Di mestiere faccio il linguista 24. Tra Svevi e Angioini: alle origini del volgare salentino

L’imperatore svevo Federico II, stupor mundi (stupore del mondo, lo definirono i contemporanei), ha un ruolo importantissimo nella storia europea, italiana e meridionale per quasi  mezzo secolo: concepisce il sogno di dare vita al primo stato europeo moderno,  fonda lo Studio napoletano (la prima università “statale” d’Europa), sollecita norme giuridiche in grado di regolamentare i rapporti tra i propri sudditi e il potere, raduna alla sua corte le migliori intelligenze del tempo, dissemina edifici e segni ancora visibili del suo dominio e della sua grandezza (a partire da Castel del Monte in Puglia); muore a Castel Fiorentino (vicino Foggia) nel 1250. Nel 1266 muore suo figlio Manfredi, sconfitto e ucciso nella battaglia di Benevento, dopo aver tentato invano di mantenere il possesso dell’impero straordinario ereditato dal padre. Anche l’ultimo esponente della dinastia, Corradino, appena sedicenne, è sconfitto a Tagliacozzo nel 1268 da Carlo d’Angiò: con questa battaglia gli Angioini si impadroniscono senza più rivali del regno di Napoli, sostituendosi agli Svevi. Un forte fanatismo dinastico, religioso e “nazionalistico” accende l’animo del vincitore.  Carlo d’Angiò, che si ritiene erede della tradizione di Carlomagno e si considera figlio della Chiesa e soldato di Cristo, è determinato a uccidere Corradino per ragioni politiche ammantate di sacralità. Un invasor Regni (così era giudicato Corradino) si rendeva colpevole del crimen laesae maiestatis, punito con la pena di morte, che il re poteva infliggere senza un processo preliminare. Per ottenere un consulto giuridico in grado di ratificare la sussistenza di questo delitto, Carlo convoca a Napoli numerosi giuristi e rappresentanti dei comuni del principato, che deliberano  la condanna a morte di Corradino per decapitazione.

Sorte ancora più sbrigativa il vincitore angioino riserva a coloro che, nella contesa, si erano schierati dalla parte degli Svevi. Tali erano quei «signori» ricordati nel documento citato all’inizio, partigiani di Corradino, che si erano rifugiati a Gallipoli per sfuggire alla cattura e che, dopo qualche mese di assedio della città da parte delle truppe angioine, furono dagli stessi abitanti di Gallipoli consegnati agli assedianti. Unico modo per porre fine all’assedio, così ritenne (comprensibilmente) la popolazione della città assediata. I fatti testimoniati dal codice Laurenziano sono storicamente accertati, sia pure con variazioni non di poco conto. In particolare altre fonti affermano che Gallipoli non si aprì spontaneamente ai vincitori, ma l’assedio si concluse solo con l’espugnazione armata della città e con la morte di un gran numero dei suoi difensori, molto oltre il contingente relativamente esiguo indicato dalla annotazione da cui siamo partiti. Di eccidio indiscriminato parlano tali fonti, perché il nucleo dei resistenti era ampio e ben organizzato. A Gallipoli si erano rifugiati molti “traditori” filosvevi (proditores vengono definiti in vari documenti) non locali, provenienti dalla Calabria e anche da altre località. Forti legami (spesso rapporti di parentela) collegavano i nobili calabresi in cerca di scampo con esponenti della nobiltà di Terra d’Otranto (lo ha scritto, in più occasioni, Pier Fausto Palumbo, professore ordinario di storia che contribuì alla nascita dell’Università di Lecce e dal 1955 al 1957 fu il primo preside della facoltà di Magistero).

Comunque siano andate le cose, è sicuro che a Gallipoli, tra i “traditori” filosvevi lì rifugiati, figura un «Philippus de Messana», prigioniero  affidato alla custodia di un castellano fra l’8 luglio 1268 e il 15 ottobre 1269. Non esistono prove che il personaggio possa essere identificato con un Filippo da Messina, poeta della corte di Federico II, di cui è giunto fino a noi solo un sonetto d’amore, indirizzato a una donna che lui qualifica «rosa fresca, che di maggio apari» I nomi del poeta e del prigioniero gallipolino coincidono, ma non è un indizio probante. Né può valere come prova la considerazione che sicuramente doveva essere animato da sentimenti filosvevi il poeta, per la ragione obiettiva che faceva parte della cerchia che l’imperatore Federico II aveva radunato nella sua corte, la Scuola Poetica Siciliana che fonda la storia della poesia italiana (i testi, analiticamente commentati, si leggono in una monumentale edizione in tre volumi uscita nel 2008 nei «Meridiani» di Mondadori).

Quello dei Siciliani è uno dei rari casi nella storiografia letteraria in cui l’etichetta di scuola (di gruppo poetico fortemente coeso al proprio interno) è pienamente giustificata per molti motivi:  la composizione sociale dell’insieme di rimatori, in prevalenza legati alla corte imperiale in qualità di funzionari; la breve durata di un’esperienza chiusa in poco più di un trentennio e indissolubilmente congiunta alle sorti della dinastia, al punto che la morte dell’imperatore e dei suoi figli segna anche la fine della attività poetica del gruppo; una lingua sostanzialmente unitaria, nonostante la varia provenienza dei singoli autori (comunque in maggioranza siciliani o meridionale del continente); gli scambi continui di lessico e di temi tra i diversi rimatori, che dunque si conoscevano e si frequentavano con regolarità.  Questa esperienza straordinaria nasce per volontà e per ispirazione del sovrano: pur impegnato in incessanti attività politiche che lo vedevano a seconda dei casi collaborare o lottare con i papi, con i potenti feudatari e con le ricche città del nord Italia, pronto a lanciarsi nella avventura delle crociate in Terra Santa, Federico II, appassionato di caccia con il falcone e studioso di scienze naturali, trovava il modo di comporre un trattato venatorio intitolato «De arte venandi cum avibus» (L’arte di cacciare con gli uccelli) e di essere egli stesso poeta (gli vengono attribuite cinque poesie).

Dante aveva perfettamente compreso la grandezza del personaggio; arrivò a scrivere: ««E in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito e, finché la fortuna lo permise, si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore e ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli italiani più nobili d’animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché la sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano; ciò che anche noi teniamo per fermo e che i nostri posteri non potranno mutare». Ovvero: la grande poesia italiana è nata alla corte “siciliana” di Federico II e Manfredi ed è da quella, e solo da quella, che è nata e si è sviluppata la tradizione linguistica e poetica in volgare illustre italiano

A parte l’esile e insicuro legame rappresentato da quel Filippo da Messina rinchiuso a Gallipoli nel 1268, esistono collegamenti tra la Scuola Poetica Siciliana e il Salento? Ne discuteremo la prossima volta.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 8 dicembre 2019]

   

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (terza serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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