Di mestiere faccio il linguista 7. La lingua nell’era del calcio al femminile

I lettori si tranquillizzino. Non mi sono trasformato in una sorta di sindacalista non richiesto delle calciatrici, non dimentico il mio mestiere. Ma anche la lingua si presta a considerazioni interessanti. Laura Giuliani, altra calciatrice molto nota, ha dichiarato più volte di voler essere definita «portiere» e non «portiera», rifiuta la declinazione al femminile del ruolo che ricopre all’interno della squadra. Per saperne di più cerco nella rete, rimango sconcertato rispetto a reazioni che riguardano la ragazza, il suo aspetto fisico, il suo fidanzato, la sua vita privata, addirittura il suo nome. Eccole, un po’ a caso: «Bellina. Voto 6.5» (cosa c’entra?); «Fidanzata con un BV (so più bello io)» (anche qui l’aspetto fisico); batte tutti il seguente: «Laura, un nome da puttana» (quale insensato cortocircuito provoca in questo odiatore seriale un simile commento che ignora perfino il nome della donna venerata da Petrarca? Petrarca che «in vita di Madonna Laura» e «in morte di Madonna Laura» ha scritto un immortale canzoniere di 366 poesie letto da milioni di individui, fonte di ispirazione per poeti di tutto il mondo, in ogni epoca).

Torniamo alla lingua e alla richiesta di Laura Giuliani, preferisce essere qualificata «portiere» e non «portiera». Forse «portiera» non le piace perché può far venire in mente una signora che ha l’incarico di custodire e talvolta pulire uno stabile (e Laura Giuliani fa un lavoro diverso). Ma non è così: Buffon e altri atleti famosissimi sono orgogliosi di definirsi «portieri», per milioni di individui costituiscono modelli da imitare (come la pubblicità dimostra) e a nessuno viene in mente che facciano un mestiere diverso da quello di difendere la porta dagli attacchi degli avversari, cercando di evitare che la palla entri in rete. Si intitola Goal una poesia del Canzoniere di Umberto Saba che con accenti fortemente lirici così inizia: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non veder l’amara luce». Non si vede perché una calciatrice non possa esser definita «portiera». La parola in sé non ha nulla di negativo.

Entrano in ballo altre questioni. La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce da anni un argomento di riflessione non solo per la comunità scientifica ma per la società intera. Il tema è venuto alla ribalta del mondo dell’informazione in particolare da quando due donne hanno assunto il ruolo amministrativo più importante in due grandi città: Virginia Raggi e Chiara Appendino, rispettivamente a Roma e a Torino, sono «il sindaco» o «la sindaca»? La questione si pone per loro (e per altre amministratrici meno note), vale in genere per le donne che raggiungono cariche un tempo precluse all’universo femminile: quando parliamo di donne diremo che sono chirurgo (o chirurga), ingegnere (o ingegnera), ministro (o ministra), magistrato (o magistrata), rettore (o rettrice)? Sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adottare un linguaggio consono alle nuove realtà sociali sono forti. Le ragioni di questo rifiuto risiedono, a seconda dei casi, nell’incertezza di fronte a forme femminili nuove, nella convinzione che la forma maschile possa essere usata anche in riferimento alle donne e, frequentemente, in valutazioni che potremmo definire di tipo estetico: i nuovi sostantivi femminili sono “brutti”, “non piacciono”, di conseguenza sono inaccettabili.

L’episodio forse più noto di questo atteggiamento molto diffuso risale al dicembre 2016. Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, ritirando a Roma il premio De Sanctis per la saggistica, durante il discorso di ringraziamento, rivolgendosi con tono fermo all’ex ministra all’Istruzione Valeria Fedeli, disse: «Valeria non si dorrà se insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca». Un applauso accolse le sue parole, evidentemente condivise da uomini e donne di varia cultura e ideologia.

Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrerebbero dunque risiedere in ragioni di tipo estetico, risponderebbero esclusivamente a fattori di gusto («ministra, che brutta parola, suona male!»), magari di importanza («c’è ben altro di cui parlare, le cose serie sono altre!»). In realtà sono, sotterraneamente, di tipo culturale e forse addirittura ideologico. Perché certe parole sarebbero «orribili» e «abominevoli» se declinate al femminile?

Non riusciamo ad abituarci al fatto che, per la prima volta nella storia, le donne raggiungono posizioni di responsabilità un tempo esclusivamente maschili. Parole come maestra, infermiera, cuoca, ecc. non suscitano obiezioni; troviamo ovvio e naturale parlare così, le donne praticano da sempre quelle attività. Restando in ambito sportivo, non suscitano obiezioni sciatrice o nuotatrice (qualcuno definirebbe Federica Compagnoni e Isolde Kostner sciatori o Federica Pellegrini nuotatore?). Rivendicando la propria identità, giustamente, Milena Bertolini, che guida la nazionale femminile di calcio, ha chiesto di essere definita non mister, ma miss (se proprio dobbiamo usare termini inglesi e non italiani). Ora che le donne arrivano ad arbitrare importanti partite di calcio, dovremo trovare forme adeguate di espressione. La francese Stéphanie Frappart dirigerà la finale della Supercoppa Europea di calcio maschile a Istanbul: «Stéphanie fa la storia», titola il «Messaggero» del 3 luglio, p. 34. Nell’articolo, più volte, si parla di «arbitro donna», «arbitri donne». Ancora un passetto e avremo digerito la novità, linguistica e ideologica: usiamo solo arbitra (al singolare), arbitre (al plurale), va meglio così.

La società cambia: cambiano i ruoli delle persone e dunque, semplicemente, la lingua rispecchia i mutamenti della società. Oggi, con una società diversa, vanno declinati al femminile nomi finora pensati e usati al maschile, seguendo le regole della nostra grammatica, senza alcuna violazione della norma. Si intitola «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, un libro dell’Accademia della Crusca, con un saggio di Giuseppe Zarra, interventi di Claudio Marazzini, a cura di Yorick Gomez Gane.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di domenica 11 agosto 2019]

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