Scritti sull’Università e sulla Scuola. Anni 2010-2011

E’ del tutto evidente che questo dispositivo non ha nulla a che fare con il merito e, semmai, può produrre danni rilevanti, generando esiti esattamente opposti a quelli che si dichiara voler ottenere: accentuare la ‘fuga di cervelli’, già in atto, e reclutare ricercatori qualitativamente inferiori a quelli che si potrebbero assumere con contratti a tempo indeterminato e stipendi più alti. L’esito esattamente opposto a quello che i sostenitori della riforma dichiarano di voler ottenere.

Il DDL Gelmini, come è noto, è apertamente sostenuto da Confindustria, ed è di fatto pensato dal Ministero dell’Economia. Per comprendere le ragioni del sostegno imprenditoriale alla riforma è opportuno partire da alcuni dati.

L’ultimo Rapporto Almalaurea certifica che fra i 27 paesi dell’Unione Europea, il finanziamento pubblico in istruzione superiore italiano è più elevato solo di quello della Bulgaria. Il quadro non migliora nel settore strategico della Ricerca e Sviluppo al quale l’Italia ha destinato l’1,2% del PIL nel 2007, risultando così ultimo fra i Paesi più avanzati. A fronte del sottofinanziamento della ricerca, si rileva che le pubblicazioni dei ricercatori italiani – per quantità e qualità – sono classificate fra le prime dieci al mondo[5]. Aumenta sensibilmente la disoccupazione rispetto allo scorso anno, e non solo fra i laureati triennali. La disoccupazione cresce anche fra i laureati magistrali, dal 14 al 21%. Infine cresce anche fra i c.d. specialistici a ciclo unico (laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza), dal 9 al 15%. Una tendenza questa che si registra indipendentemente dal percorso di studio (anche fra i laureati tradizionalmente caratterizzati da un più favorevole posizionamento sul mercato del lavoro, come gli ingegneri) e dalla sede degli studi e che si estende anche ai laureati a tre ed a cinque anni dal conseguimento del titolo. Diminuisce il lavoro stabile e le retribuzioni medie, a un anno dalla laurea, si assestano attorno a 1.100 euro. Ciononostante, la condizione occupazionale e retributiva dei laureati resta migliore di quella dei diplomati di scuola secondaria superiore. Nell’intero arco della vita lavorativa, i laureati presentano un tasso di occupazione di oltre 10 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (78,5 contro 67%). Viene confermato che la retribuzione premia i titoli di studio superiori: nell’intervallo compreso fra i 25 e i 64 anni di età, essa risulta più elevata del 55% rispetto a quella percepita dai diplomati di scuola secondaria superiore. Si tratta di un differenziale retributivo in linea con quanto rilevato in Germania, Regno Unito e Francia.

Nel caso italiano, il migliore posizionamento dei laureati nel mercato del lavoro discende dal fatto che – essendo l’Italia fra i Paesi OCSE quello con minore mobilità sociale – i laureati provengono, di norma, da famiglie più ricche rispetto ai non laureati e, conseguentemente, potendo disporre di redditi non da lavoro, hanno maggior potere contrattuale. La riduzione dei finanziamenti pubblici, inducendo gli Atenei ad aumentare le tasse universitarie, non può che produrre un duplice effetto negativo. In primo luogo, e in linea generale, l’aumento della tassazione rende più difficile la mobilità sociale, dal momento che un numero minore di giovani potrà permettersi di pagarle. In secondo luogo, questa misura si renderà necessaria nei casi nei quali la decurtazione dei finanziamenti pubblici non è compensata da finanziamenti privati. Il che riguarda la gran parte degli Atenei meridionali, con la conseguenza che il sottofinanziamento del sistema universitario pubblico penalizzerà soprattutto i giovani meridionali. In sostanza, il provvedimento incide negativamente sulla (già bassa) mobilità sociale italiana ed è oggettivamente redistributivo a danno del Mezzogiorno. Ed è un provvedimento che non solo non agisce sul merito dei ricercatori, ma finisce per penalizzare gli studenti meritevoli con basso reddito.

