Di che cosa si occupano oggi gli economisti? Intervista a Guglielmo Forges Davanzati

Puoi spiegare in termini semplici come viene rappresentato il funzionamento del mercato del lavoro in ambito neoclassico e la differenza con l’approccio eterodosso, così da fornire al lettore un primo veloce elemento di riflessione sulle due scuole di pensiero?

Si considera una funzione di domanda di lavoro, espressa dalle imprese, che decresce al crescere del salario e una funzione di offerta di lavoro, espressa dai lavoratori, che cresce al crescere del salario. Il meccanismo concorrenziale fa sì che nel punto di incontro fra le due funzioni si generi equilibrio, nel senso che vi è pieno impiego della forza-lavoro e assenza di disoccupazione involontaria. Vi è disoccupazione involontaria solo nel caso di interventi esterni che rendono il salario ‘rigido verso il basso’ ovvero che impediscono l’attivarsi del meccanismo concorrenziale: gli interventi esterni ai quali ci si riferisce riguardano essenzialmente l’azione del sindacato. Questo è il modello di base. Le conclusioni nella sostanza non cambiano se si introducono “imperfezioni”, p.e. se si ammette che la ricerca di lavoro comporta costi, in termini monetari e di tempo. Al di là dei tecnicismi, e senza dar conto delle differenze esistenti fra loro, le teorie eterodosse si fondano sulla convinzione in base alla quale il mercato del lavoro non può essere ‘isolato’ dagli altri mercati. Si ritiene che le decisioni di occupazione, da parte delle imprese, dipendono dalle aspettative sulla domanda aggregata; che siano influenzate dalla dinamica dei mercati finanziari e dalle decisioni del settore bancario in merito alla determinazione dei tassi di interesse e della quantità di credito erogato.

Con quali criteri si accede alla carriera universitaria in Italia?

L’accesso alla carriera universitaria è, oggi, in Italia, non solo estremamente difficile (per non dire quasi impossibile) ma anche sempre più legata a lunghi periodi di precariato. Ciò per il combinato di due fattori che attengono alla c.d. riforma Gelmini e al sottofinanziamento della ricerca. La riforma Gelmini ha sostituito al ruolo del ricercatore a tempo indeterminato (ruolo che va ad esaurimento) quello del ricercatore a tempo determinato. Al tempo stesso, si sono ridotti in modo massiccio i finanziamenti alle Università e si è legata la possibilità di reclutamento alla disponibilità di “punti organico” (facoltà assunzionali). In queste circostanze, si disincentiva l’assunzione di giovani ricercatori dal momento che questa costerebbe più dell’avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato. In un contesto di continua riduzione di fondi, si può comprendere che, anche in presenza di giovani molto preparati, si tenda a preferire, risparmiando, l’uso di risorse umane già disponibili.

E con quali criteri si fanno avanzamenti di carriera?

Prescindendo dalle logiche di potere che guidano spesso le decisioni delle commissioni, l’avanzamento di carriera, da ricercatore a professore, avviene sulla base della qualità delle pubblicazioni prodotte, sulla base dei criteri stabiliti dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR).

Quali sono le riviste più prestigiose sulle quali i ricercatori economici ambiscono di vedere pubblicata la ricerca?

Più che ambire a pubblicare, direi dover pubblicare. Dove, su quali riviste? L’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR) – il cui costo di funzionamento è stimato a circa 10milioni l’anno – stabilisce un elenco di riviste sulle quali i ricercatori sono chiamati a pubblicare, definendole di classe A (http://www.anvur.org/attachments/article/254/RIVISTE_CLASSE_A_AREA13_R.pdf) sulla base di tecniche e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che ANVUR considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca. La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglo-canadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto, e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica: è recente la denuncia dell’Accademia dei Lincei contro l’uso di indicatori bibliometrici per la valutazione della ricerca, soprattutto nelle scienze umane e sociali (per approfondimenti rinvio a www.roars.it). E va anche ricordato che negli Stati Uniti – le cui Università sono comunemente ritenute estremamente sensibili alla “cultura della valutazione” – l’impact factor non è quasi mai considerato un indicatore attendibile per valutare la qualità della produzione scientifica. In Italia, i (pochi) reclutamenti nelle Università italiane e i (pochi) avanzamenti di carriera dei docenti universitari avvengono prevalentemente sulla base della qualità della ricerca scientifica dei candidati, come certificata dalla lista delle riviste elaborata da ANVUR sulla base del loro impact factor. Il che genera un meccanismo potenzialmente vizioso. La gran parte delle riviste considerate eccellenti tende a pubblicare articoli il cui contenuto è in linea con la visione dominante. Ciò induce attitudini conformiste, soprattutto da parte delle giovani generazioni, impedendo di fatto la produzione di ricerche realmente innovative. E poiché l’attività didattica non è mai disgiunta dall’attività di ricerca, i contenuti dell’insegnamento tendono a diventare sempre più conformi alla visione dominante, rendendo gli studenti sempre meno informati su teorie alternative a quelle dominanti. Come hanno osservato, in particolare, Bellofiore e Vertova, in un articolo pubblicato sul “Manifesto” del  22 marzo 2012, dal titolo “Per una critica della valutazione”, la valutazione della ricerca, basata sulla “cultura della valutazione” (ovvero quella fatta propria dall’ANVUR), inevitabilmente genera omologazione, dal momento che non riconosce l’esistenza di una pluralità di “paradigmi” teorici in conflitto fra loro.

