Di mestiere faccio il linguista 10. La lingua della pandemia

Dal 1982 è entrato nell’italiano l’anglicismo «instant book», alla lettera ‘libro immediato’. Indica un libro scritto e pubblicato in tempi strettissimi, incentrato su un argomento di grande attualità e risonanza pubblica. È un «instant book» un libro appena uscito di Salvatore Claudio Sgroi, «Dal “corona virus” al “covid-19”. Storia di un lessico virale». Vi si esaminano nascita, etimologia, significato, diffusione di parole come “corona virus”, “covid-19”, “virus”, “anti-virus”, “lockdown”, “pandemia”, “morbilità”, “distanziamento sociale”, “congiunti” (e le famiglie di parole collegate alle precedenti) che traboccano dai mezzi di comunicazione di massa, entrano nel lessico quotidiano e fanno ormai parte del nostro patrimonio lessicale. Questo imponente flusso di neologismi (e di termini noti da tempo che acquistano nuova vitalità) ripropone alcuni temi di cui abbiamo tante volte parlato nella nostra rubrica. Troppi anglicismi, spesso fuorvianti e anche inutili, visto che la nostra lingua possiede parole comprensibili e perfettamente funzionali. Pervasivo è “lockdown”, variamente scritto, in corsivo, tra virgolette, in tondo, a seconda che il forestierismo appaia più o meno familiare a chi lo usa. A volte pronunziato male, come succede a parlanti poco pratici dell’inglese che incautamente, per vanità o per moda, maneggiano una lingua mal conosciuta. Ne ricostruisce la storia Matilde Paoli, in un articolo apparso in «Italiano digitale», rivista online dell’Accademia della Crusca. Eppure avremmo a disposizione la parola giusta. Confinamento è chiaro a tutti (suggerisce Claudio Marazzini, presidente della stessa Accademia), da cui nascerebbe il facile contrario deconfinamento, per indicare il periodo che prevede l’allentamento delle misure cautelative e consente maggiori possibilità di movimento e di contatti. Si comportano molto meglio di noi i francesi, che usano sempre solo “confinement ~ déconfinement”, rinunziando senza rimpianti a un forestierismo inutile, a vantaggio di oneste parole della loro lingua (oneste parole esigono i francesi, anche nelle disposizioni che invitano ad avvalersi della lingua nazionale evitando il ricorso a prestiti inutili).

Il ricorso a neologismi poco noti genera incertezze in chi li usa e riflessioni nei parlanti più attenti. È prevalente nella rete «il covid-19» (accordato al maschile) rispetto a «la covid-19». Il “Tema del mese” dell’Accademia della Crusca suggerisce con buoni argomenti di usare il femminile. Vestendo per una volta i panni del grammatico e non del virologo, Fabrizio Pregliasco, che tutti abbiamo imparato a conoscere attraverso il video, spiega così la sua preferenza per il femminile: significa ‘malattia da coronavirus’, dove “Co” sta per corona, “vi” per virus, “d” per disease, ovvero ‘malattia’, e “19” indica l’anno in cui si è manifestata per la prima volta. Insomma, decisamente, “la Covid-19” (con allusione a malattia, pandemia). Francesco D’Andria, archeologo, in una lettera a me indirizzata lamenta l’espansione del femminile in «la Coronavirus» (invece di «il Coronavirus»), «la CO2» (invece di «il CO2», ossia il biossido di carbonio). Vedremo cosa prevarrà, i parlanti non sono etimologi né linguisti, le scelte sono influenzate dai fattori più diversi.

I termini nuovi che affluiscono di continuo spesso risultano sconosciuti o poco chiari. Il «Corriere della Sera» del 17 luglio, p. 8, presentando la “parola del giorno” «carica virale», precisa: «è la misura del numero di particelle virali presenti in un individuo. Secondo le stime la contagiosità della malattia è più elevata quando la quantità di virus in circolo è maggiore». Roberto Costanzo, medico, mi segnala che Pietro Dobolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione, scrive: «perdurando la situazione di emergenza dovuta alla pandemia da Covid-19, l’esecutivo è facoltizzato a disporre che sia temporaneamente sospesa l’efficacia di tutte le norme…»; immettendo, in un articolo di giornale rivolto al vasto pubblico, il verbo «facoltizzare» ‘autorizzare, dare facoltà’, di basso uso, raro, sconosciuto ai più, tipico del linguaggio burocratico. Perfino Carlo Nordio arriva a scrivere che i rifiuti presentano «caratteristiche di putrescibilità» (tra virgolette, e quindi presumibilmente riprendendo un’espressione altrui). Espressioni astruse legate alle nuove situazioni si insinuano a getto continuo, senza paura del ridicolo. A settembre gli studenti di tutta Italia torneranno a scuola. Il Comitato Tecnico Scientifico precisa che si dovranno rispettare le misure di sicurezza e il distanziamento fisico di un metro fra le «rime buccali» degli alunni. Si allibisce di fronte a «rime buccali». La poesia non c’entra. La parola «rima» nel significato di ‘fessura’, ‘fenditura’ è obsoleta, inopportunamente riesumata per essere riferita all’apertura trasversale delimitata dalla bocca. Vuol dire, semplicemente, che gli alunni devono stare almeno a un metro di distanza, da bocca a bocca, per evitare i rischi del contagio.

È l’ennesimo terribile regalo del burocratese, ricco di periodi lunghissimi e di formule incomprensibili. Se ne lamenta,  giustamente, anche Luigi Labruna, professore emerito di Diritto romano, in un articolo appena uscito «La Repubblica» di Napoli. Non si può scrivere così in una disposizione ufficiale che dovrebbe essere capita da tutti. Non ci si può rivolgere con un linguaggio astruso a professori, studenti, famiglie che hanno bisogno di capire, per comportarsi a dovere, per non recar danni a sé stessi e alla collettività. Liberiamo la lingua dalle oscurità, scriviamo e parliamo in maniera semplice.

                                                   [“Nuovo Quotidiano di Puglia del 2 agosto 2020]

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