A ciò si può aggiungere che, da oltre un decennio, è in atto un significativo processo di accentuazione dell’overeducation, ovvero di ‘eccesso di istruzione’ rispetto alla domanda di lavoro qualificato espressa dalle imprese. Acquisita la laurea, si svolgono attività non adeguate alle competenze acquisite o, soprattutto nel caso del Mezzogiorno, si emigra. L’eccesso di offerta di lavoro qualificato dipende essenzialmente dalla bassa propensione all’innovazione da parte delle imprese italiane, a sua volta imputabile in primis alle piccole dimensioni aziendali e – dato non irrilevante – al fatto che solo il 14% dei nostri imprenditori è in possesso di laurea[6]. E’ chiaro che in un Paese nel quale non si produce innovazione – se non per rare eccezioni – il finanziamento della ricerca scientifica è solo un costo, al quale le nostre imprese neppure riescono a far fronte reclutando dall’estero manodopera qualificata. E’ una buona ragione, sul fronte confindustriale, per dare sostegno e impulso alla politica dei tagli all’istruzione, continuando a perseguire una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi (e dei salari, in primis).

———————————————–

[1] La valutazione della ricerca è demandata all’ANVUR, agenzia costituita nel 2006 mai resa operativa. In ogni caso, il DDL Gelmini stabilisce un dispositivo premiale per la produttività scientifica nella misura massima del 10% del fondo di funzionamento ordinario
[2] Occorre rilevare che il DDL Gelmini non solo non incide su questo problema, semmai lo accentua. Se per “baroni” si intendono i professori di I fascia, le nuove disposizioni normative – in quanto attribuiscono loro la gran parte del potere di decisione sulla governance degli Atenei e sul reclutamento – rendono l’Università italiana più gerarchizzata e, dunque, potenzialmente più “baronale”.
[3] La previsione di un codice etico può fare ben poco a riguardo, anche in considerazione del fatto che la gran parte delle Università italiane negli ultimi anni si sono dotate di codici etici. Può fare ben poco perché un codice etico indica ciò che non occorrerebbe fare, ma non contiene misure di sanzionamento di comportamenti eticamente censurabili.

[4] A ciò si aggiunge che la disposizione di blocco degli scatti stipendiali (resi ora triennali) penalizza maggiormente coloro che, in Università, percepiscono gli stipendi più bassi, ovvero proprio i ricercatori (a tempo indeterminato, con ruolo ad esaurimento) e a tempo determinato, a legislazione vigente.

[5] Cfr. http://www.chim.unipr.it/riforma.pdf

[6] E’ quanto risulta dall’ultimo censimento Almalaurea. Si veda http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione08/premessa2.shtml

.

.

Il grande errore di non investire nella ricerca

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 maggio 2011]

In un recente intervento su “Quotidiano”il Rettore dell’Università del Salento ha fatto rilevare che, pure a fronte delle numerose innovazioni di eccellenza prodotte da questo Ateneo, non si sono presentate “orde di imprenditori” per acquistarle. Appare sufficiente questa testimonianza per capire quali sono gli interessi materiali alla base della c.d. riforma Gelmini.

Il depotenziamento dell’Università pubblica – messo in atto mediante una strategia mediatica di delegittimazione dell’Istituzione e, soprattutto, mediante una decurtazione di fondi di ammontare senza precedenti – risponde a due principali obiettivi: ridurre l’offerta di lavoro qualificato e, almeno parzialmente, affidare il controllo dell’attività di ricerca a soggetti privati. Si tratta di due obiettivi complementari, che rispondono alla impellente necessità della gran parte del mondo imprenditoriale italiano di recuperare la propria competitività (e dunque i margini di profitto erosi dalla crisi) comprimendo i costi di produzione, salari in primo luogo.

