Bellezza e verità sono il fine di ogni ricerca

Albert Einstein, per esempio. Disse: “Lo studio della verità e della bellezza rappresenta una sfera di attività in cui ci è permesso di rimanere bambini per tutta la vita”.

Forse per Einstein rimanere bambini significava tenersi dentro quella costante disponibilità allo stupore che si rivela condizione essenziale nell’ambito di qualsiasi ricerca. Forse il movente stesso della ricerca è costituito proprio dallo stupore.

Poi una ricerca si può realizzare in modo asistematico, emotivo, intuitivo, cercando di stringere in una parola il senso di un fenomeno, oppure si può realizzare cercando di comprendere l’origine e gli effetti di quel fenomeno riconducendo la meraviglia nel rigore di un metodo di scienza. Ma in principio è sempre uno stupore nei confronti di quello che richiama il pensiero e il sentimento con la seduzione di una verità e di una bellezza. A volte la verità e la bellezza ci sorprendono e ci stupiscono alla stessa maniera, con la stessa intensità.

Ad un certo punto, allora, si potrebbe anche dire che la conoscenza compiuta – se una tale conoscenza esiste -, che il desiderio – inevitabilmente insoddisfatto – di una conoscenza assoluta, trovino la loro espressione nella ricerca di quella che Thibault Damour definisce l’eterna armonia del bello e del vero.

Questa ricerca assume i caratteri e le forme culturali che sono proprie del tempo in cui si svolge. E’ inevitabile che sia così, perché al tempo appartengono le ideologie, i metodi, gli strumenti, gli obiettivi, le finalità, il senso stesso del fare ricerca, ogni conoscenza acquisita in precedenza, le modalità con cui la conoscenza acquisita viene elaborata e comunicata.

La domanda che si presenta senza nessuna mediazione, è se il tempo che stiamo attraversando ricerchi l’armonia del bello e del vero, la loro eterna – o anche provvisoria, precaria- coesistenza, o se ogni settore di ricerca non proceda seguendo direzioni che non ne incrociano mai altre.

Ancora senza alcuna mediazione viene da rispondere che la prevalenza della ricerca settoriale, che a volte risulta indubbiamente necessaria, indispensabile, non consenta, o consenta raramente, la ricerca dell’armonia del bello e del vero.

Certo, ogni ricerca disciplinare è sostanzialmente un movimento di approssimazione a qualcosa, ad un nucleo di significato che ha un probabile rapporto con la bellezza o con la verità: con una o con l’altra, però; non con l’ armonia, con la consonanza, l’equilibrio, la corrispondenza, la compenetrazione, con quella identificazione di verità e bellezza sintetizzata dai versi di Keats. La ricerca disciplinare che non apre varchi trasversali, interdisciplinari, non ha possibilità di visione complessiva. La ricerca scientifica ha necessità della filosofia, dell’arte, della letteratura, come quella filosofica, letteraria, artistica ce l’ha della scienza. Senza una condizione di reciprocità non ci può essere alcuna scoperta della verità e della bellezza che si ritrovano nella perfezione esclusiva di un’armonia. Si può verificare un’intuizione, una percezione, ma non la conoscenza; si può immaginare che cosa avrebbe comportato quella scoperta, ma non si può fare esperienza dell’armonia.

Non c’è dubbio che la ricerca settoriale proceda in verticale, verso la profondità, che abbia come finalità lo scandaglio, la soluzione, e non c’è dubbio che la ricerca interdisciplinare si muova verso orizzonti articolati e continuamente cangianti nei quali individua scene e figure e particolari che nel contesto generale assumono una maggiore rilevanza semantica.

Non c’è dubbio neppure che il tempo presente, soprattutto in funzione di quello venturo, abbia bisogno sia del primo che del secondo tipo di ricerca, e che la loro distinzione spesso risulti anche fondamentale e funzionale agli esiti.

Però, forse, si potrebbe tentare di contemperare, attraverso un graduale superamento di alcuni preconcetti e pregiudizi che più o meno consapevolmente contribuiscono a separare la cultura umanistica da quella scientifica.

In fondo basterebbe semplicemente considerare che una creatura non appartiene né alla scienza né alla letteratura. Appartiene al creato, e il creato si compone di materia impastata che per essere compresa pretende sguardi lanciati da innumerevoli occhi, indagini condotte con ogni sorta di strumenti, interrogazioni compiute con una molteplicità di linguaggi, risposte attese con ansie o pazienze, intelligenze razionali, intelligenze emotive, incanti e disincanti davanti ai fenomeni, storie raccontate con numeri e parole, ma anche con silenzi, stupefatti, con sensi rapiti.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 2 giugno 2019]

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