Belfiore

di Gianluca Virgilio

Giulio sperava che Belfiore non giungesse in ritardo a scuola, e guardava verso la porta, quasi a sollecitarne l’arrivo, sollevando spesso la testa dal banco e interrompendo il lavoro cui era intento, ben nascosto dietro la folta capigliatura d’una compagna, perché l’insegnante non lo vedesse: intagliava il suo nome sul piano rugoso del banco. Sapeva bene che l’insegnante di matematica non ammetteva ritardi e sapeva anche che Belfiore, come al solito, si sarebbe fatta rimproverare e forse espellere dalla classe. L’orario d’ingresso era fissato per le ore otto e un quarto, e preside e professori non ammettevano ritardi.

Quel giorno l”insegnante di matematica aveva appena finito di fare l’appello e Giulio ormai disperava di vedere Belfiore, quando la porta si aprì e fece capolino un faccino ovale su cui due occhi si muovevano irrequieti sotto riccioli neri e ciuffi di capelli scomposti; due chiazze rosse colorivano le guance, segno non certo di rammarico per il ritardo, bensì di affaticamento, tanto che pure il respiro era affannoso; e sopra il faccino molti capelli alti sul capo, ondulati, che ricadevano all’indietro, lunghi e a scalare. Belfiore aveva fatto di corsa le scale, eludendo la sorveglianza del bidello, di solito ben piantato a gambe larghe e con le braccia conserte dinanzi alla porta d’ingresso della scuola, e ora chiedeva il permesso di entrare. L’insegnante dapprima mostrò meraviglia per il fatto che Belfiore fosse riuscita a giungere fino all’aula, poi la rimproverò per aver disturbato la lezione, che in verità non era ancora incominciata, e infine le ordinò con tono seccato di chiamare il bidello. Un mormorio nella classe significò che il permesso di entrare le era stato negato; il bidello l’avrebbe accompagnata in presidenza per il rimprovero di rito, prima della espulsione dalla scuola, almeno per quel giorno.

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