Il sistema produttivo italiano, fatte salve rare eccezioni, è caratterizzato dall’uso di tecnologie ad alta intensità di lavoro poco qualificato e con spesa per ricerca e sviluppo di gran lunga inferiore rispetto ai principali Paesi industrializzati. Alcuni dati – su fonte OCSE – possono servire a inquadrare meglio il problema. Tra il 2004 e il 2008 gli investimenti fissi lordi dell’Italia rispetto all’Europa sono risultati più bassi di 3,2 punti percentuali. La produzione industriale italiana è significativamente più bassa della media dei paesi europei. Negli ultimi dieci anni, nell’area euro la produzione industriale media cresce rispettivamente del 2,23%, mentre in Italia aumenta di un modesto 0,61%. La produzione di beni strumentali, in Italia, cresce al tasso medio annuo dello 0,38%, mentre in Europa ha tassi di crescita medi annui pari a 3,81%. Neppure per il settore considerato strategico della nostra economia, il posizionamento delle imprese italiane è favorevole. Se la crescita media della produzione di beni di consumo in Europa è pari a 1,15%  su base annua, per l’Italia il corrispondente valore è pari a 0,25%. La quota del commercio internazionale legata all’alta tecnologia vale il 39%, contro il 20% dei settori a media e bassa tecnologia. A fronte del significativo avanzamento tecnico nei principali Paesi industrializzati e nei Paesi emergenti (i c.d. BRIC: Brasile, Russia, India, Cina), l’Italia è rimasta sulle stesse posizioni del decennio 1985-1995, con un’incidenza della produzione ad alta intensità tecnologica pari al 10% della produzione manifatturiera. La scarsa propensione delle imprese italiane a investire in ricerca viene, di norma, motivata alla luce del fatto che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da piccole dimensioni aziendali (e, dunque, non avrebbe risorse sufficienti per finanziare le innovazioni) e, in particolare nel Mezzogiorno, dal razionamento del credito che costituirebbe un ulteriore impedimento agli investimenti. A ben vedere, queste tesi colgono solo una parte del problema.

L’evidenza empirica disponibile mostra che, in Italia, le spese private per la ricerca sono sostanzialmente equivalenti alle spese per la pubblicità. Nel biennio 2007-2008 la spesa in pubblicità si è assestata intorno ai 9 miliardi di euro, un ammontare sostanzialmente equivalente a quello destinato all’innovazione, a fronte di una spesa per ricerca pari a circa la metà delle imprese francesi e inglesi e circa il 70% in meno rispetto alle imprese tedesche.

Coperta dalla retorica del merito e dal vincolo dei conti pubblici in ordine, la ‘riforma’ mira a destrutturate il sistema formativo per disporre di manodopera già ‘disciplinata’ al momento della laurea e, dunque, già in quella fase ben disposta ad accettare condizioni di sottoccupazione e bassi salari. Con la riduzione del 5% di immatricolazioni alle Università pubbliche nel 2010, una parte del risultato è già stata conseguita. Ben poco a che vedere, dunque, con la lotta al nepotismo e la meritocrazia. Il che evidentemente non significa legittimare l’esistente nelle Università italiane: significa semmai opporsi a quegli attacchi al sistema formativo pubblico che non sembrano motivati da nobili finalità moralizzatrici. Non appare casuale il fatto che la riforma universitaria sia accompagnata al potenziamento dell’apprendistato e alle politiche di incentivazione del lavoro manuale. Il Ministro Meloni ha efficacemente sintetizzato questa teoria con la considerazione che i giovani italiani soffrono di “inattitudine all’umiltà”, aggiungendo che il Piano per il lavoro che il Governo sta mettendo a punto – basato essenzialmente sul potenziamento del finanziamento dell’apprendistato – costituisce il definitivo “superamento del ‘68”. La linea di politica del lavoro che il Ministro Sacconi si appresta a perseguire viene così chiarita: “Se si dicesse a ogni studente che intende iscriversi a giurisprudenza che per gli avvocati il tasso di disoccupazione è al 30%, e chi lavora guadagna 900 euro al mese, mentre per gli infermieri il tasso di disoccupazione è zero, e lo stipendio di 1600 euro, probabilmente inciderebbe sulle scelte”. Per trovare indicazioni non lontane da queste occorre risalire al 1600. Si scriveva in quegli anni: “si voglia ben considerare in qual misura l’educazione dei figli dei poveri al sapere ed alla scienza abbia contribuito a farli deviare dalle occupazioni manuali; poiché pochi hanno imparato a scrivere e leggere senza che i loro genitori o essi non siano inclinati a credere di meritare qualche preferenza, e per questa ragione disprezzano tutte le occupazioni manuali”.