Ho detto, in precedenza, che ciò che conta per un ricercatore italiano oggi non è dove vorrebbe pubblicare, ma dove deve pubblicare, riferendomi al fatto che, in assenza di articoli su riviste di classe A, per il singolo ricercatore è difficile l’avanzamento di carriera e per una sede universitaria (o per un Dipartimento) è difficile ottenere finanziamenti pubblici di entità significativa. Il Ministero infatti ripartisce le risorse (e le ripartirà sempre più) sulla base della c.d. quota premiale, ovvero assumendo come criterio essenziale il “merito”, quantificato fondamentalmente sulla base dell’esito della valutazione della ricerca (VQR) e dunque della numerosità di pubblicazioni collocate su riviste di classe A.

Puoi portare qualche esempio di titolo ed argomentazione trattata nelle riviste mainstream?

Qui è rilevante chiedersi cosa e come gli economisti comunicano, ovvero quali teorie espongono e quali tecniche argomentative utilizzano per persuadere i loro interlocutori. Evidentemente, la persuasione può essere, per così dire, di ‘segno orizzontale’, se è indirizzata a propri colleghi, o di ‘segno verticale’, se è indirizzata a soggetti che non conoscono la disciplina. Nel primo caso, il discorso si svolge in un contesto nel quale è possibile il dissenso e la critica, a fronte del fatto che, nel secondo caso, dissenso e critica non si danno, o quantomeno possono esercitarsi in una sfera che esula dalle technicalities proprie del discorso economico in ambito professionale. Questa distinzione, spesso, nei fatti è attenuata, giacché molti economisti (e in numero crescente) comunicano sia fra loro – innanzitutto attraverso le riviste scientifiche di settore (l’inside opinion, stando alla definizione di Keynes) – sia con un pubblico più ampio (l’outside opinion). Si può legittimamente ritenere che la prima modalità di comunicazione sia un prius rispetto alla seconda, e cioè che gli economisti comunicano innanzitutto fra loro (al fine di accrescere le loro conoscenze) per poi successivamente divulgarle. La domanda “cosa e come gli economisti comunicano?” è così assimilabile alla domanda “quali risultati delle loro ricerche gli economisti preferiscono divulgare e quali ‘tecniche del discorso’ utilizzano?”.

