Sic rebus stantibus

Ben altra questione è il comportamento narcisista. Non voglio qui invocare categorie psicologiche cliniche per mancanza di competenza in merito e per il sospetto che esse possano essere talvolta definite principalmente per convenienza – in ogni caso il narcisismo è classificato come disturbo della personalità. Semmai mi propongo di ricordare alcuni aspetti che possono emergere dalla semplice osservazione di chi non ha una precisa formazione in psicologia clinica.


Un narcisista appare genericamente sordo alle espressioni dell’altro. Non esprime nella sostanza delle sue azioni il concetto di rispetto reciproco perché implicitamente pretende uno statuto speciale per il solo fatto di esistere (s’invocano regole di comportamento per gli altri, ma si pretende di essere sopra di esse). Un narcisista vede chi gli è intorno essenzialmente in funzione di “servitù”. E il servizio ha il fine di soddisfare lo smodato bisogno di avere riconoscimento, per quanto vacuo e illusorio esso possa essere.  La ricompensa per chi è “domestico” alla bisogna è esaltazione e deciso credito che gli è concesso dal narcisista, pronto però a spegnere immediatamente il fervore nel momento in cui il “famiglio” avanza una minima critica al comportamento dell’oggetto delle sue attenzioni. E questo desiderio di riconoscimento nel narcisista, che vuole stima e non affetto ed è disposto persino a comprarla se può, rimane sempre insoddisfatto perché ciò che agita il fondo è una drammatica insicurezza e uno spasmodico desiderio di essere accettato. Abbondo di aggettivi contro ogni mio istinto di scrittura nella speranza che le iperboli possano tracciare con una qualche accettabile chiarezza quanto mi sembra pertinente alla situazione – vari sono, infatti, i gradi possibili di narcisismo. Andiamo avanti, però. Nel dialogo che non sia indirizzato a immediate questioni di lavoro (dove il fine è spesso il primeggiare tra i colleghi, considerando le altrui realizzazioni come detrimento alla propria persona), parla di sé. Null’altro argomento attrae concretamente la sua attenzione; preferisce, infatti, la mancanza di cultura perché conoscenza implica paragone, vista fuori di sé, mentre l’ignoranza favorisce l’ammirazione. E se scrive, essenzialmente narra il suo io e la sua quotidianità in maniera quasi pedissequa: la riproposizione del tipo di monologo che ha con gli altri, senza alcun bisogno di estrazione di aspetti universali, forse perché egli/ella, anche solo inconsciamente, ritiene di essere di per se stesso/a tutta l’universalità necessaria. Tendenzialmente, quindi, e indipendentemente dalla collocazione editoriale, finisce troppo di frequente con l’essere solo uno scrivente nel senso di Barthes. E in tutto ciò alla fine c’è il pericolo, spesso la realizzazione, di un progressivo distacco da una percezione chiara della realtà (cui si contrappone naturalmente il continuo elogio delle proprie capacità di discernimento): la bugia diventa una necessità quotidiana per illudersi e plasmare la realtà, soprattutto la disponibilità degli altri – tutto il processo è una forma di auto-illusione. Alla fine tende a subentrare in varie forme la depressione, cui porta la sua “fame” che non può essere saziata.

Tutto quanto ho appena sintetizzato con rozzezza sul narcisismo credo che non abbia nulla a che vedere con Gianluca Virgilio, il cui timore penso possa essere velocemente fugato. Semmai mi auguro di rivederlo impegnato nel preparare i suoi interventi, anche per una rubrica diversa, con cura e attenzione sempre crescenti (un tentativo che ciascuno di noi – la cura e l’attenzione crescenti, intendo – dovrebbe sempre cercare di fare nello scrivere un testo).

Credo che meriterebbe uno scenario editoriale più vasto. Limitare la distribuzione (si va da un editore per la distribuzione essenzialmente, la stampa può essere fatta altrimenti) è una sua precisa scelta. Non cerca il successo. E questo gli fa tremendamente onore.


[“Il Galatino” anno XLVII n. 14 del 12 settembre 2014]

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