Ciò che occorre rilevare è che questa strategia è controproducente in un orizzonte di medio-lungo termine. A fronte del fatto che la competizione internazionale si gioca sempre più sulla qualità dei processi produttivi, dei prodotti e, dunque, del lavoro, andare nella direzione opposta significa condannare l’economia italiana alla progressiva marginalizzazione. Non solo a danno dei lavoratori (che, se occupati, percepiscono retribuzioni di gran lunga inferiori a quelle dei loro colleghi europei), ma a danno delle imprese stesse.

.

.

Università: la riforma di Mandeville

[in “Sbilanciamoci”, 25 agosto 2011]

Si può supporre che, in mancanza di adeguata informazione, gran parte dell’opinione pubblica sia convinta che questo Governo abbia realizzato un’epocale riforma dell’Università italiana, riducendone gli sprechi, combattendo le baronie e i nepotismi. Una campagna mediatica molto ben organizzata ha convinto molti che l’Università italiana è un luogo nel quale la principale occupazione dei professori è dare posti di lavoro a parenti. Sia ben chiaro che questi casi esistono, ma sia altrettanto chiaro che sono del tutto marginali e stigmatizzati dalla stessa comunità accademica.

A beneficio di chi non è addetto ai lavori, può essere utile rimarcare che la legge 240/2010 (la c.d. riforma Gelmini) è niente affatto attuata e che è molto probabile che non verrà attuata in questa legislatura e in questa forma. Affinché l’articolato normativo possa diventare pienamente operativo, occorre un non meglio precisato numero di decreti attuativi: sebbene possa apparire a dir poco strano, neppure le comunicazioni ufficiali del Ministero li quantificano con esattezza.

Sul sito del Ministero, si legge: “dei 38 provvedimenti previsti (decreti legislativi, regolamenti, decreti ministeriali), 32 sono già stati firmati dal ministro e a breve saranno emanati anche i restanti 6. 7 decreti saranno approvati in via definitiva entro luglio e i rimanenti entro fine settembre”. Si capisce che occorrono 38 decreti attuativi e si legge che, complessivamente, saranno più di 38, inclusi non meglio specificati provvedimenti “rimanenti” (quali?). Contemperando i numeri governativi con quelli forniti dall’opposizione, è verosimile pensare che siano intorno ai quaranta. Ad oggi, soltanto uno risulta pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Le motivazioni per le quali è ragionevole attendersi che la ‘riforma’ non andrà a regime (o che verrà rinviata alla prossima legislatura) sono fondamentalmente due.

1) La 240/2010 è una legge estremamente confusa che, da un lato, regolamenta in modo colbertistico, dall’altro, è estremamente vaga. Vaga a tal punto che, a sei mesi dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il Consiglio Universitario Nazionale ha fatto rilevare che non è ancora chiaro chi valuterà i professori che saranno sorteggiati per far parte delle commissioni per l’abilitazione nazionale. La Legge prevede la valutazione dei loro curricula, ma appunto non individua il soggetto deputato a valutare. E’ anche una legge fatta male. Alcuni esempi: la disposizione che vieta a un docente universitario di partecipare ai concorsi per le abilitazioni nazionali nel caso in cui non abbia superato la selezione nelle tornate precedenti è stata respinta dal Consiglio di Stato, con la motivazione (facilmente comprensibile anche per i non addetti ai lavori) che non si può impedire a nessuno di partecipare a un concorso pubblico. Il decreto sul diritto allo studio è fermo alla Conferenza Stato-Regioni: l’unica certezza è che da quella sede non arriverà la copertura finanziaria, demandata al Governo. Misteri aleggiano sulla ratio che ha portato all’aggregazione dei settori disciplinari, ritenuti ‘eccessivi’ perché tautologicamente eccessivi (eccessivi rispetto a quale numerosità ‘ottimale’? calcolata come?).

2) Sussistono poi problemi di copertura finanziaria, che per una riforma pensata a costo zero, sono appunto problemi. Fra questi, i costi relativi alla messa in funzione dell’Agenzia di Valutazione della Ricerca (ANVUR), che dovrà disporre di sedi e personale qualificato per svolgere la propria funzione di valutazione della ricerca universitaria, i costi per le procedure di valutazione di ben 70mila studiosi italiani, da realizzarsi in 18 mesi, i costi per l’espletamento dei concorsi, per un importo complessivo che non è stato stimato su fonti ufficiali.

Va detto che ciò che realmente sta a cuore a questo Governo è depotenziare il sistema formativo, mediante una riduzione dei finanziamenti alle Università che non ha precedenti nella storia italiana. Dal 2008 al 2011 le somme stanziate per le Università pubbliche sono passate da 7.41 miliardi di euro a 6.57 (-11.31%), per ridursi ulteriormente nel 2012 a 6.49 (-12.40) e arrivare nel 2013 con 6,45 miliardi (-12.95). Per questo Governo, e per parte del mondo imprenditoriale, la formazione e la ricerca sono esclusivamente un costo. Ciò a ragione del fatto che, in un’ottica di breve periodo, con un sistema produttivo che, salvo rare eccezioni, non esprime domanda di lavoro qualificato (giacché non produce innovazioni), l’istruzione diventa inutile. Lo dimostra in modo inequivocabile l’operato del Ministro Sacconi, impegnato a redigere un piano per l’apprendistato – per incentivare il “lavoro manuale” – e a convincere i giovani che studiare non conviene: la chiamano “inattitudine all’umiltà”. La cui traduzione è: volontà di studiare. Una tesi molto simile a quella sostenuta da Mandeville, che, nel 1723, scriveva: “per rendere felice la società è necessario che la grande maggioranza rimanga ignorante”. E il messaggio è passato, come sta a dimostrarlo il sensibile calo delle immatricolazioni. E come sta a dimostrarlo un sondaggio dell’associazione walk on the job, stando al quale oltre il 60% dei ragazzi intervistati dichiara che la ricerca scientifica è inutile.

La Camera dei Deputati, nella relazione tecnica del 29 giugno 2011, ha stimato un costo annuo per le procedure di abilitazione scientifica nazionale (pre-requisito per l’accesso alla docenza) pari a €17.000.000.  Per quale ragione il Ministro Tremonti, il Ministro che ci ha spiegato che “la cultura non si mangia”, e che ha appena prodotto un’ulteriore manovra fiscale restrittiva, dovrebbe consentire questa spesa, ancorché modesta? Si può ricordare che il Ministro Gelmini ha promesso concorsi per professore di seconda fascia ai ricercatori, nella fase più acuta della loro protesta. A distanza di sette mesi, la promessa rimane tale. Si consideri che, per legge, i ricercatori possono non svolgere attività didattica e che, a fronte di questo, si stima che, nel 2015, 14mila docenti su 57mila andranno in pensione. E’ difficile prevedere quali saranno gli effetti sull’offerta formativa, e sulla sua qualità, dal momento che il numero di corsi di studio è già stato ridotto e il Ministero non prevede ulteriori riduzioni.