Il punto dal quale partirei è dato dalla considerazione di McCloskey secondo la quale “la ricerca della Verità è una cattiva teoria delle motivazioni umane” e gli scienziati “come esseri umani, cercano la forza di persuasione, l’eleganza, la soluzione di rompicapi, la conquista di dettagli sfuggenti, la sensazione di un lavoro ben fatto, l’onore e il reddito che derivano da un incarico”. Se si assume questo punto di vista, occorre chiedersi come gli scienziati (nel nostro caso, gli economisti) riescano a ottenere reputazione. In linea di massima, possono ottenerla per due canali non necessariamente alternativi: diventando “consiglieri del Principe” e/o cercando di ottenere il massimo numero di citazioni dei propri articoli. Con ogni evidenza, ciò avviene all’interno di specifici dispositivi di finanziamento e valutazione della ricerca scientifica, giacché, da un lato, il “Principe” ha sue idee politiche che necessitano di essere legittimate dalla ricerca stessa e, dall’altro, i dispositivi di finanziamento e valutazione non sono affatto neutrali rispetto ai contenuti delle pubblicazioni scientifiche. Anzi, i meccanismi che presiedono al finanziamento e alla valutazione, almeno nel campo delle scienze sociali (e, ancor più, in Economia) sono intrinsecamente normativi e sono normativi nel senso che non possono che assecondare gli interessi economici dominanti – o quantomeno non possono contrastarli. E’ ciò che si può definire un effetto di cattura degli economisti da parte di gruppi di interesse che esprimono una domanda politica di idee economiche. Occorre rilevare che tale domanda non necessariamente implica che l’economista debba legittimare politiche economiche che avvantaggiano alcuni gruppi a danno di altri, potendo, per contro, incentivare – tramite la distribuzione di finanziamenti e la valutazione della ricerca – il proliferare di studi che eliminano qualunque connotazione politica dal discorso economico. E’ ciò che viene definito l’imperialismo dell’economia. E’ un dato di fatto che un numero consistente e crescente di economisti si occupa di temi che non attengono propriamente a ciò che si sarebbe indotti a considerare temi economici. Ne costituiscono esempi l’economia della famiglia, l’economia della religione, l’economia della bellezza, l’economia dello sport, la teoria economica del tempo libero. Si tratta di studi che applicano il criterio della razionalità strumentale a qualunque scelta possibile, a volte giungendo a risultati talmente improbabili da meritare il c.d. IGnobel in Economia o da essere destinati alle “Humor Sessions” dell’American Economic Association. E già il fatto che esistano Humor Sessions nell’ambito dei convegni della più grande associazione scientifica di settore la dice lunga sullo stato della disciplina. A questi studi si affiancano ricerche puramente empiriche che certificano correlazioni senza causazioni, o correlazioni spurie: si verifica, cioè, che il fenomeno X è statisticamente correlato al fenomeno Y, ma che X non “causa” Y, dal momento che il fenomeno che si intende spiegare dipende da altre variabili e, dunque, la correlazione fra X e Y è del tutto casuale.  E’ come rilevare che al crescere del numero di cicogne cresce il numero di neonati. In più, in questi esercizi spesso le variabili considerate non attengono alla sfera tradizionale dell’indagine economica. Un esempio estremo, che ha fatto molto discutere nella comunità scientifica internazionale, riguarda un articolo che affronta il fondamentale problema se la lunghezza del pene influenzi la crescita economica (https://mpra.ub.uni-muenchen.de/32706/1/MPRA_paper_32706.pdf).L’autore rileva che la correlazione esiste: Paesi nei quali la lunghezza del pene è maggiore tendono ad avere più alti tassi di crescita, e prova a motivarla con l’effetto che il testosterone avrebbe sulla propensione al rischio e, quindi, sulla dinamica degli investimenti. L’autore chiarisce che questo effetto potrebbe anche verificarsi per l’elevata autostima che deriva dall’avere un pene lungo e che un “eccesso” di lunghezza del pene potrebbe generare eccessiva assunzione di rischio. Si tratta di una variante di un certo interesse dell’Economica e del suo imperialismo, dal momento che riflette un’ulteriore tendenza tipica di questo approccio e che si potrebbe definire di measurement without theory. Due caratteristiche accomunano i due approcci: i) l’espulsione di qualunque elemento politico dal discorso economico; ii) la sostanziale irrilevanza dell’oggetto di studio, se si considera rilevante un’analisi che prenda ad esame variabili propriamente economiche.

A me pare che il mainstream, la visione egemone, sia oggi questo: una galassia di teorie che non sempre e non necessariamente portano a prescrizioni di politica economica di segno liberista, e che spesso si traducono in esercizi autoreferenziali o bizzarri o concepiti nel quadro di una visione cumulativa della conoscenza, associata alla convinzione che l’Economia sia una scienza, nell’accezione della Fisica Teorica. In questo scenario, non desta sorpresa il fatto che la Storia del pensiero economico, come ambito disciplinare per sua natura plurale, sia diventata una disciplina sostanzialmente marginale, sia per quanto attiene agli spazi ad essa destinati nella didattica universitaria, sia per quanto attiene alla ricerca, sia soprattutto per la sua reputazione. Una recente ricerca, svolta da Maria Cristina Marcuzzo, evidenzia il fatto che l’utilizzo del codice JEL B2 (Storia del pensiero economico ed economia eterodossa) è stato sempre meno utilizzato nelle riviste top di settore nel corso dell’ultimo decennio.

