Dichiarazione

di Donato Valli

La “dichiarazione” inedita  di Donato Valli che, qui si pubblica, venne da lui letta il 21 aprile 2006 durante la discussione di una tesi di laurea in Teoria della letteratura, di cui era correlatore, presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Lecce. Scritta con la consueta grafia chiara ed elegante su tre fogli numerati di mm. 210 x 140 e firmata, mi venne da lui consegnata dietro mia richiesta subito dopo la fine della sessione e da me conservata tra le mie carte. Fu, quella, una delle ultime volte che Valli partecipava a sedute di tesi essendo ormai in procinto di andare in pensione. Egli, di solito, non scriveva le sue relazioni e correlazioni, ma in quella occasione sentì il bisogno di farlo forse per precisare meglio le sue idee. In questo breve scritto emerge tutta la sua idiosincrasia per le teorizzazioni vacue che spesso non fanno altro che ostacolare l’approccio diretto al testo letterario ed è forse l’unica volta in cui egli espone, sia pure sinteticamente, la sua concezione della critica. Non è facile trovare, infatti, tra i suoi innumerevoli studi, saggi, articoli una riflessione di tipo teorico o metodologico, perché preferiva abbandonarsi al piacere, anzi all’«ebbrezza» (come dice qui), della lettura, che riteneva il compito principale del critico non preoccupandosi eccessivamente di non essere alla moda.  E, in effetti, come abbiamo avuto modo di osservare in qualche occasione, i risultati più alti sono stati da lui raggiunti proprio nel campo dell’esegesi testuale, dello scavo nel profondo della parola poetica, attraverso il quale cercava di entrare in sintonia con l’autore esaminato, con «la sua sofferenza esistenziale, i suoi fallimenti, i suoi entusiasmi, le sue utopie». Da qui la splendida, originalissima, definizione che dà di sé stesso come di «uno sterratore di sentimenti impastati di parole». La teoria, la teorizzazione gli sembrava invece qualcosa di collaterale all’esercizio critico, se non di superfluo, soprattutto quando era fatta in maniera dilettantesca o fine a sé stessa. Ecco, allora, che questa breve dichiarazione assume quasi il valore di un piccolo testamento spirituale lasciatoci da Donato Valli alla fine della sua attività e prima che la malattia lo colpisse inesorabilmente. (Antonio Lucio Giannone)

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Devo confessare la mia ammirazione per una tesi che, da un punto di vista esteriore e formalistico, mi pare eccellente per logica argomentativa e per conoscenza degli argomenti affrontati, per organizzazione di stile e di pensiero. Debbo, però, con altrettanta sincerità dichiarare la mia impotenza a esprimere un giudizio valutativo sui contenuti data la mia incompetenza su argomenti che richiedono alta specializzazione tecnica e linguistica. I miei settantacinque anni compiuti e la mia formazione storicistica e simbolica hanno formato il mio slancio esegetico a una interpretazione mediocremente contenutistica e plebea dei testi della poesia. Impropriamente inebriato dal magnetismo che il puro gusto estetico della lettura mi trasmetteva, mi sono sempre fermato al quid, ignorando semplicisticamente il quia. Detto in parole povere, preso dall’ebbrezza della lettura, ho assai spesso tralasciato la teoria che le conferisce coscienza critica e brillantezza intellettuale. Sono rimasto, insomma, un sensitivo e uno sterratore di sentimenti impastati di parole. Per di più, ho un secondo limite, che è quello di vedere dietro ogni poesia il suo autore, la sua sofferenza esistenziale, i suoi fallimenti, i suoi entusiasmi, le sue utopie. E ho sempre creduto, o immaginato, che la poesia fosse l’effetto di tutto questo impasto di umanità, lontanissimo, io, dall’idea che il fiore nella letteratura creativa potesse essere ammirato per i suoi colori e il suo profumo, astraendo dalle radici e dal letame che li hanno prodotti e alimentati.

            Dico ciò con somma umiltà e scusandomi della incapacità di pronunciare giudizi sui contenuti della tesi. Della quale, come ho già detto, posso ammirare, perfino con un pizzico d’invidia, la raffinata profondità delle argomentazioni, l’uso appropriato d’un linguaggio superlativamente tecnico e avvolgente, l’applicazione ad uno studio che mi pare un sublime esercizio d’intelligenza dialettica e di conoscenza retorica.

            Forse un teorico della letteratura e un filosofo della espressione retorica sarebbero stati più interessati all’argomento di quanto possa essere io, rude compagno degli inermi poeti minori che hanno affettuosamente accalorato la mia esistenza. Ripeto: sento ciò come un mio limite, che mi fa sodalizzare con ammirazione con il giovane laureando e apprezzare in sommo grado la sua fatica, meritevole di ogni considerazione.

[ “L’Idomeneo”, n. 27, 2019 ]

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