Ma, a fronte dell’immobilismo ministeriale, la neonata ANVUR è impegnata a produrre documenti di valutazione della ricerca scientifica interamente basati su criteri bibliometrici derivanti da database internazionali. Sia chiaro che la valutazione della ricerca va fatta, e peraltro è da troppo tempo che se ne parla senza realizzarla. Il problema consiste semmai nel come la ricerca scientifica viene valutata. Al di là delle questioni tecniche del caso, va ricordato che i criteri bibliometrici ai quali l’ANVUR si affida non sono stati costruiti con l’obiettivo di valutare i prodotti della ricerca, ma con l’obiettivo di orientare gli acquisiti di libri e riviste scientifiche da parte delle biblioteche universitarie. E va ricordato che tali criteri sono costruiti, perfezionati e offerti da imprese private, il cui legittimo obiettivo è il profitto. Vi è qui una questione di natura etica e una questione di natura sostanziale. Per quanto attiene alla prima, la domanda che ci si pone è: è giusto che la ricerca scientifica sia valutata da agenzie private che cercano – per questa via e, dal loro punto di vista, in modo del tutto legittimo – di monopolizzare il mercato dell’editoria accademica?[1] Sul piano sostanziale, non è chiaro per quale ragione, nei documenti fin qui prodotti, l’ANVUR riconosca, seppure incidentalmente, che l’uso dei criteri bibliometrici può dar luogo a distorsioni[2] e, tuttavia, ne propone l’adozione. Se il rischio di implementare un sistema di valutazione imperfetto esiste, non è più ragionevole abbandonare i criteri bibliometrici e far riferimento a criteri che in questo rischio non incorrono?[3]Almeno in attesa del perfezionamento dei database ai quali si fa riferimento, e volendo, in prima applicazione, quantificare la produttività dei professori e ricercatori[4], non è più ragionevole valutare la ricerca sulla base della numerosità della produzione scientifica? [5]


[1] V. http://gisrael.blogspot.com/2011/07/la-valutazione-delle-universita-inizia.html.

[2] Sulla questione si rinvia a A. Figà Talamanca, (2002). The impact factor in the evaluation of the research. “Bulletin du Groupement International pour la Recherche Scientifique en Stomatologie et Odontologie”, Vol 44, No 1.Si veda anche http://siba2.unile.it/sinm/4sinm/interventi/fig-talam.htm,

[3] In effetti, il rischio sussiste ed è elevato. E’ agevole verificare che utilizzando i registri informatici suggeriti dall’ANVUR, lo stesso autore compare x volte in uno e x+n volte nell’altro, spesso con pubblicazioni diverse. Il che può dipendere dalle politiche editoriali delle singole riviste, che possono scegliere di essere indicizzate in un repertorio e non in un altro; oppure dal fatto che, di norma, l’inclusione di una rivista in un repertorio richiede tempo.

[4] Nella consapevolezza che una maggiore produttività non necessariamente comporta una maggiore qualità della ricerca; così come può essere vero il contrario. Non sempre i ricercatori che pubblicano poco pubblicano ‘meglio’.

[5] E della sua qualità certificata dal fatto che le pubblicazioni su riviste siano state oggetto di referaggio (peer review), cioè siano state valutate da colleghi anonimi a chi sottopone un articolo a una rivista (e l’autore è anonimo al referee). L’adozione di sistemi di peer-review è di norma indicato nel frontespizio della rivista.

.

.

Foto di classe. Manca solo la scuola

[in www.sbilanciamoci.info, 23 settembre 2011]

Nella prima metà dell’Ottocento, ci si poneva il problema di istruire i minori impegnati a lavorare in miniera. Data la lunghezza della giornata lavorativa, infatti, occorreva individuare congegni tali da dare loro la possibilità di imparare almeno le nozioni più elementari della conoscenza all’epoca disponibile.

Nel 2011, il trio Gelmini-Sacconi-Tremonti ha finalmente trovato la soluzione, la più semplice: disincentivare, con ogni possibile mezzo, l’istruzione dei giovani. Si badi che non si sta qui parlando di studenti universitari, ma di adolescenti in età scolare, ai quali – grazie alla recente normativa sull’apprendistato – verrà concessa l’opportunità di liberarsi dal fardello dei libri per dedicarsi al lavoro manuale. Detto più tecnicamente, si dispone che l’obbligo scolastico si può assolvere, anziché tra i banchi di scuola, nelle fabbriche andando a lavorare a partire dai 15 anni d’età. D’altra parte, il Governo ha già predisposto adeguati incentivi all’abbandono scolastico, sebbene in via indiretta.

L’ultimo Rapporto OCSE sull’educazione, del settembre 2011, fotografa, per l’Italia, uno scenario per molti aspetti paradossale e comunque preoccupante per chi ancora ritiene che l’istruzione (oltre a essere un valore in quanto tale) costituisca un potente dispositivo per la mobilità sociale e la crescita economica. Il paradosso al quale ci si riferisce è il seguente.

