Il «prismatico genio»: momenti della ricezione letteraria di Leonardo nel Novecento

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Uno dei primi a occuparsi di Leonardo, nel Novecento, è stato Giuseppe Ungaretti, per il quale è stato costante motivo di riflessione […].

Ma, al di là delle riflessioni ungarettiane degli anni Venti e Trenta, una vera e propria rilettura novecentesca, di gusto moderno, di Leonardo comincia forse in Italia soltanto nel 1939, anno in cui a Milano si svolse una grande Mostra leonardesca, che ebbe «un carattere eccezionale, per la complessità del tema affrontato e per le congiunture storico-politiche»[2]. Quella, infatti, fu anche un’occasione che ebbe il regime per esaltare il “genio italiano” e il fascismo. «Con un’ottica distorta – è stato osservato ‒ Leonardo era considerato l’antesignano dell’“uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso duce»[3]. La mostra allestita  sui due piani del Palazzo dell’Arte del capoluogo lombardo, attraverso venticinque sale, intendeva far conoscere non solo il sommo artista, ma anche lo scienziato e l’inventore, come era provato ormai dai suoi manoscritti, «fitti di annotazioni, di disegni tecnici e anatomici, sistematicamente pubblicati dal 1880»[4]. Per la prima volta vennero esposti macchine e modelli leonardeschi ricavati proprio dai manoscritti, che colpirono fortemente l’immaginazione dei visitatori. E la mostra rappresentò per l’appunto «il momento fondante, nonostante qualche eccesso mitografico, della riscoperta di Leonardo scienziato»[5].

In quella occasione, Carlo Emilio Gadda pubblicò, sul numero del 16 agosto 1939 della  «Nuova Antologia», una lunga, memorabile recensione della mostra, poi compresa nel volume Le meraviglie d’Italia, che costituisce «forse la maggiore eredità lasciata dalla manifestazione meneghina»[6]. Fin dall’inizio, Gadda non nasconde il suo stupore, la sua meraviglia di fronte a tanta bellezza e genialità:

Avvicinare Leonardo! Ci ritroviamo, davanti a lui, come alla sorgente stessa del pensiero. Qui la nativa acuità della mente si dà liberissima dentro la selva di tutte le cose apparite, dentro la spera di tutti i «phaenomena»: a percepire, a interpretare, a computare, a ritrarre, a profittare per «li òmini» del profitto di ragione e di verità[7].

Poi passa puntualmente in rassegna le venticinque sale, descrivendo e commentando, a suo modo ovviamente, con la genialità e l’inventività linguistica che gli erano proprie, i materiali esposti. Incomincia quindi dalla sala dell’iconografia vinciana e da quella dei documenti e dei luoghi dove Leonardo visse e operò (la Firenze medicea, la Milano sforzesca, la Francia di Ludovico XII e di Francesco I), per passare alla sala dedicata alla sua «biblioteca», che «ci dà – scrive Gadda – brividi di delizia»[8]. Successivamente percorre, con particolare attenzione, gli spazi riservati alle ricerche leonardesche nel campo delle maggiori discipline scientifiche: astronomia, matematica e geografia, idraulica, cartografia, biologia, botanica, anatomia, ottica e prospettiva, acustica e musica, meccanica, architettura navale. Queste sale, scrive Gadda, «esibiscono copia immensa di disegni e modelli, di vividi espunti del pensiero annotato»[9], e così commenta “incantato”: «Leggiamo e guardiamo in una sorta d’incanto, verso tutte le direzioni della prassi, della conoscenza, del mestiere, del metodo»[10].

Allo stesso modo, non manca di esprimere la sua ammirazione nei confronti del disegnatore:

Leonardo è soprattutto un meraviglioso disegnatore: tutti sanno. E disegnava, del mondo che gli è così nitidamente apparito, ogni forma e parvenza: fiori, angeli, visceri, paesi, torri, farfalle, macchine, uomini in rissa e coagulo e cataratta di cavalieri ad Anghiari, e la Madonna sotto la stillante rupe, e il volto del Cristo[11].

