Di mestiere faccio il linguista 7. Gli etnonimi

di Rosario Coluccia

Nell’articolo di due settimane fa avevo commentato un episodio occorso al cantautore Francesco Guccini: in un’intervista, si era riferito ai cittadini italiani facenti parte della comunità slovena di Trieste indicandoli con l’epiteto “sciavi” ‘schiavi’, usato nella città negli anni del secondo dopoguerra. Molti lettori si chiedono. Come può accadere che una parola con implicazioni così  negative venga utilizzata per qualificare un’intera comunità etnica?

La storia della lingua spiega molte cose. Il latino medievale “sclavus” (da cui derivano l’italiano “schiavo”, il piemontese “sciav”, il veneto “sciavo”, il triest. “sciavo”, ecc.)  all’origine significava propriamente ‘slavo’, e indicava un gruppo di popolazioni stanziate nell’Europa orientale e sud-orientale. Era quindi semplicemente un “etnonimo” (termine tecnico della linguistica), un nome etnico indicante una nazione, una regione, un gruppo linguistico (come, per capirci, italiano, francese, tedesco, ecc.). Il significato primario si travasa in alcuni cognomi vivi ancor oggi. I cognomi Schiavo, Schiavi, Schiavone ecc. indicano semplicemente cittadini di origine slava. La Riva degli Schiavoni a Venezia era frequentata da mercanti e marinai slavi. Poi, con il tempo, “sclavus” ha assunto un altro valore, ha preso il significato il significato di ‘schiavo’, ‘servo’. Dapprima in Germania, nei secoli X e XI, quando si verificò la prima grande deportazione di schiavi slavi, mano d’opera di nessun costo, adibita a compiti infimi; poi anche in Italia, nel secolo XIII, quando si importarono schiavi slavi dal sud-est europeo e dalle rive del Mar Nero. Insomma fatti di violenza estrema, la riduzione in schiavitù di migliaia di uomini e donne, hanno dato un significo diverso alla parola, che dapprima era un normalissimo etnonimo; poi, per atroci eventi storici, divenne una qualifica riferita a persone all’ultimo livello della scala sociale. La schiavitù era normale nella società classica, in Grecia e Roma. Ma non è finita con il tramonto della classicità. Nei secoli passati milioni di neri sono stati deportati dall’Africa per edificare la ricchezza statunitense. Oggi non godono di nessuna libertà, non sono padrone neppure del loro corpo, le giovanissime africane e slave che si prostituiscono sulle nostre strade.

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (quarta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *