Come guarire la Terra malata

La lezione che la natura ci sta dando mostra come i modelli di produzione e consumo pre-covid, che vedono la crescita economica come unico obiettivo strategico, hanno fallito. Non possiamo pensare, finita una crisi epocale, di ricominciare abbracciando gli stessi paradigmi che hanno innescato la crisi, con la speranza che identici modelli portino a risultati differenti.

Accanto ai molti segnali negativi, per fortuna ce n’è uno positivo, e importante: arriva dall’Unione Europea che, già prima della crisi, ha riconosciuto la necessità di un nuovo patto verde per l’Europa (Il Green Deal europeo1), e ora sta mettendo cifre importanti a disposizione degli Stati più colpiti dalla pandemia. L’Italia è al primo posto per gli importi che saranno erogati.

Bisogna evitare in tutti i modi che la considerevole quantità di euro che dall’Europa si sta riversando sull’Italia, oltre alla enorme quantità di risorse che verranno dai sacrifici dei cittadini italiani, vada a investimenti per la restaurazione del “business as usual” invece che al Green Deal. Anche perché, se non orientato davvero al Green Deal, quell’aiuto europeo non può essere chiesto.

Come useremo questi fondi? È chiaro che se si vuole imboccare seriamente la difficile fase della transizione l’intervento pubblico è essenziale, come guida agli investimenti.

In Italia, fra gli anni ’50 e inizio ’60 sono stati avviati progetti di pianificazione, via via cancellati dall’ondata di privatizzazioni degli anni ’80. Oggi dovremo ripensare, anche criticamente, a quell’esperienza per trovare forme che consentano di evitare la statalizzazione, e però incoraggino l’intervento pubblico intrecciato con l’iniziativa privata, avvicinandosi all’esperienza della socializzazione (dei beni comuni, per esempio).

Quel che è chiaro è che non si può ricominciare come se nulla fosse. E per cominciare è necessario che l’accesso agli aiuti europei venga attentamente condizionato.

La crisi è un’occasione irripetibile per correggere i nostri modelli di sviluppo con un cambiamento radicale nella realizzazione della conversione ecologica che – ci dice la comunità scientifica internazionale – è indifferibile. La parola chiave per lanciare nuove sfide è sostenibilità, che si riflette nei modelli di produzione e consumo, e si basa sulle fonti energetiche rinnovabili e sulla economia circolare, preservando l’integrità degli ecosistemi e difendendo il suolo.

È una sfida che si vince solo con il sostegno della ricerca scientifica e tecnologica e di un forte sistema di istruzione a tutti i livelli, in cui si venga preparati a una visione sistemica dei problemi e che ponga l’educazione ambientale fra i pilastri del percorso formativo

Dall’industria alla filiera umana

Attenti ai dinosauri. L’ambiente è la casa comune non solo da preservare ma da rigenerare: la sua vivibilità riguarda tutti, ed è per questo che anche l’agricoltura ne è parte

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di Lucio Cavazzoni

Il rapido sviluppo da dopo la seconda guerra mondiale delle tecniche agricole e dell’impiego della chimica di sintesi, insieme alla intensivizzazione degli allevamenti animali hanno permesso una grande crescita della produttività ma al costo di un impatto ambientale non sostenibile e di un consumo, in certi casi irrimediabile, delle risorse limitate del nostro pianeta.

Il consumo smodato e sempre solo estrattivo di risorse, la deforestazione e l’inquinamento di terra, compresa la sua fertilità, acqua ed aria, insieme alla forzatura biologica degli allevamenti intensivi, hanno contribuito ad un oggettivo squilibrio del pianeta. In una parola l’industrializzazione spinta dell’agricoltura, ovvero dei suoi processi biologici ed ecosistemici, ne ha modificato la natura e gli scopi.

La caratteristiche nutrizionali di molti prodotti alimentari sono cambiate provocando spesso intolleranze quando non vere patologie, la destinazione di intere aree continentali alla produzione di soia e mais destinate all’alimentazione animale dei paesi più ricchi (60% della s.a.u. del pianeta), la marginalizzazione del ruolo dei contadini sempre più impoveriti quando non assistiti oltre alla più totale sconsiderazione del e il lavoro bracciantile ridotto ovunque a schiavitù sono parte del prezzo pagato da questo approccio. al pianeta ed alle sue risorse, comprese quelle umane ed animali, di puro inesauribile sfruttamento.