Nel corso del lungo articolo, che qui è impossibile ovviamente ripercorrere in tutti i suoi momenti, Gadda si sofferma e illustra alcune invenzioni  e riporta spesso frasi e brani tratti dai manoscritti. A proposito della scrittura leonardesca, ne mette in rilievo la prodigiosa, innata qualità:

Stupiamo noi una così giovanile aderenza all’obbietto, al fatto; un così stupito amplesso della natura: e la innocente sillaba, quasi d’un bimbo, nel tempio, che proferisca verità eterne, ignote ai dottori. Sì, certa modalità infantile onde il pensiero di Leonardo si estrinseca, è l’infanzia stessa dell’arte: (nel senso di tecnica). Vi ha una sua parte il secolo, ed è poi necessariamente ingenuo quell’appunto che stendiamo per memoria, e quasi nel segreto. Ma una tal qualità della frase è legata, credo, al momento più lucidamente euristico del pensiero, è la limpidezza dell’acqua nella sua fonte. Nessuna pseudo-organizzazione del pensiero: nessuna messinscena sistematica. Il costoso addobbo sistematico, a cui tanta gente, e anche di prim’ordine, dedica tanto clamorosa e tanto inane fatica, è perfettamente sconosciuto all’italiano Leonardo[12].

Alla fine, si sofferma sulle opere d’arte collocate nelle ultime sale, insieme a quelle del Verrocchio, il suo maestro, degli allievi, dei copisti. Nota l’assenza di alcuni capolavori, conservati al Louvre (dalla Gioconda alla Vergine, Sant’Anna e il Bimbo, alla Vergine delle Rocce), e in altri musei stranieri, mentre «delle pinacoteche italiane – scrive ‒ c’è tutto»[13]. E comunque – osserva – si tratta pur sempre di «una sì stupefacente raccolta, quale credo arduo pervenire ad aver sott’occhio in nessuna occasione della vita»[14]. Tra i dipinti esposti lo colpisce «il celeberrimo Battista»[15], del quale dà una sorprendente, imprevedibile definizione: «l’equivoco e dulcoroso pollastrone che segnerebbe il culmine del processo astrattivo, platonizzante del divino Leonardo»[16].

Tra i letterati che si occuparono di questa grande mostra, che peraltro venne criticata dal maggior critico d’arte italiano del Novecento, Roberto Longhi, che la definì addirittura «abominevole»[17], figura pure un altro scrittore-ingegnere come Gadda, il lucano Leonardo Sinisgalli, anch’egli particolarmente sensibile, pour cause, all’aspetto scientifico dell’attività di Leonardo da Vinci […].

***

Un altro momento fondamentale per la fortuna di Leonardo nel Novecento è rappresentato dal 1952. Quell’anno ricorreva il cinquecentesimo anniversario della nascita e il 15 aprile, infatti, incominciarono a Vinci le celebrazioni ufficiali per l’importante ricorrenza.  Tra i presenti a quell’evento, nel borgo toscano, c’era un cronista d’eccezione, Eugenio Montale, allora redattore del «Corriere della Sera», dove il giorno dopo uscì appunto il suo “pezzo”, dal titolo A Vinci nella casa di Leonardo. Un “giornalista” come Montale ovviamente non poteva limitarsi a fare la semplice cronaca della giornata e infatti la arricchisce con le sue ironiche e a volte pungenti osservazioni, non tralasciando nemmeno di raccontare gustosi aneddoti, di riferire episodi curiosi. Inizialmente accenna, ad esempio, al rapporto controverso, difficile tra il «prismatico genio» (così lo definisce) e Firenze, che confermò nei secoli, secondo Montale, la «diffidenza» che Lorenzo il Magnifico ebbe nei confronti del giovane Leonardo:

Leonardo fu un toscano di mente universale quando la Toscana era una culla di dèi; ma quando la figura di lui, divenuta leggendaria, spaziò nelle regioni delle favole e uscì dalle nubi, mutata in un personaggio che sta tra il dottor Faust e il demogorgone di Shelley; quando si cominciò a vedere in Leonardo un Dante con il cervello di un Platone e le qualità… accessorie di un Michelangelo e di un Galileo, e quando infine entrarono nella mischia il dottor Freud ed ogni sorta di scienziati e di scientisti, Firenze se non proprio tutta la Toscana, ebbe l’aria di volgere le spalle al demiurgico genio nato a Vinci il 15 aprile 1452[18].

Poi descrive la «modesta casipola» di Anchiano, frazione di Vinci, dove il «prodigioso fanciullo» ebbe i natali e dove ‒ scrive ‒ «catturando lucertole, grilli ed anguille, s’iniziò – lui , uomo senza lettere – allo studio della filosofia naturale»[19]. E in questo brano si può notare quasi un’autocitazione da alcuni versi de I limoni («… dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla»[20]).  Ma anche più avanti, nell’articolo, compare un altro animale che fa parte del bestiario poetico montaliano ed è quando scrive: «Un tempo, la casa di Leonardo, reduce da Milano, fu protetta dagli intrusi, qui, a Firenze, da un porcospino arrabbiato»[21], che rimanda a «i porcospini / s’abbeverano a un filo di pietà»[22], dell’ultimo verso di Notizie dall’Amiata.

Dopo aver riferito dei  discorsi ufficiali pronunciati quel giorno dalle autorità presenti, tra i quali figuravano il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, e il capo del Governo, Alcide De Gasperi, Montale si sofferma sulla tappa finale della cerimonia che ebbe luogo a Firenze dove venne inaugurata una mostra di disegni e di autografi alla Biblioteca Laurenziana. A questo punto, il poeta riprende il tema dei rapporti tra il capoluogo toscano e Leonardo, tema nel quale non è difficile intravedere una componente autobiografica, e scrive:

E se anche la Firenze d’oggi ‒ che resta fedele al titanismo di Michelangelo fino alla parodia di certi recenti artisti e scrittori ‒ non possa pienamente riconoscersi in lui, Firenze cosmopolita rende ormai omaggio al mito d’un Leonardo platonico ed universale, all’enigma d’un artista che dipinse piuttosto divinità e chimere che uomini del suo tempo[23].

Anche Emilio Cecchi, nel 1952, intervenne su Leonardo con un lungo e articolato saggio riguardante specificamente la sua attività artistica, dal titolo Considerazioni su Leonardo, apparso sulla rivista «Lo Smeraldo». Cecchi delinea un ritratto del sommo pittore, di gusto e sensibilità moderna, anzi modernista. Non a caso, parte da una auctoritas indiscussa in questo campo, Baudelaire, e da una sua lirica famosa, Les Phares, tratta da Les fleurs du mal, nella quale il grande poeta francese «rievoca ed interpreta il mondo leonardesco, ‒ scrive Cecchi ‒ con una intensità visionaria e una esattezza d’intonazione critica che, è lecito affermare, non erano state lontanamente concepibili, da quando l’Epifania, la Vergine delle rocce, la Gioconda e la Santa Anna furono dipinte»[24]. In quella lirica infatti, in cui rievoca con fulminanti definizioni alcuni grandi artisti, «egli presenta in maniera diretta la figurazione nella quale, secondo lui, è traducibile l’essenza della loro opera»[25]. Ecco i versi riguardanti Leonardo della lirica di Baudelaire citati da Cecchi:

Léonard de Vinci, miroir profond et sombre,

Où des anges charmants, avec un doux souris

Tout chargé de mystère, apparaissent à l’ombre

Des glaciers et des pins qui ferment leur pays.

«Con un breve inciso: – commenta lo scrittore – miroir profond et sombre, Baudelaire costituì criticamente la personalità di Leonardo sopra un piano diverso»[26] rispetto a tutte le precedenti interpretazioni. E anche Cecchi, partendo da qui, intende toccare nel suo saggio qualche aspetto particolare dell’arte e della fortuna leonardesca che  lo interessa in special modo, superando la formula di «perfetta imitazione del vero»[27] che ne aveva dato la critica a cominciare dalla precettistica naturalistica e accademica del Rinascimento. Così passa in rassegna alcune tappe dell’attività artistica di Leonardo, incominciando dalla prima fase nella quale nella sua pittura  «con stacco deciso dalla direzione lineare si inizia quella forma chiaroscurale e luministica che, in modi affatto nuovi, rapidamente egli portò alla intensità e complessità della Vergine delle rocce»[28] […]

Ma è verso la fine del saggio che Cecchi arriva al nucleo centrale della sua interpretazione, estremamente raffinata e profonda, allorché accenna ai «tre dipinti supremi»[29], la Vergine delle rocce, la Gioconda, la Sant’Anna e Maria, nei quali – scrive ‒ «le figure non fanno né debbono far nulla, non conseguire ed esprimere nulla mediante l’azione»[30], perché

il loro significato lirico unicamente consiste nell’identificarsi della loro ragione individuale con la ragione cosmica. Sono perché sono, in un mondo che le sostiene e rivela […] nel cristallo d’una legge d’ordine immanente. La loro unione col cosmo non è entusiastica, né erotica. Non ha illusioni e non ha fini; ma è assolutamente libera e contemplativa; è un attuale possesso, come potrebbe essere nella mente di divinità in attitudine di mesto riposo[31].

Qui riprende anche la straordinaria intuizione critica di Baudelaire, perché sostiene che in fondo Leonardo, nel corso della sua lunga carriera, non ha dipinto che un soggetto, un quadro solo. Egli infatti «era perseguitato da questo tema lirico di montagne scoscese e azzurrastre, avvolgimenti di plumbee, tarde e rapinose fiumane, e apparizioni, velati scintillamenti di ghiacciai in una luce di miraggio e di sogno»[32]. E in tali immagini, ribadisce Cecchi alla fine del suo saggio, «si realizza quell’immedesimarsi di ragione individuale e ragione cosmica, cui prima s’era accennato […] una forma riconoscibile nel mondo e l’altra nello spirito umano: una visione cosmologica e una visione psicologica»[33].

***

[…]

Per finire, vorrei citare ora due scritti, risalenti agli anni Ottanta, di  Italo Calvino che si sofferma su due altri aspetti della poliedrica, inesauribile attività di Leonardo,  e cioè, in uno, sulle ricerche di ottica (anche qui, quindi, un aspetto scientifico) e, nell’altro, sulla sua scrittura, anzi sulla sua “battaglia con la lingua”. Nel primo articolo, nell’ambito di un discorso più generale sulla teoria della visione, Calvino accenna alle meditazioni di Leonardo sull’ottica, le quali

sono ora ispirate al suo modo geniale di aderire alla realtà fuor da ogni schema, ora allo sforzo di far collimare l’esperienza con la tradizione imparata sui libri. È lui il primo a capire che il nervo ottico non può essere un canale cavo,  come credevano l’antichità e il Medio Evo arabo e cristiano, ma qualcosa di multiplo e complesso, altrimenti le immagini finirebbero per sovrapporsi e confondersi. Intanto, nei suoi quadri, è la natura fisiologica, non concettuale della visione che egli cerca di cogliere[34].

Il secondo scritto, invece, è la terza delle Lezioni americane, apparse postume nel 1988, quella dedicata all’Esattezza, in cui Calvino affronta, come si diceva, il problema della scrittura di Leonardo. Nelle ultime tre pagine egli parla, infatti, del rapporto difficile che il sommo artista, «omo sanza lettere», come lui stesso si definiva,  aveva con la parola scritta. Infatti i codici leonardeschi ‒ osserva Calvino ‒  sono «un documento straordinario d’una battaglia con la lingua, una lingua ispida e nodosa, alla ricerca dell’espressione più ricca e sottile e precisa»[35]. E, a questo proposito, accenna alle brevi favole di Leonardo su oggetti e animali e, in particolare, alla favola del fuoco, basandosi per le citazioni sull’edizione degli Scritti letterari, curati da Augusto Marinoni nel 1952 e poi nel 1974, e sulle sue note filologiche e linguistiche, come ha dimostrato Carlo Vecce in un articolo[36]. Ebbene, questa favola presenta «tre stesure successive, tutte incomplete, scritte in tre colonne affiancate, ogni volta aggiungendo qualche dettaglio»[37], chiara dimostrazione, questa, secondo lo scrittore, che non c’è limite alla minuziosità con cui si può raccontare anche la storia più semplice.

Nonostante questo rapporto difficile con la parola scritta, c’era però in Leonardo

anche un incessante bisogno di scrittura, d’usare la scrittura per indagare il mondo nelle sue manifestazioni multiformi e nei suoi segreti e anche per dare forma alle sue fantasie, alle sue emozioni, ai suoi rancori […]. Perciò scriveva sempre di più: col passare degli anni aveva smesso di dipingere, pensava scrivendo e disegnando, come proseguendo un unico discorso con disegni e parole, riempiva  i suoi quaderni della sua scrittura mancina e speculare[38].

A questo proposito, offre un secondo esempio relativo a un passo in cui Leonardo riflette sull’esistenza di prove che possano dimostrare la crescita della terra.  E, «dopo aver fatto l’esempio di città sepolte inghiottite dal suolo, ‒ scrive Calvino ‒ passa ai fossili marini ritrovati sulle montagne e in particolare a certe ossa che suppone abbiano appartenuto a un immenso mostro marino antidiluviano»[39]. A questo punto, Leonardo, per rappresentare il modo con cui immaginava questo animale, ricorre a tre varianti, passando da «andamento» a «volteggiare» fino alla forma definitiva, «solcare». In tal modo, a giudizio di Calvino, egli, cercando di raggiungere una “esattezza” sempre maggiore nella descrizione, dimostrava di aver vinto la sua battaglia con la lingua.


Autore: Università del Salento; prof. Ordinario; mail: antoniolucio.giannone@unisalento.it

[1] Ci riferiamo a  Sandra Migliore, Tra Hermes e Prometeo. Il mito di Leonardo nel decadentismo europeo Firenze, Olschki, 1994. Al momento della correzione delle bozze, veniamo a conoscenza della recentissima pubblicazione di un fascicolo della «Rivista di letteratura italiana», XXXVII (2019), n. 2, interamente dedicato a Leonardo. La seconda sezione, Gli scrittori e Leonardo, contiene articoli sull’interpretazione dell’artista da parte di d’Annunzio, Conti, Campana, Papini e Calvino.

[2] Roberto Cara, La mostra di Leonardo da Vinci a Milano tra arte, scienza e politica (1939), in All’origine delle grandi mostre in Italia (1933-1940). Storia dell’arte e storiografia  tra divulgazione di massa e propaganda, a cura di Marcello Toffanello, Mantova, Il Rio Edizioni, 2017. allo  studio di Cara si rimanda per un’accurata ricostruzione di questo avvenimento.

[3] Ivi, p. 138.

[4] Ibidem

[5] Ivi, p. 160.

[6] Ivi, p. 153.

[7] Carlo Emilio Gadda, La Mostra leonardesca, in Id., Le meraviglie d’Italia. Gli anni, Torino, Einaudi, 1964, p. 211; poi in Id, Saggi  giornali favole e altri scritti  I, a cura di Liliana Orlando, Clelia Martignoni, Dante Isella, in Opere, edizione  diretta da D. Isella, Milano, Garzanti, 1991, pp. 401-418. [Vd. in proposito la Nota ai testi di L. Orlando, ivi, pp.  1261-1295:1282]. Su questo scritto cfr. anche Pierpaolo Antonello, Leonardo, in Gadda Pocket Encyclopedia. Special Supplement to «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», 2004, n. 2; http://www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/.

[8] C. E. Gadda, La Mostra leonardesca, in Id., Le meraviglie d’Italia. Gli anni, cit., p. 218.

[9] Ivi, p. 224.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 222.

[12] Ivi, p. 223.

[13] Ivi, p. 229.

[14] Ibidem

[15] Ivi, p. 228.

[16] Ibidem

[17] Il giudizio di Longhi è riportato in R. Cara, La mostra di Leonardo da Vinci a Milano tra arte, scienza e politica (1939), cit., p. 153.

[18] Eugenio Montale, A Vinci nella casa di Leonardo, in Id., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1392.

[19] Ivi, p. 1393.

[20] E. Montale, I limoni, Ossi di seppia, in Id., Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 19978, p. 11.

[21] Id., A Vinci nella casa di Leonardo, cit., p. 1395.

[22] Id., Notizie dall’Amiata, Le occasioni, in Tutte le poesie, cit., p. 192.

[23] Ibidem.

[24] Emilio Cecchi, Considerazioni su Leonardo, «Lo Smeraldo. Rivista letteraria e di cultura», VI (1952), n. 1, p. 3.

[25] Ivi, p. 4.

[26] Ivi, p. 5.

[27] Ibidem.

[28] Ivi, p. 6.

[29] Ivi, p. 13.

[30] Ibidem.

[31] Ibidem.

[32] Ivi, p. 14.

[33] Ivi, p. 15.

[34] Italo Calvino, La luce negli occhi, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, tomo I, p. 528. L’articolo, col titolo Il segreto della luce, era apparso su «la Repubblica» il 17 luglio 1982 e poi raccolto col titolo La luce negli occhi nel volume Collezione di sabbia, Milano, Garzanti, 1984.

[35] Id., Esattezza (Lezioni americane), ivi, p. 694.

[36] Cfr. Carlo Vecce, Calvino legge Leonardo, in Studi sulla letteratura italiana della Modernità. Per Angelo R. Pupino, 2. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, a cura di Elena Candela, Napoli, Liguori, 2009, pp. 393-401.

[37] I. Calvino, Esattezza, cit., p. 694.

[38] Ivi, p. 695.

[39] Ibidem.

[“Critica letteraria”, a. XLVII, fasc. III, n. 184/2019, pp. 553-568]

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