strofinarsi la pelle, per ungersi le spalle,/ la lecco in silenzio con più fervore/ che Maddalena in fiamme ai piedi del Salvatore// Signori, non sputate ingiuria, né lordura/sul viso truccato di questa povera impura/ che la dea Fame partorì una sera d’inverno/costretta a sollevarsi la gonna all’aperto// Questa bohème è il mio tutto, la mia ricchezza;/ perla, gioiello regina duchessa , /colei che m’ha cullato sul suo grembo vincitore/ e che nelle sue mani m’ha riscaldato il cuore.”

4. Il viaggio in India

Dopo aver letto questa bella e cruda poesia, scritta dal Charles nel 1840, a diciannove anni, la madre convince il Consiglio di famiglia a ratificare il suo vagheggiato viaggio in India che – si spera – potrà disintossicarlo dalle “fogne” di Parigi. Ma l’epilogo del viaggio sarà tragicomico.

“La destinazione sarà Calcutta, durata del viaggio circa un anno”, scrive il patrigno, Generale Aupick, ad Alphonse Baudelaire, fratellastro di Charles, vent’anni più grande di lui, insigne procuratore di Parigi. E poi aggiunge, “sarà molto formativo, lo distrarrà da certe idee balzane e un poco folli”. Ma già ai primi scali della nave, presso l’Isola di Maurice, a Bourbon (certe volte la potenza dei nomi!!), Baudelaire si rifiuta categoricamente di proseguire, costringendo il comandante Saliz a improvvisargli un viaggio di ritorno, che sarà piuttosto complicato e laborioso. Di fatto Charles farà ritorno in Francia il 15 febbraio 1842, nove mesi dopo essere partito. E da questa esperienza di viaggio fallito, il cui resoconto grottesco troviamo nella lettera che il comandante della nave scriver al generale Aupick, nascerà appunto…”Il viaggio”, una lunga poesia di cui riportiamo il finale: “Che amara conoscenza si ricava dai viaggi!/ Oggi e ieri e domani e sempre il mondo/ il monotono e meschino ci mostra quel che siamo:/ un’isola d’orrore in un mare di noia”. Probabilmente proprio da quest’unica sua esperienza di mare risale la famosa poesia “L’albatros”, che Pichois (lo studioso di B., fa risalire appunto agli anni 1841-42). “Spesso per divertirsi, i marinai/ catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, / indolenti compagni di viaggio delle navi/ in lieve corsa sugli abissi amari.// L’hanno appena posato sulla tolda/ e già il re dell’azzurro, maldestro vergognoso,/ pietosamente accanto a sé strascina / come fossero remi le grandi ali bianche.// Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!/ E comico e brutto, lui prima così bello!/ Chi gli mette una pipa sotto il becco,/ chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!// Il Poeta è come lui, principe delle nubi/ che sta con l’uragano e ride degli arcieri;/ esule in terra fra gli scherni, impediscono/ che cammini le sue ali da gigante.”

5. Il culto di sé

Diventato maggiorenne, due mesi dopo il rientro “dall’India”, B., chiede di entrare in possesso del suo patrimonio, di circa centomila franchi. Ne ha quanto basta per vivere agiatamente tutta la vita, ma in capo a meno di un anno dilapida la metà delle sostanze. Allora la madre, assistita dal marito, generale Aupick, lo fa mettere sotto tutela. I suoi beni saranno amministrati dal notaio Narcisse Ancelle. Charles, che rimarrà sotto la sua tutela per tutta la sua non lunghissima vita, gli scrive una lettera il 30 giugno 1845: “Quando Mlle Jeanne Lemer (la sua amante n.d.r.) vi consegnerà questa lettera, io sarò morto. Mi uccido – senza soffrire. Non provo nessuno dei turbamenti che gli uomini chiamano sofferenza. I debiti non sono mai stati una sofferenza per me.// Mi uccido perché non posso più vivere, perché la fatica di addormentarmi e la fatica di risvegliarmi mi sono insopportabili. Mi uccido perché sono inutile agli altri e pericoloso a me stesso. Mi uccido perché mi credo immortale e perché spero…”.

Tranne la parte che spetta alla madre, lascia tutto a Jeanne, “compresi i pochi mobili e il mio ritratto (è quello di Courbet, n.d.r), perché lei è il solo essere in cui ho trovato un po’ di pace”. Ovviamente non si ucciderà, ma l’umiliazione di essere sottoposto a tutela come un mentecatto non potrà mai accettarla. Aveva detto alla madre: “Tu mi dai scientemente e volontariamente una pena infinita, di cui non conosci tutto il tormento, il tuo è un attentato alla mia libertà”. Non fa che chiedermi prestiti esorbitanti, visto che il suo tutore non sborsa un franco. Ma a che cosa gli serve il denaro, se non fa che buttarlo via?, dice il fratello Alphonse. In realtà gli serve per pagare il “culto di sé”. ” Compra tre gilet a 40 franchi l’uno, quando a me costano dieci, e io sono un colosso rispetto a lui”. La prodigalità, l’indifferenza al denaro, è propria dei dandies, e lui, a soli vent’anni, ne è la perfetta incarnazione: la testa emerge dal busto, come un bouquet, come una “criniera” – scrive Fèlix Tournachon Nadar, che sarà il suo fotografo e biografo -; i lunghi boccoli neri ricadono sulle spalle di un frac nero sapientemente più ampio di qualche taglia, svasatissimo, a coda di rondine, con le maniche dai risvolti tormentati dalle mani sempre perfettamente curate; da sotto il lungo gilet a dodici bottoni emerge la camicia dagli ampi polsini plissettati; sul candore della camicia s’aggiunge presto la macchia ” sangue blue” d’una cravatta floscia…e poi, il clou dell’emancipazione, i guanti rosa. Giuseppe Montesano ci scriverà una biografia, “Il ribelle in guanti rosa”. “Il dandy stupisce senza mai lasciarsi stupire, orgoglioso della propria aristocratica indifferenza”…Il denaro è indispensabile a chi fa delle proprie passioni un culto; ma il dandy non aspira al denaro come a una cosa essenziale, un credito illimitato potrebbe bastargli; ed egli lascia questa grossolana passione ai volgari mortali”. Ma il denaro gli verrà presto negato e allora lui si annegherà nei “paradisi artificiali”.

6. I paradisi artificiali

Tra novembre e dicembre 1845, B. inizia a frequentare il “Club des hachichins”, un gruppo di amici – Gerard de Nerval, Th. Gautier. Hon. de Balzac, Hon. Daumier, Boissard de Boisdenier – che si riuniscono sotto l’egida del dottor Moreau de Tours, autore di un trattato sull’Hascisc e l’alienazione mentale. Una delle ossessioni di B. è quella di poter arrivare al pieno controllo razionale dell’atto creativo, ed è in questo solco – secondo taluni biografi – che va inserito l’interesse per i “paradisi artificiali”, un interesse scientifico, ingegneristico quasi, che mira a individuare i meccanismi creativi per poterli ricostruire ed evocare con un atto volontaristico senza attendere passivamente l’ispirazione, da cui bisogna guardarsi: “Diffidiamo del popolo, del buonsenso, dell’ispirazione e dell’evidenza”, scriverà nel ” Mio cuore messo a nudo”. “Bisogna voler sognare e saper sognare. Evocazione dell’ispirazione. Arte magica. Mettersi subito a scrivere. Io ragiono troppo”.

Ma, secondo me, Charles era disperato, e si sentiva non amato, oppresso dai rimorsi e da un atroce sentimento di colpevolezza verso la madre che lo ha “rifiutato” e verso se stesso che non ha avuto il coraggio di uccidersi: “sapere uccidere, è creare”, ripeterà più volte lui stesso. Sartre dirà che reprimendo tutti i suoi slanci, curvandosi d’un tratto e per sempre sul piano riflessivo, B. aveva scelto il suicidio simbolico: si uccideva giorno per giorno, ed è con questo spirito che dà inizio al clima dei “fiori del male”, in lui il delitto è concertato, compiuto deliberatamente e quasi per costrizione. Ed eccolo allora creare il mito della grande città, Parigi, con i suoi edifici, i suoi odori, i suoi rumori, i suoi colori, le sue luci, il suo andirivieni, tutto è umano, tutto è poesia a Parigi nel significato stretto del termine. E’ in tal senso – dirà Sartre – che lo stupore da cui i giovani restarono colpiti verso il 1920 davanti alle prime reclame elettriche, all’illuminazione al neon, alle automobili, è profondamente baudelariano. La grande città è il riflesso dell’abisso che stava dentro di lui: la libertà umana. E, paradossalmente, lui che passerà allo storia per il suo maledettismo, per il suo anti-romanticismo, lui che ha sempre odiato la “tirannia dalla faccia umana”, si ritroverà quasi prigioniero, inscatolato, intrappolato nelle secche dell’ umanista classico, nell’ultimo grande romantico dell’Ottocento, proprio attraverso il culto di se stesso e dell’opera umana, lui ultimo fiore malinconico raccolto nel fango parigino: “spargono molti fiori a malincuore/ il loro dolce profumo segreto/ dentro solitudini profonde”.

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