Mi stai dicendo che la carriera universitaria di un professore d’economia è decisa, in Italia, da pubblicazioni di questo tipo?

Direi di sì.Devi essere conformista, mi pare ovvio in un sistema così congegnato. Ma considera che nella fase di accesso alla carriera universitaria, la maggior parte dei giovani è già mainstream. Per le ragioni che ho provato a esporre, raramente ci si imbatte in giovani laureati in Economia non dico marxisti, sraffiani o keynesiani, ma che almeno conoscano Marx o Sraffa (e spesso ignorano Keynes). Se non sono conformisti e sono molto interessati alla ricerca in ambito economico, emigrano.

Qualche giorno fa è stato pubblicato uno studio sulla situazione dell’istruzione nei paesi più industrializzati: solo il Lussemburgo riesce a fare peggio dell’Italia nella spesa per l’istruzione terziaria nei paesi Ocse: Il paese che sarebbe «uscito dalla crisi» riesce a gareggiare in una drammatica corsa al ribasso testa a testa con il Brasile e l’Indonesia. Il rapporto Education at a glance 2015 offre un dato fermo al 2012 ma ancora valido per descrivere lo stato comatoso dell’università ottenuto, programmaticamente, dai tagli Gelmini-Tremonti al fondo per gli atenei. Allora il finanziamento rappresentava lo 0.9% del Pil, con un leggero aumento rispetto allo 0,8% del 2000. Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti sono al 2%. Qual è lo stato di salute delle Università italiane?

L’obiettivo dichiarato delle recenti “riforme” del sistema universitario italiano (in particolare la Legge 240/10) consiste nel migliorare la qualità della produzione scientifica delle Università italiane. Convenzionalmente, la qualità della produzione scientifica viene misurata calcolando il numero di citazioni che articoli e libri di studiosi italiani hanno ricevuto. Su fonte SCIMAGO, si calcola che dal 2006 al 2010 il sistema universitario italiano si è collocato all’ottava posizione, su scala mondiale, per numero di citazioni ricevute. Nello stesso intervallo di tempo, l’Italia era collocata al decimo posto, su scala mondiale, per ricchezza prodotta. In altri termini, la “cura dimagrante” imposta all’Università pubblica italiana si innesta proprio nel periodo nel quale quest’ultima è stata massimamente produttiva. La contraddizione delle “riforme” rispetto all’obiettivo dichiarato consiste nel fatto che, pressoché inevitabilmente, gli studiosi italiani produrranno meno, sia perché avranno meno fondi a disposizione, sia perché sempre più anziani. Il recente “superamento” – in termini di quantità di citazioni –  da parte delle Università cinesi suona come un campanello d’allarme.

L’opinione dominante fa propria la convinzione che i tagli al sistema formativo sono necessari per ragioni di bilancio. Si tratta di una tesi palesemente falsificata dal fatto che, nell’intero settore del pubblico impiego, le maggiori decurtazioni di fondi sono state subìte proprio da scuole e università. Si è, dunque, in presenza di una scelta di ordine puramente politico, non dettata da ragioni “tecniche”. Scelta di ordine politico che ha a che vedere con il modello di specializzazione produttiva al quale si intende portare l’Italia, e che rinvia a una specializzazione produttiva che assecondi le ‘vocazioni naturali’ del territorio.  A titolo esemplificativo, può far testo una recente dichiarazione di uno dei più ascoltati economisti italiani, Luigi Zingales, secondo il quale: “Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto”. E’ una dichiarazione che esplicita una visione diffusamente condivisa sul piano politico.   Se è questa la linea che si intende perseguire, non sorprende che alla “desertificazione produttiva” del Paese (già in atto) debba far seguito la sua “desertificazione universitaria”. Ed è quanto, in larga misura, si è già realizzato. In netta controtendenza rispetto a quanto verificatosi, negli ultimi anni, nei principali Paesi OCSE, in Italia si è ridotta la quota degli occupati nelle professioni ad alta specializzazione. In altri termini, le (poche) assunzioni effettuate nel settore privato hanno riguardato essenzialmente individui con bassi livelli di scolarizzazione. Ciò per le seguenti ragioni:

1) La contrazione della domanda di lavoro qualificato è dipesa essenzialmente dalla riduzione degli investimenti realizzati dalle imprese italiane (-3.9% nel 2012 rispetto all’anno precedente, su fonte ISTAT). La riduzione degli investimenti si associa, infatti, a minore disponibilità di capitale fisso per addetto (e maggior obsolescenza del capitale) e alla riduzione delle dimensioni medie aziendali. E’ del tutto evidente che da questo scenario, caratterizzato da bassa accumulazione di capitale fisso e da nanismo imprenditoriale, ci si poteva solo aspettare che la domanda di lavoro espressa dalle imprese sarebbe stata sempre più rivolta a individui poco scolarizzati. A ciò si può aggiungere il fatto che i nostri imprenditori sono, in media, poco scolarizzati circa il 70% degli imprenditori italiani non è diplomato e che ciò ha rilievo nelle scelte di assunzione. Come documentato dall’ISFOL, gli imprenditori con elevato titolo di studio sono maggiormente propensi ad assumere individui con elevata dotazione di capitale umano.

2) Le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni hanno significativamente contribuito a generare questi esiti. Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica e l’aumento dell’imposizione fiscale hanno ristretto i mercati di sbocco delle (molte) imprese italiane che operano su mercati interni, riducendone i profitti (o determinandone il fallimento) e riducendo, di conseguenza, i fondi interni disponibili per le innovazioni.

3) Non da ultimo, una campagna mediatica efficacemente organizzata ha dipinto l’Università pubblica come luogo di spreco, di baronie, di assenteismo, di corruzione. E’ verosimile che, a parità di condizioni, gli imprenditori siano più propensi ad assumere diplomati anche per questa ragione, imputando valore nullo a titoli di studio rilasciati da Istituzioni del tutto prive di credibilità.

Qual è la situazione nel Mezzogiorno?

Pessima. E’ sufficiente un dato per fotografarla: il 25,7% del totale della “quota premiale” (la quota del finanziamento ordinario quantificata sulla base della produttività degli Atenei), nel 2013, è andato agli atenei meridionali contro il 36,8% delle Università settentrionali. Come registrato dalla SVIMEZ (Rapporto 2014), al sistema universitario meridionale sono stati sottratti 160 milioni di euro sottratti dal 2011. Ciò fondamentalmente a ragione del numero eccessivo di studenti fuori corso e di laureati disoccupati. Al di là del fatto che non dovrebbe essere compito dell’Università modificare il contesto socio-economico nel quale opera, il disegno appare chiaro (anche perché esplicitato recentemente dal Presidente del Consiglio): diversificare il sistema universitario italiano in sedi teaching e sedi research, dove nelle seconde si fa ricerca e nelle prime esclusivamente didattica. E non è un mistero che i poli di “eccellenza” che si intendono istituire (o dichiarare tali) sono al Nord.

C’è di più. La non uniformità territoriale dei tagli alla ricerca è anche attestata dai provvedimenti di redistribuzione dei punti organico attribuite alle sedi universitarie. Come è stato ripetutamente messo in evidenza, si tratta non solo di un provvedimento che oggettivamente penalizza le sedi meridionali ma che costituisce un’ulteriore conferma dello iato esistente fra obiettivi dichiarati e risultati ottenuti. Si tratta, infatti, di un provvedimento palesemente iniquo e non meritocratico.

È iniquo dal momento che l’operazione di redistribuzione dei punti organico è stata effettuata sulla base di un indicatore che fa esclusivo riferimento a variabili relative alla condizione finanziaria dei singoli atenei e che, dunque, non tiene conto delle variabili di contesto: tasso di disoccupazione, reddito pro-capite. In particolare, risultano premiate le sedi che ottengono maggiori contribuzioni studentesche e penalizzate le sedi (in particolare meridionali) nelle quali è maggiore l’incidenza di esoneri, parziali o totali, del pagamento delle tasse.

È un provvedimento non meritocratico, dal momento che l’indicatore utilizzato per la ripartizione dei punti organico prescinde dalla quantità e dalla qualità della produzione scientifica. E lo è anche perché attiva un meccanismo perverso: per non chiudere corsi di studio, gli atenei sono obbligati ad accelerare il turnover. Per accelerare il turnover devono aumentare le tasse. Aumentando le tasse è ragionevole aspettarsi un calo di immatricolazioni e un incremento relativo degli studenti provenienti da famiglie con redditi elevati. Ma, soprattutto, l’aumento delle tasse contribuisce ad accentuare l’immobilità sociale, rendendo l’università sempre più elitaria, in palese contraddizione con gli obiettivi “meritocratici” che hanno ispirato la riforma.

[Intervista rilasciata a Roberto Polidori in “Sidelandia.it”, 3 dicembre 2015]

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