Di mestiere faccio il linguista 15. Nomofobia

Il sito https://www.dipendenze.com/nomofobia/, della Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche (Di.Te.), elenca i comportamenti che caratterizzano la dipendenza patologica dal cellulare rispetto a una equilibrata (o almeno controllata) modalità di utilizzo dello stesso. Possiamo provare a ragionare su noi stessi, tentando una sorta di autoanalisi. Chiediamoci se:

  • ricorriamo al cellulare anche al di là delle normali esigenze di comunicazione (ad esempio lo usiamo spesso per navigare a caso e senza motivi reali, per guardare o esibire ripetutamente fotografie nostre o di altri, per controllare continuamente su WhatsApp lo “stato” altrui, ecc.);
  • usiamo il cellulare anche se siamo in compagnia o in luoghi poco pertinenti (incuranti di non rispettare regole di buona educazione o di elementare riservatezza, indifferenti al disturbo che arrechiamo agli astanti disinteressati alle nostre vicende, telefonando a lungo e ad alta voce);
  • possediamo uno o più dispositivi e portiamo sempre con noi il caricabatterie, per paura che la batteria si scarichi;
  • controlliamo ripetutamente lo schermo, per vedere se sono arrivati messaggi o chiamate (pur sapendo che ogni novità è segnalata in automatico con un rumorino o trillo specifico, che possiamo risparmiarci solo attivando la modalità “non disturbare”). 

Molti non riescono a fare a meno del telefonino e della connessione con internet in nessun momento della giornata. Mantengono il cellulare sempre acceso; al momento di dormire lo piazzano sul comodino, immediatamente raggiungibile anche nel cuore della notte. Per la necessità di essere rintracciabile in ogni momento, per tenersi continuamente in contatto con parenti e amici, per l’esigenza di tenere sotto controllo  situazioni impreviste, per garantirsi un generale senso di sicurezza, spiegano a seconda dei casi gli intervistati. Alcuni studi sostengono che la spinta a controllare compulsivamente il cellulare innesca un meccanismo analogo a quello del gioco d’azzardo, una vera e propria dipendenza: chi ne è soggetto viene incoraggiato a svolgere un’attività che promette piacevolezza, alla quale non riesce a sottrarsi.

Sono consapevole dei rischi che corro in questo momento, scrivendo le cose che scrivo. Alcuni potrebbero accusarmi di essere retrogrado e passatista, incapace di accettare il meraviglioso nuovo che avanza. Una sorta di luddista del terzo millennio, reincarnazione di quegli esponenti del movimento operaio inglese che agli inizi del secolo XIX lottavano contro l’introduzione delle macchine nell’industria, convinti che avrebbero solo aumentato in maniera intollerabile la disoccupazione. E invece (potrebbero dire i miei detrattori) l’automazione dei processi industriali, e oggi l’introduzione dei robot, alleviano in parte la fatica manuale. Anche se impongono ritmi di lavoro sempre più serrati e non risolvono il problema della disoccupazione (mi azzarderei a replicare io). Quindi automazione e robotica sì, ci mancherebbe; e contemporaneamente nuova organizzazione del lavoro, che contemperi in forma equilibrata le esigenze del profitto e quelle dei lavoratori. 

Riflettere su quel che succede intorno a noi aiuta a capire. Il digitale è un elemento fondamentale, anzi irrinunciabile, della nostra vita. Ma constatarne la presenza non può eludere le necessarie domande sulle conseguenze che la diffusione parossistica della rete ingenera nella collettività, a partire dai soggetti più giovani e quindi più fragili. Confesso la mia perplessità nel vedere bambini di sei-sette anni intenti a maneggiare tablet, preadolescenti di otto-dieci anni che usano costantemente WhatsApp. Mi disturba non poco sapere che adolescenti delle medie restano connessi fino a notte alta per chattare. Quando sono incontrollati, i fenomeni possono diventare patologici. È stato inventato un termine per etichettare gli eccessi: vamping, connesso con vampiro, l’essere che nelle antiche credenze dell’Europa centrorientale (sviluppate da un ricco filone letterario e cinematografico) vive di notte.  È recente l’introduzione nella lingua italiana del prestito inglese Neet, acronimo di «Not (engaged) in Education, Employment or Training»: indica persone che non studiano, non lavorano, non sono impegnate in attività formative. Dagli inizi di questo millennio è entrata anche una parola di origine giapponese: hikikomori. Il termine all’origine significa ‘stare in disparte’ e indica un ‘adolescente o giovane adulto che ha rinunciato a qualsiasi forma di integrazione e di realizzazione sociale, cercando livelli estremi di isolamento’. Giovani che non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. Dormono durante il giorno e vivono di notte, evitando qualsiasi contatto fisico con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della rete e dei social con profili fittizi, senza confronti reali con la società che hanno abbandonato.

Nomofobia, vamping, neet, hikikomori. La lingua, come sempre avviene, trova le parole per rappresentare le nuove situazioni della società in cui viviamo. Ma non è una questione linguistica. Possiamo restare indifferenti di fronte ai fenomeni che questi neologismi simboleggiano?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 6 ottobre 2019]

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