Gli insegnanti italiani ricevono uno stipendio significativamente inferiore alla media OCSE, a fronte di un carico didattico maggiore. Gli studenti italiani stanno in classe circa 8.400 ore l’anno, contro una media OCSE di circa 7.000 ore. Ci si aspetterebbe un loro miglior rendimento. Al contrario, la percentuale di coloro che cominciano e terminano la scuola superiore è pari a meno dell’80% contro una media OCSE del 82.2%. In altri termini, il Ministero impone un elevato impegno ai docenti (con basse retribuzioni), ottenendo risultati peggiori di quelli registrati in Paesi nei quali il carico didattico è inferiore (e sono più alti gli stipendi).

Questo esito paradossale viene così motivato dal MIUR: “Gli insegnanti italiani sono numerosi, per fare fronte all’elevato numero di ore di insegnamento; questa è una delle cause della loro retribuzione non alta”. Non è dato sapere, incidentalmente, quali siano le altre cause, per il Ministro. Se, come da prassi nella retorica governativa, si ritiene che i professori siano “fannulloni”, occorre chiedersi quanta motivazione possano avere docenti pagati poco più di 1000 euro al mese (con stipendi bloccati fino al 2014), con orari di lavoro superiori ai loro colleghi di altri Paesi. In ogni caso, la risposta ufficiale è palesemente falsa per due ragioni. La prima: gli stipendi sono bassi perché lo Stato italiano spende poco per l’istruzione (il 4.8% del PIL contro una media OCSE del 6.1%). La seconda: dire che gli insegnanti italiani sono numerosi non vuol dire nulla, se non si pone un termine di paragone. Si consideri, a puro titolo esemplificativo, il caso francese. Con una popolazione studentesca circa pari a quella italiana, la Francia ha sì un numero di insegnanti inferiore, ma il totale del personale impegnato nelle scuole è di circa 5.000 unità superiore al personale impiegato in Italia. A ciò si aggiunga che, nell’ultimo decennio, gli stipendi per il personale scolastico sono aumentati di circa il 7% negli altri Paesi OCSE, a fronte di una riduzione dell’1% circa in Italia. 

Il Ministro Gelmini, però, rassicura così docenti, famiglie e studenti: “Resta moltissimo da fare, ma la cosa più importante da portare avanti è la battaglia culturale: non si può tornare alla scuola e all’Università del ‘68”. A prescindere dalla strana idea che un Ministro della Repubblica (non un partito politico, né un’associazione) possa portare avanti una “battaglia culturale”, va rilevato che se il Ministro Gelmini associa il ’68 alle promozioni ‘facili’ (o al “18 politico” in Università), forse inconsapevolmente sta precisamente tornando a quegli anni. Ciò per questo meccanismo, denunciato da molti dirigenti scolastici. Il taglio dei fondi per i corsi di recupero porta a due soluzioni: i corsi vengono pagati dalle famiglie (opzione già dichiarata incostituzionale) oppure, in assenza di finanziamenti, le scuole non potranno far altro che, paradossalmente, bocciare o promuovere tutti. In questi due casi, le reiterate invocazioni alla premiazione del ‘merito’ verrebbero meno e, nel secondo caso, il ’68 – come visto dal Ministro – sarebbe la nuova forzosa frontiera della scuola italiana.

La convinzione che il sistema formativo sia un puro costo è confermata dai numerosissimi documenti ministeriali nei quali la specificazione “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica” torna in modo ossessivo. Il furore ideologico, unito a incompetenza, a sua volta unito alla bizzarra idea che la crescita economica passi attraverso una minore scolarizzazione motivano questi provvedimenti. Che si pongono in stridente contrasto non solo con quanto rilevato – su basi teoriche ed empiriche – dalla gran parte della teoria economica (è semmai l’aumento della dotazione di capitale umano a poter trainare la crescita), ma anche dalle direttive UE che sollecitano i Paesi membri ad adottare misure che vadano nella direzione di costruire un’economia della conoscenza.

Questa voce è stata pubblicata in Scolastica, Scritti sull'Università e sulla Scuola di Guglielmo Forges Davanzati, Universitaria e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *