Di mestiere faccio il linguista 12. I nomi, i suffissi e il senso di appartenenza

di Rosario Coluccia

Nelle scorse puntate della rubrica che ogni domenica appare sul nostro giornale ho invitato i lettori interessati a proporre osservazioni e domande. La sollecitazione comincia a funzionare, alcuni scrivono. Un lettore mi pone questioni molto acute. «Esistono delle regole con cui la lingua italiana designa gli abitanti (o cittadini) di un paese o di una città?  In altre parole perché gli abitanti di Roma si chiamano Romani e quelli di Milano  si chiamano Milanesi e non  “Milanani”? e come si chiamano gli abitanti di Aradeo o di Patù? e gli abitanti del Bangladesh si chiamano Bangladeshi o Bengalesi? la questione è venuta fuori anche su Internet, in occasione dell’attentato. Naturalmente gli esempi sono infiniti, e anche se si può sempre ricorrere a un generico “abitanti di XXX” penso che concorderai con me che non è la stessa cosa dire  “sono Galatinese” e sono “un abitante  (cittadino) di Galatina”».

Preciso. Chi scrive dandomi del “tu” («concorderai con me») è mio amico, uno dei miei più amici più brillanti, non ne faccio il nome per discrezione. Sa usare benissimo la lingua italiana,  non commetterebbe mai la leggerezza di abusare del «Tu» in luogo del formale «Lei», come invece si sente sempre più spesso, in diverse situazioni. Questo fenomeno linguistico apparentemente banale  (il «Tu»  che prevale sul «Lei» anche nei rapporti tra sconosciuti) merita attenzione, è una spia del mondo in cui viviamo, forse ne parleremo in una prossima occasione.

Torniamo ai quesiti del mio amico. Non esiste una regola rigida, per capirne di più dobbiamo rifarci al latino, da cui la nostra lingua discende (così è per l’italiano, così è anche per il francese, per lo spagnolo, per il portoghese, per il rumeno e per altre lingue). Basterebbe solo questo, la grande opportunità  che rappresenta il latino come strumento utile a farci capire molti fenomeni dell’italiano, per certificare l’importanza di mantenere l’insegnamento del latino nelle nostre scuole e nelle nostre università. Bisogna farlo bene, naturalmente. Se ci sappiamo fare, se noi professori siamo bravi, addestriamo gli studenti a riflettere sul funzionamento dell’italiano, mettendoli nella condizione di paragonare le strutture della propria lingua con quelle della lingua madre, il latino. In questo modo lo studente ragiona su come funziona la mente: il linguaggio appartiene alla sola specie umana, abbiamo imparato a parlare poche decine di migliaia di anni fa (un soffio, rispetto all’età del nostro pianeta),  per questo ci distinguiamo rispetto a tutti gli altri viventi. Altro che «aboliamo il latino, non serve», come a volte si ripete.

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