Il furore, la grazia

Della prossimità interiore e affettiva, e persino visionaria, tra Scalia e Pasolini  sono stato più volte testimone, a partire dai primi anni Settanta, quando  si preparava, con incontri e discussioni, la rivista “Per la critica”. Ma ripenso ai particolari del mio ultimo incontro con Gianni : tra le parole che sapevo essere quelle di un addio,  tenendomi dal suo letto la mano nella mano, egli a un certo punto ricordò Pasolini, il loro condiviso amore non della polemica ma della critica, di un certo modo “accogliente” di intendere la critica, e sentivo in quel momento che questa evocata presenza dell’ amico poeta era la figura leggera che restava visibile e sorridente sull’onda di una vita che ritirandosi si andava riprendendo ogni altra immagine. Quanto al riferimento all’ accoglienza, che poteva sembrare sovrapposto e improprio, ne intesi il senso appena varcata la soglia di quell’addio:  era a un’idea di ospitalità che si riferiva Gianni, un’ospitalità che edifica, con la parola, il luogo dove l’altro, dal margine dove è respinto, possa essere accolto.

Negli interventi successivi all’assassinio del poeta Scalia ha mostrato che le stesse definizioni di Pasolini come eretico, corsaro, diverso rischiavano di essere integrate in una rassicurante concessione a un’alterità innocua e persino funzionale alle ragioni di una società detta democratica. Mentre la scrittura e le posizioni di Pasolini, nel riconoscimento rovente delle contraddizioni, definivano il tempo-spazio dal quale poter ripensare la politica al di là della politica. E questo a partire da un’idea  dell’umano radicata nella singolarità sofferente dell’individuo, nella sua povertà, nella sua esclusione. In questo orizzonte che ha sul fondo il sogno di una vita “altra” – una vita “altra” per tutti – la critica incessante e metodica dell’omologazione e del “nuovo fascismo”, l’affezione per un mondo contadino scomparso, il dolore per la distruzione della natura, la constatazione di una mutazione antropologica in atto, non erano mai disgiunte nella parola di Pasolini dal soffio di una speranza.  Dalla leopardiana “calda disperazione” alla pasoliniana “disperata vitalità” questa speranza, questa vera e impalpabile e dolce alterità, ha avuto anche il nome di poesia. Agape e Poesia, ci ricorda Scalia, erano le figure che trasparivano nel sogno di Pasolini. Le forme che questo sogno ha via via preso lungo il cammino  – da Poesie a Casarsa alle Ceneri di Gramsci, da Ragazzi di vita a Trasumanar e organizzar, dal Vangelo secondo Matteo all’azione drammaturgica dedicata all’apostolo Paolo, da Salò alle sequenze frammentarie e sperimentali di Petrolio – partecipano di una costante sfida : portare nella lingua, nel suo pensiero-immagine, il vento di una poesia che non è rifugio ma sferza, non rimpianto ma desiderio, non contemplazione ma azione.

Per questo l’animatissimo ritratto di Pasolini che le pagine dell’amico Scalia vanno ricomponendo, strappandolo alle convenzioni della critica letteraria e ai suoi addomesticamenti politici, è un ritratto en poète : è appunto la poesia, cioè il nesso tra grazia e lingua, tra dolcezza e conoscenza, che trascorre nella fitta rivisitazione che Scalia fa  della scrittura, delle idee, del cinema di Pasolini. Un ritratto che sembra avere sullo sfondo un’immagine, quella dell’autoritratto   giovanile – 1947, tempera su faesite – dove il volto del poeta è quasi intagliato, i colori sono decisi, e le labbra stringono lo stelo di un fiore rosso. Il fiore della poesia: custodito contro un mondo che non riconosce i suoi poeti.

[Prefazione a Gianni Scalia, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, a cura di Pasquale Alferj, Riccardo Corsi, Simone Massa, Edizioni Portatori d’acqua, Roma 2020]

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