Con le conseguenze ambientali e sociali sotto gli occhi di tutti.

Ma l’agricoltura è il modo in cui degli esseri umani di relazionarsi si relazionano alla natura: non per prenderne non il sopravvento ma il necessario per vivere. e fare vivere. E L’ambiente è la casa comune non solo da preservare ma da rigenerare: la sua vivibilità riguarda tutti ed è per questo che anche l’agricoltura, che ne è parte, riguarda tutti.

1) Ricontadinizziamo l’agricoltura.

Partendo dalle aree marginali ed in via di abbandono la presenza di una agricoltura di piccole e medie dimensioni è l’unica che può, se a tale scopo indirizzata (come lo è nelle nuove generazioni) unire produzioni di qualità e presidio del territorio. Ovvero produrre una buona qualità nutrizionale delle derrate agricole ed animali operando in senso agroecologico, includendo in modo mirato ed evoluto la manutenzione e salvaguardia del territorio e la dimensione paesaggistica. Riportare lavoro pulito e sano in modo nuovo e sostenibile, in rete, connessi non solo digitalmente – condizione ineludibile – con le comunità e le amministrazioni locali, operando nell’ecoturismo e fruendo di tecniche di precisione applicate al territorio ed all’agricoltura più che alle economie di scala, diviene condizione fondamentale per ristabilire non solo la vita e vivibilità ma per costituire il motore di una nuova economia basata non sulla competizione con le grandi commodity.

2) Per un reddito di contadinanza.

I nuovi contadini, che operano in un indirizzo agro- ecologico e di rigenerazione ambientale divengono a tutti gli effetti i guardiani dell’ambiente e del paesaggio, riferimento delle città metropolitane inclusive di una nuova relazione città-campagna. Per loro, per questa funzione operativa programmata e monitorata dalle comunità locali è fondamentale prevedere un reddito svincolato dalla produzione e vincolato alla rigenerazione territoriale e paesaggistica fondata sulla biodiversità. Tale funzione si rivolge con priorità alle aree interne e in via di spopolamento, ma riguarda tutta l’agricoltura.

3) Per una trasformazione dei prodotti diffusa sui territori. Fuori dalla concentrazione alimentare del nostro tempo.

Le moderne tecnologie informatiche consentono il trasferimento di know-how molto veloce e ad oggi è possibile la sperimentazione di fabbriche diffuse sul territorio di trasformazione di prodotti alimentari. Aprire piccoli medi centri di lavorazione delle principali produzioni agricole come i mulini e lavorazioni del grano, del latte, di macelli è oggi possibile con un alto livello tecnologico – distribuito digitalmente – in grado di preservare e valorizzare le biodiversità e tipicità locali, le scelte nutrizionali volute, le qualità specifiche e delle persone che li abitano. Consentendo ai territori di non essere più centri di estrazione di valore ma di implementazione dello stesso.

4) Per una riforma agroambientale in Europa e nel pianeta.

La nostra critica verso la PAC di questi ultimi lustri è molto forte, poiché ha aumentato in modo molto forte l’agroindustria concentrandola in sempre meno mani e contribuito a sviluppare una schiacciante economia di scala che ha ridotto gli agricoltori e allevatori a meri esecutori di una politica economica mirata al massimo ribasso di costi e massima produttività dei campi. Con un impegno immutato di chimica di sintesi che ha avvelenato acqua ed aria, oltre che compromesso molti cibi. Tale politica deve cambiare radicalmente, non serve più finanziare la grande industria alimentare ipertrofica, né continuare ad estrarre valore da territori ormai esausti: si è consumato un pianeta in questo modo. Come è tempo di prendere in modo diretto le distanze da una agricoltura assistita, bancaria e speculativa, tutta solo meccanizzata e privata di qualunque elemento umano e solo strumentale alla politica delle grandi corporation che detengono i monopoli di semi, varietà manipolate geneticamente, prodotti chimici di sintesi, antibiotici animali.

[“Il Manifesto” del 24 luglio 2020]

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