Che cosa significa tradurre

L’esperienza amorosa, si diceva, come metafora della traduzione. Ed in effetti, al centro dell’esperienza amorosa così come della traduzione vi è il nostro rapporto con l’altro, che non finiamo mai di conoscere, la cui vita non finiamo mai di “tradurre” nella nostra, e verso cui tendiamo indefessamente, animati da una volontà di scambiare il nostro vissuto con quello della persona amata. L’altro, dunque, si configura come il cardine su cui ruota tutta la poetica della traduzione – secondo quanto recita il sottotitolo -, ovvero la riflessione sul lavoro del traduttore-poeta di poeti, come vuole l’assunto iniziale: “soprattutto di questo [la traduzione di poesia] si dirà nella pagine che seguono” (p. 11). Prete innanzitutto riflette sul suo lavoro, convinto, come dirà più avanti, che “ogni traduzione, per un poeta, è una stazione nel cammino della sua propria poetica e, allo stesso tempo, un’esperienza profonda di dialogo nel convivio risonante di voci che chiamiamo letteratura” (p. 47). La riflessione sulla traduzione, dunque, non potrà che avvenire nel solo modo proprio di un poeta, per figure.

Una figura importante è quella dell’ospitalità. Il poeta con cui Prete qui dialoga è Jabés de Il libro dell’ospitalità, cui va il ricordo dell’autore (“Ricordo…”, p. 15), con significativa digressione memoriale di cui è legittimo che si nutra ogni esperienza di poetica. Ma ecco la definizione di questa figura: “L’ospitalità è l’esperienza di una cultura che riconosce l’altro senza sottrarre all’altro la sua alterità o diversità, la sua identità di carattere e sapere e costume, e nello stesso tempo pone colui che ospita nella condizione di non dover rinunciare alla sua singolarità, alla sua identità” (p. 16). Il traduttore “deve trovare tutte le risorse e le invenzioni e i modi per costruire un sistema di equivalenze con il testo originale” per farne una “replica e insieme [una] reinvenzione”. Come il rapporto d’ospitalità, “il testo della traduzione è il racconto del dialogo avvenuto tra le due parti, tra i due mondi”, nessuno dei quali perde nulla nel rapporto reciproco.

Tuttavia “è la nostra lingua … il luogo dove la prima lingua, quella dell’originale, è davvero conosciuta, esplorata, interrogata” (p. 17). La nostra lingua – e siamo alla seconda figura, presa in prestito dal Leopardi di Zibaldone 963, 20-22 aprile 1821, sempre presente nella riflessione di Prete – è la “camera oscura della prima lingua: “La visione della prima lingua, della lingua da cui si traduce, muove dall’universo linguistico di colui che traduce: è questo il recinto, la “camera oscura” da cui la prima lingua appare” (p. 18). Per dirla in altro modo, “colui che traduce” è “la parete su cui appare l’immagine” o “la lastra su cui si imprime l’immagine” della prima lingua. E’ qui spiegato il senso del titolo: “Tradurre è stare all’ombra dell’originale, ma anche accogliere l’originale in una zona d’ombra, produrre un gioco di ombre” (p. 19). La prima lingua che proietta la sua ombra sulla nostra lingua e ci consente di accoglierla, di farla rivivere in noi, diventa figura di questa rapporto tra le lingue, la pluralità delle lingue, immaginabile solo se si ipotizza una “lingua in sé”, una “lingua che non si mostra ancora incarnata nelle singole lingue” (p. 20) e che testimonia di qualcosa “che unisce tutte le lingue” e “trascorre tra tutte le lingue”, una sorta di unione linguistica primordiale e mitica che permette la comunicazione tra gli uomini e li rende uniti. Intanto, però, seguendo Leopardi, Prete ribadisce che dalla propria “camera oscura” occorre partire per tradurre la prima lingua: “La “familiarità” con la propria lingua è la condizione perché l’altra lingua si faccia da estranea prossima: la conoscenza di sé, potremmo dire trasponendo sul piano antropologico, è premessa e condizione del rapporto con l’altro” (p. 20).

“L’ascolto, l’esercizio assiduo dell’ascolto, può essere il primo movimento verso l’atto del tradurre” (p. 23). Ma non basta. Occorre essere poeti per tradurre poeti, come si è detto. E questo porta ad un’altra conseguenza, che sia ”possibile inventare a partire da un’esperienza altrui” (p. 27). Il tradurre diventa allora “l’occasione di una presa di parola, l’occasione di un esercizio che, dialogando con l’altro, mette in gioco il timbro più proprio, e trasforma la risonanza di un verso in un nuovo verso” (p. 28). La traduzione come esercizio della poesia, ma anche la traduzione come esegesi: infatti, “la più limpida interpretazione di un testo è la sua traduzione” (p. 43). Prete parla di esegesi “proprio nel senso patristico e medievale, cioè disposizione dinanzi al testo come dinanzi a una parola che, ascoltata, cresce nello spazio interiore di colui che ascolta, diventa un atto di vita” (p. 44). In quanto esegesi, la traduzione muta col mutare delle generazioni di poeti, ognuna delle quali ha bisogno delle proprie traduzioni-interpretazioni. Perciò si comprende bene come ogni traduzione sia provvisoria e tenda, senza mai raggiungerla, alla traduzione perfetta. In questo senso, allora, scrive Prete, “la pluralità delle traduzioni è in qualche modo una replica alla pluralità delle lingue” (p. 51).

Nella società odierna occorre prendere atto della presenza in ogni luogo di una pluralità linguistica come corrispettivo di una pluralità di identità culturali conseguenti al fenomeno della migrazione. Ebbene, qui si fa palese l’attualità del tema della traduzione in rapporto ai moderni migranti. Scrive Prete che “è importante favorire iniziative che permettano a chi emigra allo stesso tempo di apprendere la nuova lingua e di conservare, accanto alla nuova lingua, la sua propria lingua. A partire da queste due situazioni si può istituire il dialogo, la diversità si può rivelare ricchezza, le storie si possono confrontare” (p. 52).

Belle pagine Prete riserva al Don Chisciotte e alle finzioni leopardiane nate a margine degli studi filologici del recanatese; e poi a Walter Benjamin, i cui insegnamenti l’autore ha sempre presenti, soprattutto in merito alla “tensione verso un’oltrelingua” (p. 84) che anima la riflessione sulla traduzione dello scrittore tedesco.

Nello spazio di una recensione non è possibile dar conto di tutto ciò che l’opera contiene, delle osservazioni e dei rilievi particolari. L’excursus dei poeti novecenteschi (da Ungaretti a Montale, a Quasimodo, a Solmi, Valeri, Caproni, Sereni, Luzi, Fortini, Giudici) che chiude l’opera è, come si è detto all’inizio, un laboratorio in cui Prete sottopone ad esame il rapporto del poeta-traduttore con gli altri poeti. Sono questi poeti-traduttori gli esempi da seguire. Come? Ce lo dice lo stresso Prete: “Il traduttore che precede acquista per l’altro traduttore che segue la funzione di un esempio da condurre oltre, da inverare, o anche contraddire. Quel che accade nel campo della poesia si ripete nel campo della traduzione della poesia. All’ombra di un’esperienza di traduzione occorre sostare e da quell’ombra occorre anche allontanarsi. Proprio la ricerca del modo diverso di tradurre attiva l’invenzione…” (p. 50). Come non si può poetare se non si conoscono i poeti che ci hanno preceduto, così, sembra dire Prete, non si può tradurre se non si conoscono modi e forme usate dai traduttori del passato. Il concetto di traduzione coincide qui col concetto di tradizione.

In conclusione, a me pare che questo libro doni ai poeti-traduttori, figure così bistrattate dal mercato di ogni tempo (lo stesso Prete ci ricorda en passant i “miserevoli compensi… riservati ai traduttori”, p. 62), una sorta di breviario sulle ragioni del traduttore, sulla loro instancabile opera. Ma non solo.  Scrive Prete che “la traduzione appartiene, oltre che al campo della linguistica e dell’ermeneutica, al campo dell’antropologia” (p. 60). L’antropologia, ovvero lo studio dell’uomo, delle sue strutture mentali e culturali: la poetica della traduzione parla proprio di questo, e non certo solo agli addetti ai lavori, ma a tutti gli uomini.

[Recensione a Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2011), “Il Galatino” di venerdì 15 aprile 2011, p. 4.]

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