Il decreto rilancio trascura la ricerca scientifica

di Guglielmo Forges Davanzati   

Il cosiddetto decreto rilancio, approvato a maggio dopo l’annuncio della sua realizzazione ad aprile, contiene misure importanti per far fronte alla crisi del coronavirus, ma appare inadeguato se lo si pensa come uno strumento per riattivare un percorso di crescita di lungo periodo dell’economia italiana. Si tratta di un provvedimento che cerca di venire incontro sia a problemi di strozzature dal lato dell’offerta sia dal punto di vista della caduta dei consumi. Si prevedono risorse per le imprese, soprattutto sotto forma di defiscalizzazione, e una marea di bonus per i consumatori.

E’ bene chiarire che il Governo si è mosso in una condizione di massima urgenza, ma, al tempo stesso, è opportuno rilevare che sarebbe stato forse il caso di poter impegnare tante risorse – 55miliardi di euro – per cominciare a rivedere il modello di sviluppo dell’economia italiana.

Ci si riferisce, in particolare, all’opportunità di finanziare maggiormente la ricerca scientifica, puntando su settore che trainano la crescita in una prospettiva di lungo periodo. Il decreto prevede stanziamenti per la ricerca, ma forse un azzardo in più sarebbe stato benvenuto.

Il tema in discussione riguarda il fatto che i provvedimenti previsti sono finanziati in deficit, assumendo – correttamente – che in condizioni di profonda recessione il debito pubblico deve aumentare. Su questo punto, vi è ampia evidenza scientifica che mostra che non esistono vincoli alla sua espansione e che l’equiparazione del debito pubblico con il debito privato è un vero e proprio crampo mentale. A differenza del debito privato, infatti, quello di uno Stato può essere ‘monetizzato’, ovvero acquistato dalla Banca centrale. E, nel caso europeo, ciò avviene – sebbene solo sul mercato secondario – attraverso il programma del quantitative easing. E, tuttavia, va sottolineato come nel caso di mancata crescita la restituzione del debito possa diventare un serio problema, soprattutto quando questo, in rapporto al Pil, passa dal 130 al 160% (anche per effetto di una compressione del tasso di crescita stimato nell’ordine del 10% per il 2020).  

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