Quei libri (forse già letti) da non perdere durante l’estate

Poi mi metterei a leggere un libro del fisico Carlo Rovelli. Magari anche più di uno, tanto sono agili, snelli, vanno dalle ottanta alle novanta pagine, non come le quattrocentocinquanta di Hermann Broch.

Per esempio le “Sette brevi lezioni di fisica”. Nell’ultima si dice che noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo.

Certamente mi metterei a leggere un romanzo di quel grande scrittore che è Luigi Malerba. Senza nessun dubbio “Il Fuoco greco”. Soprattutto per quel dialogo tra Lippas e Leone Foca, dove si dice del potere illimitato della scrittura e dello scrittore, che può creare e distruggere in un attimo, con una sola parola, con un tratto di penna. Può consentire ad un’esistenza di sfuggire all’oscurità e alla mortificazione della realtà portandola nella sfera della finzione letteraria. C’è una frase in questo romanzo che si costituisce come l’espressione più efficace – e più inquietante – dello straniamento da sé che l’atto della scrittura provoca nel soggetto scrivente: dice Leone Foca rivolgendosi a Lippas: “ Siete uno scrittore e io non so se uno scrittore è anche un uomo”.

Certamente leggerei Vincenzo Consolo, soprattutto quel capolavoro che è “Retablo”.

(Di Malerba e di Consolo ho avuto l’onore di essere stato amico, oltre che ammiratore).

Se fosse estate com’è estate adesso e avessi finito un anno della superiore, mettendomi a leggere qualcosa probabilmente sarei incerto se scegliere un libro di Cesare Garboli oppure uno di Pietro Citati. Due critici letterari grandiosi, tra i più grandi del Novecento italiano. Estremamente diversi. Estremamente affascinanti. Ma forse eviterei di scegliere e leggerei “La mente colorata” di Citati e gli “Scritti servili” di Garboli.

Però, poi, me ne verrei da queste parti, e leggerei Vittorio Bodini, per esempio. Il poeta che ha parlato come in un vaticinio, oltrevedendo, perforando il velo opaco, o bisunto, del presente. Ha visto quello che sarebbe accaduto nella dinamica ingovernabile del tempo. Così diceva: “Siamo in un’età/ di grandi riepiloghi./O terribili somme, fra poco/ come le braccia d’una croce, come le pagine/ d’un libro Oriente e Occidente/si chiuderanno su noi./ L’Oriente senza Oriente/ non avrà più mistero/ e l’Occidente non ha più avventura”.

Tutta la poesia di Bodini è attraversata da una relazione con il tempo, con quello soggettivo, con quello della terra, che spesso si annodano in una sola condizione. Non è mai serena questa relazione; anzi, molto spesso ha un carattere di drammaticità. Il passato preme sul presente in modo anche violento, come se volesse essere liberato da una botola, come se pretendesse di resuscitare per poter pronunciare il non detto, affermare l’espressione negata. Allora Bodini si mette ad “auscultare” le voci che provengono dalle profondità del passato e le riferisce, ma si ritrova addosso e dentro anche le voci del presente che reclamano la loro prevalenza su quelle del passato. E’ dalla contemporanea presenza di queste voci che si genera l’esperienza di una scrittura che associa immagini, figurazioni provenienti da campi semantici di cui viene abolita ogni delimitazione, che si sviluppa attraverso processi di stratificazione concettuale. Che in ogni verso manifesta la ribollenza di una passione.

Leggerei le poesie di Vittorio Pagano, con le loro forme serrate, senza sbavature, imperfette talvolta perché imperfetta è la vita. Leggerei quei versi che procedono per avvolgimenti, come se volessero circondare gli esseri e le cose con una fune che li immobilizzi, li renda ostaggi, preda di chi scrive.

Poi leggerei “La betissa” di Antonio Verri. Per la sua spasmodica tensione verso la forma, la sua ansietà di narrazione; per la fantastica ossessione di chiudere in un libro tutto l’universo, nella disperata e fiabesca ricerca di una lingua capace di aderire all’esistenza e alle cose, di impastarsi con esse fino a non distinguersi più, fino al punto di diventare esistenza e cosa: albero fiore bus sospiro neve madre paura sogno desiderio.

Diceva di cercare frasi brevi, pacchetti di suoni, bande sonore e luminose, che potevano raccontare non altro che se stesse. Voleva scorticare righe, aprire varchi, riusare frasi mangiucchiate. Cercava l’artificio nella circolarità, nell’iterazione. Cercava una forma. Oppure solo un gioco. Solo una sbornia. O una messinscena.

Voleva una lingua nuova, Antonio Verri. Che fosse misura e precisione, essenzialità, sonorità, ritmo, il risultato di una mistura di lingue che gli consentisse di costruire il non libro, il testo che genera se stesso, che si riproduce all’infinito, che si sbriciola, si lacera, e poi si ricompone.

Adesso è estate, com’era estate allora, e sono pomeriggi di calura rapinosa, e ho pure finito un anno della superiore. Ma il conto degli anni è del tutto diverso. Poi, i libri di cui ho detto nelle righe sopra in fondo li ho già letti.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 23 giugno 2019]

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