I vent’anni dell’euro

L’economia italiana, negli anni novanta, faceva registrare un tasso di crescita nell’ordine dell’1.5% (oggi siamo, nella migliore delle ipotesi, allo 0.3%): crescita che, in quegli anni, era trainata essenzialmente dall’aumento delle esportazioni. Privare l’Italia dello strumento della svalutazione della lira senza accompagnare il processo a una ristrutturazione del suo apparato industriale avrebbe significato ridurne le esportazioni, dunque la crescita e l’occupazione. E’ quanto di fatto si è verificato.

In effetti, a distanza di due decenni, si può dire che il progetto nasce immaturo e nasce sulla base di una prospettiva teorica alquanto fragile, ovvero la cosiddetta teoria delle aree valutarie ottimali. Fuori dai tecnicismi, si tratta di una teoria che assume che un’unificazione monetaria è in grado di produrre risultati di equilibrio se è costruita in modo tale da consentire la libera circolazione di lavoratori e imprese. Si tratta di una teoria agevolmente falsificabile, dal momento che assume che non vi siano restrizioni e neppure vincoli alla libertà e alla possibilità di muoversi liberamente nello spazio (in questo caso, nello spazio dato dall’unificazione europea). Nei fatti, questa libertà è preclusa dai vincoli finanziari (e talvolta legati alla famiglia d’origine) che i lavoratori hanno in ordine al fatto di potersi spostare liberamente nell’area considerata.

Il principale problema della collocazione dell’Italia nel contesto europeo deriva dal fatto che dagli anni sessanta i governi che si sono succeduti non hanno quasi mai scommesso sull’innovazione e, più precisamente, non hanno mai investito nella ricerca e sviluppo, assumendola come una pura voce di costo. Le élites italiane si sono sempre mostrate diffidenti nei confronti dell’aumento della scolarizzazione e ciò fondamentalmente a prescindere dal colore dei governi. Senza dubbio, il governo Berlusconi ha contribuito a determinare una traiettoria divergente rispetto a quanto fatto dai precedenti governi, ovvero ha ridotto consistentemente (e più consistentemente di altri) la spesa pubblica per le università e i centri di ricerca. La spesa pubblica per ricerca e sviluppo, in Italia, si è drammaticamente ridotta a partire dalle misure restrittive del ministro Tremonti, nel 2008, ma la spesa per ricerca in Italia era già significativamente più bassa negli anni precedenti e comunque inferiore alla spesa OCSE.

Merita di essere presa sul serio la retorica che l’allora Ministro dell’Economia utilizzò, perché fu l’ennesima dimostrazione di quanta disinformazione ci sia, in Italia, sul mondo universitario. Tremonti e i principali media dell’epoca si appellarono alla tesi per la quale i professori universitari sono in larga misura nullafacenti e corrotti. Sia chiaro che casi di corruzione esistono ma occorre ricordare che la stangata che il Ministro Tremonti diede all’Università italiana nel 2009 – con una decurtazione di fondi senza precedenti nella sua storia – fu legittimata proprio da una campagna mediatica basata sulla generalizzazione di singoli casi, ovvero su casi che possono farsi rientrare nell’area della sostanziale irrilevanza, almeno per quanto attiene al sistema nel suo complesso. Sia chiaro che la corruzione nelle Università, come peraltro in moltissimi settori dell’economia italiana, esiste perché, in Italia, i reclutamenti e gli avanzamenti di carriera, a differenza di molti altri Paesi, avvengono sulla base di concorsi.

Dovrebbe essere poi chiaro che la cosiddetta fuga di cervelli non sempre e non necessariamente riguarda giovani ricercatori molto meritevoli ma emarginati nelle Università italiane. Su questo vi è ampia retorica. Il reclutamento all’estero, in moltissimi casi, avviene tramite cooptazione. Ovvero, si selezionano i ricercatori i cui interessi sono in linea con quelli del Dipartimento che li assume. In Italia, il concorso è una pura finzione, e lo è sempre più in un contesto di risorse scarse.

La “fuga dei cervelli” è spesso anche determinata, almeno in alcune aree disciplinari, dall’emarginazione di linee di ricerca non allineate a quelle dominanti, come nel caso delle scienze sociali.

Fra le tante criticità del nostro ingresso nell’euro è proprio questa: non aver provato a modificare la nostra struttura produttiva in funzione della competizione, che si avviò in quegli anni, all’interno dell’eurozona, in particolare con la Francia e in particolare nel settore delle automobili. Il disinvestimento in ricerca fu un’ennesima occasione persa per rendere le nostre imprese competitive nell’area euro e nel contesto globale.

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