Saggi di critica della politica economica – Anno 2015

Si parta dal presupposto che le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste. L’Italia ha una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale e gestite da imprenditori con basso titolo di studio;è  un’economia dualistica,  nella quale le divergenze fra macro-aree sono state, se non per pochi anni, costantemente in crescita; l’Italia ha registrato – e registra – un’evasione fiscale sistematicamente più alta della media dei Paesi OCSE; è un Paese importatore netto di materie prime e da almeno un ventennio ha visto crescere la sua domanda interna a tassi sistematicamente più bassi della media dei Paesi OCSE[1]. A ciò si aggiunge che l’economia italiana ha storicamente sperimentato una dinamica dei consumi più bassa nel confronto con i principali Paesi industrializzati. Il che può essere spiegato alla luce del fatto che i) essendo un Paese late comer nel processo di industrializzazione, ha registrato una dinamica della propensione al risparmio sistematicamente maggiore di quella della media OCSE; ii) l’Italia è il Paese che ha dato il maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro che, di norma, si associano a riduzioni della propensione al consumo[2]. Non da ultimo, l’Italia ha da molti anni un rapporto debito pubblico/Pil superiore alla media europea.

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Per ricostruire la spirale viziosa che ha caratterizzato l’economia italiana nell’ultimo ventennio, è opportuno individuare le cause che hanno generato il costante declino della domanda interna. Lo si può fare a partire dalla considerazione che, per evitare sistematici disavanzi della bilancia commerciale (e, al tempo stesso, per contenere la crescita del debito pubblico), a fronte della dipendenza dalle importazioni di materie prime (e macchinari), si è assecondata una specializzazione produttiva – il c.d Made in Italy – che non richiede rilevanti innovazioni tecnologiche (e che, dunque, non richiede rilevanti importazioni di materie prime e macchinari), e che deriva da produzioni generate per lo più da imprese di piccole dimensioni. I Governi che si sono succeduti almeno a partire dagli anni ottanta hanno dunque rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria. D’altra parte, poteva sembrare, in quegli anni, una scelta scontata, sia perché legittimata dalla tesi del “piccolo è bello”, sia perché funzionale a contenere la dinamica della spesa pubblica per provare a ridurre il debito pubblico e, contestualmente, a evitare disavanzi sistematici della bilancia commerciale. La costante riduzione della domanda interna è derivata (e deriva), dunque, non solo da riduzione dei consumi e degli investimenti privati, ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si può considerare che un’elevata evasione fiscale implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di norma, si tratta di redditi tassati “alla fonte”.  Quest’ultima considerazione contribuisce a spiegare per quale ragione l’Italia ha sperimentato (e sperimenta) le maggiori diseguaglianze distributive fra i Paesi OCSE.

Qual è stato l’esito di queste scelte? In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (e l’aumento della tassazione) non è risultata una strategia efficace per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, che ha continuato a crescere soprattutto – se non esclusivamente – a ragione degli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato[3]. In secondo luogo, il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, contribuendo a ridurre ulteriormente le dimensioni medie aziendali. Imprese di piccole dimensioni sono, di norma, imprese poco innovative (che, dunque, non esprimono domanda di lavoro qualificato), nelle quali le retribuzioni sono basse, e sono imprese fortemente dipendenti dal credito bancario.

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Lo scoppio della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti si è tradotto nella c.d. crisi dei debiti sovrani nell’eurozona e, soprattutto, nella caduta della domanda globale su scala internazionale. Si sono conseguentemente ridotte le esportazioni, con ulteriore conseguente contrazione della domanda, anche per effetto delle politiche di austerità. Alla quale hanno fatto seguito l’aumento del tasso di disoccupazione – soprattutto giovanile e riguardante individui con elevato livello di scolarizzazione[4] – compressione dei margini di profitto e/o fallimenti, riduzione degli investimenti e conseguente riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.

E’ evidente che, in questo scenario, ciò che occorre fare è invertire questa dinamica innanzitutto attraverso l’attuazione di politiche industriali[5]. Che possono essere declinate in forme assai diverse. Ciò che qui si propone è concepire le politiche del lavoro come funzionali al rafforzamento del tessuto industriale. Come mostrato da un’ampia evidenza empirica, l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di moderazione salariale, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese.Nel saggio La questione degli alti salari del 1930,Keynes scriveva a riguardo: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”. In altri termini, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione per la quale, non potendo ridurre le retribuzioni e/o licenziare senza costi e per l’obiettivo di non veder ridotti i propri margini di profitto, le imprese non possono che reagire a una più accentuata regolamentazione del mercato del lavoro cercando di accrescere la produttività. E, per farlo, devono introdurre innovazioni[6]. Al tempo stesso, i più alti salari contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo vizioso di alta domanda ed elevata produttività. Esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio.

Note

[1] Cfr. S.Perri Bassa domanda e declino italiano, “EconomiaePolitica”, 4 aprile 2013.

[2] Ciò a ragione del fatto che la somministrazione di contratti a tempo determinato, in quanto accresce l’incertezza in ordine al reddito futuro, incentiva forme di risparmio precauzionale. Cfr. G.Forges Davanzati and R.Realfonzo,  Labour market deregulation and unemployment in a monetary economy, in R.Arena and N.Salvadori (eds.), Money, credit and the role of the State. Essays in honour of Augusto Graziani, Ashgate, Burlington, 2004, pp.65-74.

[3] Tassi di interesse tenuti elevati per attirare capitali speculativi e provare, per questa via, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Cfr. A.Graziani, L’economia italiana dal ’45 a oggi. Bologna: Il Mulino, 1989.

[4] A ragione della scarsa propensione a innovare da parte delle nostre imprese, alla bassissima percentuale di spesa pubblica per ricerca e sviluppo in rapporto al Pil, e alla bassa scolarizzazione della gran parte degli imprenditori italiani. Sebbene quest’ultimo nesso sia spesso trascurato, vi è evidenza relativa al fatto che imprenditori con basso titolo di studio tendono ad assumere individui con basso titolo di studio. V. www.almalaurea.it.

[5] Nonostante la visione dominante accrediti ancora la tesi secondo la quale l’intervento pubblico è sempre e comunque fonte di inefficiente allocazione delle risorse, va registrato che, nel dibattito degli ultimi anni, è in aumento il numero di economisti che sostiene la necessità che lo Stato si faccia carico di stimolare investimenti e innovazione. Si vedano, fra gli altri, M.Mazzucato, Lo Stato innovatore, Bari:Laterza, 2014 e, con particolare riferimento all’Italia, G. Viesti e D. DiVico, Cacciavite, robot e tablet. Come far ripartire le imprese, Bologna: Il Mulino, 2014.

[6] Per un approfondimento, si rinvia a G.Forges Davanzati and R.Patalano, Economic theory and economic policy in Italy at the beginning of the 20th century: The case of Francesco Saverio Nitti, mimeo; G.Forges Davanzati and A.Pacella, Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, 2008, vol.XXII, n.1, pp.179-194.

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La bugia dei dipendenti pubblici troppo numerosi e poco produttivi

[MicroMega online del 19 gennaio 2015]

SINTESI. L’assenza, per malattia, di circa l’83% (per la stima del Comune) di vigili urbani a Roma la notte di Capodanno ha impresso una significativa accelerazione al ddl Madia sulla “riforma del pubblico impiego”. Il decreto in discussione si inserisce in una più generale strategia di ulteriore ‘dimagrimento’ del settore pubblico che è controproducente per l’obiettivo della fuoriuscita della recessione, e che viene diffusamente giustificata con due ordini di ragioni: il settore pubblico italiano è sovradimensionato e assume lavoratori scarsamente produttivi. Si tratta di due argomenti che non reggono alla prova dei fatti. E tuttavia, è ragionevole ritenere che questo Governo riesca ad accelerare ulteriormente il processo di privatizzazione del settore pubblico, soprattutto a ragione del fatto che il settore pubblico non è un rilevante bacino per l’acquisizione di consensi per il PD di Renzi.

L’assenza, per malattia, di circa l’83% (per la stima del Comune) di vigili urbani a Roma la notte di Capodanno ha impresso una significativa accelerazione al ddl Madia sulla “riforma del pubblico impiego”. Per quanto è dato sapere, il punto principale del provvedimento riguarderà la maggiore discrezionalità assegnata alla Pubblica Amministrazione di licenziare propri dipendenti poco produttivi, e di affidare all’INPS i controlli medici per la certificazione dell’effettiva malattia dei dipendenti in caso di assenza. Al netto di singoli casi di comportamenti eticamente censurabili e comunque punibili, stando alla normativa vigente, occorre considerare i possibili effetti macroeconomici che tali misure verosimilmente produrranno. E occorre anche preliminarmente considerare che il c.d. decreto Brunetta già contiene tutte le misure necessarie per consentire il licenziamento di dipendenti pubblici, in un quadro normativo nel quale il regime di sanzionamento dell’assenteismo è diverso fra settore privato e settore pubblico. Nel settore privato, la disciplina sulle assenze per malattia prevede che, per i primi tre giorni di assenza continuativa, l’indennità di malattia è a carico del datore di lavoro, con una percentuale di copertura definita dal contratto nazionale. A partire dal quarto giorno, l’Inps versa un’indennità non inferiore al 50 per cento della retribuzione, mentre la parte rimanente viene integrata dal datore di lavoro. 
Nel settore pubblico, per contro, è prevista la perdita di ogni componente accessoria del salario (circa il 20 per cento della retribuzione in media) per i primi dieci giorni di assenza continuativa per malattia. Si registra anche che le visite fiscali – effettuabili in un intervallo di sette ore al giorno – sono quasi il doppio di quelle effettuate nel settore privato (http://www.lavoce.info/archives/32235/quanto-ci-si-ammala-nel-pubblico-impiego/).

Non è un mistero che il decreto in discussione si inserisce in una più generale strategia di ‘dimagrimento’ del settore pubblico (http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-effetti-perversi-della-privatizzazione-del-welfare/), che viene diffusamente giustificato con due ordini di ragioni: il settore pubblico italiano è sovradimensionato e assume lavoratori scarsamente produttivi. Si tratta di due argomenti che non reggono alla prova dei fatti.

Per il primo aspetto, si consideri che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa pubblica corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche si è costantemente ridotta nei due successivi decenni. Dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al Pil per importi sistematicamente inferiori alla media dei Paesi OCSE. Per quanto specificamente attiene al numero di dipendenti pubblici, su fonte Eurispes e Ragioneria Generale dello Stato, si calcola che la spesa per il pubblico impiego in Italia ha un’incidenza sul Pil pari all’11,1% (contro il 19% della Danimarca, il 14,4% della Svezia, il 13,4% della Francia, l’11,5% della Gran Bretagna) e che, nella pubblica amministrazione italiana, sono occupate 58 unità di lavoro ogni mille abitanti, a fronte dei 54 della Germania e dei 135 della Svezia. L’Italia è l’unico Paese europeo nel quale, negli ultimi dieci anni, il numero dei dipendenti pubblici si è ridotto (nell’ordine del 4,7%). Nel resto d’Europa, l’occupazione nel settore pubblico è costantemente aumentata nel periodo considerato. Da ciò si può concludere che le dimensioni (per numero di addetti) del settore pubblico italiano sono del tutto in linea con la media europea[1].

Per quanto riguarda il secondo aspetto, si rileva, su fonte INPS, che, nel confronto internazionale, l’Italia è uno dei paesi caratterizzati dai più bassi livelli di assenza per malattia, ma con maggiore incidenza nel settore pubblico. Il modesto differenziale fra tassi di assenteismo nel settore privato e nel settore pubblico non sembra in grado di dar conto della (presunta) bassa efficienza di quest’ultimo, che è semmai imputabile non alla scarsa motivazione al lavoro dei suoi dipendenti, ma ai seguenti fattori: una bassa dotazione di capitale[2] e il fatto che, per il sostanziale blocco del turnover, i lavoratori occupati nel settore pubblico sono, in media, individui di età superiore ai quaranta anni, dunque maggiormente esposti a malattie e soprattutto, per molte mansioni, meno produttivi di quanto potrebbero essere lavoratori più giovani. E’ qui opportuno puntualizzare che è estremamente difficile quantificare l’efficienza della pubblica amministrazione nel suo complesso e compararla con quella degli altri Paesi europei: la Commissione europea colloca l’Italia al 23esimo posto su 28 Paesi, ma lo fa considerando l’”eccesso di burocrazia”, che evidentemente dipende dalla normativa vigente e non da fattori che attengono al rendimento dei lavoratori del settore pubblico. In più, la stessa Commissione europea certifica che l’efficienza della pubblica amministrazione italiana si è ridotta a seguito della riduzione della spesa pubblica corrente (in particolare, a partire dal 2011).

Partendo, per contro, dalla diagnosi secondo la quale la bassa efficienza del settore pubblico dipende dalla scarsa motivazione al lavoro, il Governo intende potenziare i dispositivi di valutazione del rendimento nella pubblica amministrazione[3]. Occorre chiarire, a riguardo, che tali misure incorrono in un problema di importanza non secondaria. Nessuno dei criteri immaginabili per quantificarne il merito, infatti, ha in assoluto maggiore legittimità degli altri e quindi la scelta non può che essere del tutto discrezionale (ovvero senza alcun sostegno ‘oggettivo’). Secondo la logica meritocratica, infatti, il criterio per determinare quanta parte spetta a ciascuno a cui spetta la sua parte dovrebbe essere individuato dal più meritevole. Il che produce un circolo vizioso in base al quale al meritevole viene assegnato il potere di decidere il criterio che serve a scegliere il più meritevole, il quale deciderà a sua volta il criterio che sarà utilizzato per scegliere il più meritevole, in una spirale che porta a definire, in ultima analisi, i criteri di valutazione del merito su basi esclusivamente arbitrarie gerarchiche[4].

L’ulteriore cura dimagrante imposta al settore pubblico italiano che questo Governo – peraltro del tutto in linea con le misure adottate almeno a partire dalla fine degli anni novanta – è, da un lato, controproducente e, dall’altro, in qualche modo inevitabile nel contesto della recessione in corso. Si tratta di una misura controproducente dal momento che, rinunciando a modernizzare la nostra pubblica amministrazione, si delega al privato la gestione di alcuni servizi tradizionalmente assegnati allo Stato. Con due effetti di segno negativo, peraltro già sperimentati. In primo luogo, la riduzione dei finanziamenti alla pubblica amministrazione riduce la quantità e la qualità di servizi di welfare (istruzione e sanità, in primo luogo), con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro[5]. In secondo luogo, è ampiamente dimostrato che le privatizzazioni si associano a un incremento dei prezzi dei beni e servizi offerti, dal momento che, a differenza dell’operatore pubblico, l’impresa privata aggiunge un margine di profitto ai costi di produzione. Le privatizzazioni riducono, quindi, i redditi in termini reali[6].

E’ questa, tuttavia, di una strategia che, nello scenario politico attuale, si rende pressoché inevitabile, essendo peraltro oggi di facile praticabilità politica. E’ inevitabile dal momento che, come normalmente accade nelle fasi recessive, molte imprese private possono sopravvivere solo a condizione di lavorare in mercati protetti, ovvero attingendo a una domanda che esiste solo in quanto non viene soddisfatta da produzioni pubbliche. Vi è dunque una domanda di privatizzazioni espressa dal sistema industriale italiano, che il Governo è nelle condizioni di assecondare. Il contesto politico attuale consente, infatti, di dare la massima accelerazione a questi processi. E’ difficile far passare in secondo piano la logica squisitamente politica che guida (e ha guidato) le decisioni in merito all’assegnazione di finanziamenti alla pubblica amministrazione: mentre la DC, negli anni settanta-ottanta, cercava di recuperare consensi da dipendenti pubblici con bassi salari ma alte tutele, il PD di Renzi ha sempre meno la sua base elettorale (peraltro numericamente sempre più ristretta) fra dipendenti pubblici e sempre più fra imprenditori e lavoratori autonomi (http://www.huffingtonpost.it/2014/11/02/elettori-pd-sindacato_n_6089046.html)[7]. Dunque, allo stato dei fatti, ridurre le dimensioni del settore pubblico non è una strategia controproducente ai fini dell’acquisizione di consenso, soprattutto se si riesce a legittimare questa scelta con l’obiettivo di punire nullafacenti.

Note

[1] L’unico Paese europeo con minore incidenza della spesa per il pubblico impiego rispetto all’Italia è la Germania (9%).

[2] A titolo puramente indicativo, si può considerare che molte amministrazioni pubbliche sono quasi del tutto sprovviste di sistemi informatici.

[3] Sul tema, gli indirizzi generali del Governo sono reperibili nella “Lettera ai dipendenti pubblici” (http://www.governo.it/GovernoInforma/Documenti/lettera_dipendenti_pubblici.pdf), dove si fa riferimento alla “valutazione dei risultati fatta seriamente” e alla “retribuzione di risultato erogata anche in funzione dell’andamento dell’economia” (e dove si propone la “riduzione del 50% del monte ore dei permessi sindacali nel pubblico impiego”).

[4] V. Michael Young, The Rise of Meritocracy, 1958. Per un’estensione di questa tesi alle politiche di valutazione delle Università (dove la decurtazione di fondi è stata, negli ultimi anni, di massima entità), si rinvia a D.Borrelli,  L’ANVUR e l’arte della rottamazione dell’Università. Contro l’ideologia della valutazione, in corso di pubblicazione.

[5] E ovviamente la riduzione del numero di dipendenti pubblici contribuisce a ridurre ulteriormente la domanda interna, contribuendo a contrarre ulteriormente i consumi e i mercati di sbocco delle nostre imprese, soprattutto di quelle (per lo più meridionali) che operano su mercati interni e poco esposte alla concorrenza internazionale.

[6] Si veda, fra gli altri, E.S. Levrero e A.Stirati (2005), Distribuzione del reddito e prezzi relativi in Italia: 1970-2002, “Politica Economica”, 3: 401-434.

[7] Come rileva Ilvio Diamanti (La CGIL abbandonata dagli elettori PD, “Repubblica”, 2.11.2014): “ll PdR ha intercettato il voto del lavoro ‘in-dipendente’. Degli imprenditori  –  grandi e, ancor più, piccoli. Quelli che, per riprendere il mantra di Renzi, non conoscono ‘posto fisso’”.

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Il declino economico italiano

[“Nuovo Quotidiano di Puiglia” dell’ 8 febbraio 2015]

Nel dibattito sulle cause del c.d. declino economico italiano, le due tesi più accreditate sono le seguenti. Da un lato, vi è chi sostiene che esso dipende dall’eccessivo debito pubblico e dall’esistenza di un settore pubblico ipertrofico e poco produttivo; dall’altro vi è chi ritiene che esso sia imputabile, in ultima analisi, all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e alla conseguente adozione dell’euro, che, impedendo la svalutazione, avrebbe ridotto la domanda interna a causa della contrazione delle esportazioni.  A ben vedere, tuttavia, il declino economico italiano è semmai da imputare a una dinamica di lungo periodo e che si è manifestato con la massima intensità in questi ultimi anni a seguito dell’esplosione della bolla dei mutui subprime negli USA innestatosi su una struttura produttiva la cui fragilità era palese già da almeno un ventennio.

Le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste. L’Italia ha una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale;è  un’economia dualistica,  nella quale le divergenze fra macro-aree sono state, se non per pochi anni, costantemente in crescita; l’Italia ha registrato – e registra – un’evasione fiscale sistematicamente più alta della media dei Paesi OCSE; è un Paese importatore netto di materie prime e da almeno un ventennio ha visto crescere la sua domanda interna a tassi sistematicamente più bassi della media dei Paesi OCSE. A ciò si aggiunge che l’economia italiana ha storicamente sperimentato una dinamica dei consumi più bassa nel confronto con i principali Paesi industrializzati. Il che può essere spiegato alla luce del fatto che essendo un Paese late comer nel processo di industrializzazione, ha registrato una dinamica della propensione al risparmio sistematicamente maggiore di quella della media OCSE; l’Italia è il Paese che ha dato il maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro che, di norma, si associano a riduzioni della propensione al consumo. Non da ultimo, l’Italia ha da molti anni un rapporto debito pubblico/Pil superiore alla media europea.

Per ricostruire la spirale viziosa che ha caratterizzato l’economia italiana nell’ultimo ventennio, è opportuno individuare le cause che hanno generato il costante declino della domanda interna. Lo si può fare a partire dalla considerazione che, per evitare sistematici disavanzi della bilancia commerciale (e, al tempo stesso, per contenere la crescita del debito pubblico), a fronte della dipendenza dalle importazioni di materie prime (e macchinari), si è assecondata una specializzazione produttiva – il c.d Made in Italy – che non richiede rilevanti innovazioni tecnologiche (e che, dunque, non richiede rilevanti importazioni di materie prime e macchinari), e che deriva da produzioni generate per lo più da imprese di piccole dimensioni. I Governi che si sono succeduti almeno a partire dagli anni ottanta hanno dunque rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria. D’altra parte, poteva sembrare, in quegli anni, una scelta scontata, sia perché legittimata dalla tesi del “piccolo è bello”, sia perché funzionale a contenere la dinamica della spesa pubblica per provare a ridurre il debito pubblico e, contestualmente, a evitare disavanzi sistematici della bilancia commerciale. La costante riduzione della domanda interna è derivata (e deriva), dunque, non solo da riduzione dei consumi e degli investimenti privati, ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si può considerare che un’elevata evasione fiscale implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di norma, si tratta di redditi tassati “alla fonte”.  Quest’ultima considerazione contribuisce a spiegare per quale ragione l’Italia ha sperimentato (e sperimenta) le maggiori diseguaglianze distributive fra i Paesi OCSE.

Qual è stato l’esito di queste scelte? In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (e l’aumento della tassazione) non è risultata una strategia efficace per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, che ha continuato a crescere soprattutto – se non esclusivamente – a ragione degli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato. In secondo luogo, il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, contribuendo a ridurre ulteriormente le dimensioni medie aziendali. Imprese di piccole dimensioni sono, di norma, imprese poco innovative (che, dunque, non esprimono domanda di lavoro qualificato), nelle quali le retribuzioni sono basse, e sono imprese fortemente dipendenti dal credito bancario.

Lo scoppio della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti si è tradotto nella c.d. crisi dei debiti sovrani nell’eurozona e, soprattutto, nella caduta della domanda globale su scala internazionale. Si sono conseguentemente ridotte le esportazioni, con ulteriore conseguente contrazione della domanda, anche per effetto delle politiche di austerità. Alla quale hanno fatto seguito l’aumento del tasso di disoccupazione – soprattutto giovanile e riguardante individui con elevato livello di scolarizzazione – compressione dei margini di profitto e/o fallimenti, riduzione degli investimenti e conseguente riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.

E’ evidente che, in questo scenario, ciò che occorre fare è invertire questa dinamica innanzitutto attraverso l’attuazione di politiche industriali, finalizzate ad accrescere le dimensioni medie d’impresa e a stimolare le innovazioni. Si può rilevare che le politiche industriali sono strettamente legate alle politiche del lavoro. Come mostrato da un’ampia evidenza empirica, l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di moderazione salariale, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese.Nel saggio La questione degli alti salari del 1930,Keynes scriveva a riguardo: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”. In altri termini, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione per la quale, non potendo ridurre le retribuzioni e/o licenziare senza costi e per l’obiettivo di non veder ridotti i propri margini di profitto, le imprese non possono che reagire a una più accentuata regolamentazione del mercato del lavoro cercando di accrescere la produttività. E, per farlo, devono introdurre innovazioni. Al tempo stesso, i più alti salari contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo vizioso di alta domanda ed elevata produttività. Esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio.

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La crisi greca, la recessione italiana e le contraddizioni dell’Unione Monetaria Europea


[“MicroMega” online dell’11 febbraio 2015]

SINTESI. La crisi greca è la più eclatante manifestazione del fatto che l’Unione Monetaria Europea non può che generare impoverimento crescente delle aree deboli, attraverso processi di deindustrializzazione che, pur accentuati dalle politiche di austerità, si attivano anche in loro assenza, per l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato. Ciò riguarda l’intera area periferica dell’Eurozona, nella quale si sta disegnando un modello di specializzazione produttiva sempre più basato su produzioni a bassa intensità tecnologica, con bassi salari, bassa domanda interna, bassa crescita ed elevata disoccupazione. In questo scenario, e contrariamente alla posizione assunta dal Governo italiano, dovrebbe essere interesse anche nostro sostenere il programma di revisione dell’architettura istituzionale europea che Syriza propone. Dovrebbe esserlo perché la spirale perversa nella quale è precipitata l’economia greca è molto simile, seppure con ordini di grandezza molto diversi, a quella che caratterizza il declino economico italiano.

“Il libero scambio porta inevitabilmente alla concentrazione spaziale della produzione industriale – un processo di polarizzazione che inibisce la crescita di queste attività in alcune aree e le concentra in altre” (N.Kaldor, The foundation of free trade theory, 1980).

I numerosissimi commenti sulla situazione greca si sono, nella gran parte dei casi, concentrati sul problema della ristrutturazione del debito e sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea. Non vi è dubbio che si tratta di problemi di massima rilevanza, così come non vi è dubbio che la soluzione della crisi greca ha natura innanzitutto politica. Non dovrebbe però passare in secondo piano un altro dato che attiene al fatto che ciò che è accaduto all’economia greca – per quanto attiene alla sua struttura produttiva – è molto simile a ciò che è accaduto (e sta accadendo) agli altri Paesi periferici del continente, Italia inclusa.

Le affinità fra i due Paesi non sono marginali, sebbene lo siano, ovviamente, con ordini di grandezza assai diversi. Fra queste, l’elevato debito pubblico, l’elevata evasione fiscale[1], l’elevata disoccupazione (prevalentemente giovanile) e soprattutto una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica accomunano le due economie[2], In particolare, l’Italia, a differenza della Grecia, non ha mai sperimentato tassi di crescita negativi nell’ordine dell’8% (come accaduto in Grecia nel 2011), né ha mai fatto registrare un rapporto debito pubblico/Pil del 175% (come nella Grecia del 2014), attestandosi questo rapporto, ad oggi, al 135%. Ma soprattutto, mentre la Grecia ha sempre avuto una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica (agricoltura e turismo, in primis), l’economia italiana è stata un’economia industriale, per poi sperimentare, almeno a partire dall’inizio degli anni novanta, un intenso processo di deindustrializzazione che la rende ora sempre più simile a quella greca.

Il programma economico di Syriza ha come punto essenziale la rinegoziazione del debito e il rifiuto di mettere in campo ulteriori misure di austerità. Dovrebbe essere ormai del tutto chiaro che le politiche di austerità, oltre a essere socialmente insostenibili (non solo per la Grecia), sono anche controproducenti per l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, come peraltro certificato dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Su questo aspetto, la posizione di Syriza è assolutamente convincente ed è auspicabile che, su questo punto, vi sia un “effetto contagio” in altri Paesi europei. Ma qui – oltre alle questioni di ordine finanziario – si pone un problema essenziale che attiene all’eventuale attuazione di politiche fiscali espansive in un’economia sostanzialmente priva di un settore industriale.

Si consideri, a riguardo, che, in Grecia, il settore agricolo ha un’incidenza per numero di addetti pari al 13%, con un contributo al Pil di circa il 3%, e che le tecniche utilizzate sono ampiamente obsolete; che il settore turistico incide sul Pil nell’ordine dell’11% e che il settore industriale è pressoché inesistente. Se non si incide radicalmente su questa configurazione della struttura produttiva, anche nel caso in cui si conceda alla Grecia un allentamento delle politiche di rigore, l’effetto di un aumento della spesa pubblica corrente rischierebbe di risolversi unicamente in un aumento delle esportazioni. Su fonte Banca di Grecia, si stima che il bilancio delle partite correnti è stato sistematicamente in disavanzo almeno a partire dal 2010, nonostante le accentuate politiche di “moderazione salariale” messe in atto, che avrebbero dovuto accrescere la competitività delle imprese di quel Paese.

Il punto in discussione va oltre la questione greca e attiene al fatto che un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente a produrre crescenti divergenze regionali. Ciò a ragione del fatto che – una volta determinatasi un’agglomerazione di imprese in una data area – per l’operare di economie di scala e di effetti di network, per l’esistenza di centri di ricerca e di facile accesso al credito bancario e ai mercati finanziari, quell’area attrae investimenti e forza-lavoro altamente qualificata, generando crescenti diseguaglianze regionali, che non possono che essere frenate se non da interventi esterni[3]. Letta in questa chiave, la crisi greca è la più eclatante manifestazione del fatto che, per come è costruita (ovvero in assenza di meccanismi di correzione degli squilibri regionali)[4], l’Unione Monetaria Europea non può che generare impoverimento crescente delle aree deboli, attraverso processi di deindustrializzazione che, pur accentuati dalle politiche di austerità, si attivano anche in loro assenza. In più, letta in questa chiave, la crisi greca (e la lunga recessione italiana) non è affatto una crisi derivante da eccessivo indebitamento pubblico, essendo quest’ultimo piuttosto l’effetto della riduzione del tasso di crescita, a sua volta imputabile ai processi di concentrazione del capitale nelle aree centrali del continente e, dunque, alla deindustrializzazione delle aree periferiche. Alle quali viene assegnato un modello di sviluppo basato su produzioni a bassa intensità tecnologica e su piccole dimensioni aziendali, che asseconda le c.d. vocazioni naturali dei territori (agricoltura e turismo, in primis), e nel quale, pressoché inevitabilmente, la competizione su scala internazionale si basa sulla gara al ribasso dei salari piuttosto che su aumenti di produttività e intensificazione dei processi di innovazione, dunque su cali della domanda interna e del tasso di crescita.

In più, una specializzazione produttiva basata su produzioni di beni di base (tipicamente prodotti agricoli) tende ad associarsi a bassi redditi in termini reali nel Paese che li esporta, dal momento che i prodotti esportati hanno costi di produzione (e dunque prezzi) di norma inferiori a quelli importati: i primi sono infatti prodotti occupando lavoratori poco specializzati, con bassi salari e in mercati prossimi a una configurazione concorrenziale, a fronte del fatto che i beni importati sono prodotti da lavoratori con maggiore specializzazione, più alti salari e in mercati oligopolistici[5].

Il problema è ulteriormente accentuato dal fatto che, per tenere insieme Paesi che viaggiano con diversa velocità, ma volendo rinunciare a una politica fiscale comune (e volendo rinunciare all’attuazione di politiche industriali), i Paesi ricchi tendono a diventare creditori dei Paesi periferici – anche mediante l’acquisto di titoli del debito pubblico[6] – e i Paesi periferici, dato il loro sistematico più basso tasso di crescita (accentuato dalle misure di austerità), diventano progressivamente sempre più insolventi[7].

In questo scenario, dovrebbe essere interesse anche nostro sostenere il programma di revisione dell’architettura istituzionale europea che Syriza propone, a partire dall’attuazione di politiche industriali che rafforzino la nostra base produttiva. Dovrebbe esserlo perché la spirale perversa nella quale è precipitata l’economia greca è molto simile, seppure con ordini di grandezza molto diversi, a quella che caratterizza il declino economico italiano.

Note

[1] Occorre a riguardo chiarire che la maggiore diffusione dell’evasione fiscale e dell’economia sommersa nelle aree periferiche riflette precisamente il fatto che si tratta di economie con bassi tassi di crescita: in altri termini, e contrariamente all’opinione dominante, il deterioramento del ‘capitale sociale’ (ovvero della propensione al rispetto delle norme) è semmai l’effetto, non la causa, del crescente impoverimento di quelle aree.

[2] Su fonte ISTAT, si stima che, in Italia, nel 2014 la produzione industriale si è ridotta 0,8% rispetto all’anno precedente, e che l’incidenza della produzione industriale sul Pil è in riduzione da almeno un triennio (-3.2% nel 2013; -6.4% nel 2012).

[3] Si tratta dei processi di causazione circolare cumulativa, teorizzati, in particolare, da Gunnar Myrdal e Nicholas Kaldor. Sul tema si rinvia a G. Myrdal  (1957). Economic Theory and Underdeveloped Regions. London: General Duckworth & Co.; N. Kaldor (1981). The role of increasing returns, technical progress and cumulative causation in the theory of international trade and economic growth, “Economie Appliqueé”, n.4.

[4] Meccanismi teoricamente affidati alla Banca Europea per gli investimenti (BEI), che, per proprio Statuto (art.198E), ha come obiettivo anche quello di finanziare “progetti contemplanti la valorizzazione delle regioni meno sviluppate” .

[5] Sul tema la letteratura è molto ampia. E’ qui sufficiente rinviare a P.Sylos Labini (1975 [1958]). Oligopolio e progresso tecnico. Torino: Einaudi.

[6] Si consideri, a riguardo, che il debito pubblico greco ammonta a ben 322 miliardi di euro e che, stando a quanto comunicato dal Ministero delle Finanze ellenico alla fine del terzo trimestre 2014, i titoli di Stato sono solo per il 17% in possesso di soggetti privati. Il 62% è detenuto dai governi dell’Eurozona, il 10% dal Fondo Monetario Internazionale e l’8% alla BCE, mentre il restante 3% è custodito nella Banca centrale greca. I governi dell’Eurozona, tra prestiti bilaterali concessi in occasione del primo salvataggio nel 2010 e fondi elargiti attraverso il “Fondo Salva Stati” sono esposti complessivamente per 195 miliardi di euro. Il primo creditore della Grecia è la Germania con 60 miliardi, cui segue la Francia con 46. L’esposizione dell’Italia ammonta a circa 40 miliardi, cui seguono la Spagna con circa 26 miliardi e l’Olanda con circa 12 miliardi.

[7] In tal senso, è pienamente convincente la diagnosi del Ministro Varoufakis, che attribuisce l’intensificarsi della crisi greca agli aiuti chiesti e ottenuti dalla c.d. Troika (aiuti che, peraltro, hanno generato l’aspettativa di ulteriori aiuti) dal momento che, da un lato, questi sono stati condizionati all’intensificazione delle misure di austerità e, dall’altro, costituiscono oggi un onere del debito assolutamente insostenibile. Ed è pienamente convincente la sua proposta di attuare un piano di investimenti pubblici finalizzato a far crescere la domanda interna e ad accrescere la produttività dei fattori, per il tramite dell’aumento della dotazione di capitale e di maggiori risorse destinate alla ricerca scientifica.

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La situazione economica della Grecia

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 febbraio 2015]

L’Italia non è la Grecia, ma le affinità fra i due Paesi, per quanto attiene alla struttura economica, non sono marginali. Fra queste, l’elevato debito pubblico, l’elevata evasione fiscale, l’elevata disoccupazione (prevalentemente giovanile) e soprattutto una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica accomunano le due economie, sebbene, ovviamente, con ordini di grandezza assai diversi. In particolare, l’Italia, a differenza della Grecia, non ha mai sperimentato tassi di crescita negativi nell’ordine dell’8% (come accaduto in Grecia nel 2011), né ha mai fatto registrare un rapporto debito pubblico/Pil del 175% (come nella Grecia del 2014), attestandosi questo rapporto, ad oggi, al 135%. Ma soprattutto, mentre la Grecia ha sempre avuto una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica (agricoltura e turismo, in primis), l’economia italiana è stata un’economia industriale, per poi sperimentare, almeno a partire dall’inizio degli anni novanta, un intenso processo di deindustrializzazione che la rende ora sempre più simile a quella greca.

Il programma economico di Syriza ha come punto essenziale la rinegoziazione del debito e il rifiuto di mettere in campo ulteriori misure di austerità. Dovrebbe essere ormai del tutto chiaro che le politiche di austerità, oltre a essere socialmente insostenibili (non solo per la Grecia), sono anche controproducenti per l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, come peraltro certificato dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Su questo aspetto, la posizione di Syriza è assolutamente convincente ed è auspicabile che, su questo punto, vi sia un “effetto contagio” in altri Paesi europei. Ma qui si pongono almeno due ordini di problemi.

1) Un primo problema consiste nella rinegoziazione del debito. Si consideri preliminarmente che il debito greco è già stato rescheduled, ovvero, si è già consentita la posticipazione del pagamento degli interessi. Nelle condizioni istituzionali date, qualunque richiesta greca di ulteriori operazioni di posticipazione del pagamento del debito, ammesso che sia accolta, sarebbe subordinata alla condizione di attuare “riforme strutturali” e accrescere l’avanzo primario, dunque implementare ulteriori misure di austerità: esattamente ciò che Syriza non vuole fare. Si muove nella direzione giusta, in tal senso, il Ministro Varoufakis, che attribuisce l’intensificarsi della crisi greca agli aiuti chiesti e ottenuti dati dalla c.d. Troika (aiuti che, peraltro, hanno generato l’aspettativa di ulteriori aiuti) dal momento che, da un lato, questi sono stati condizionati all’intensificazione delle misure di austerità e, dall’altro, costituiscono oggi un onere del debito assolutamente insostenibile. E’ per questo che il governo Tsipras non vuole nuovi aiuti, e propone di indicizzare i titoli di Stato al tasso di crescita.

2) Un secondo problema attiene alla struttura produttiva greca e, dunque, alle prospettive di crescita di quella economia. Si consideri che, in Grecia, il settore agricolo ha un’incidenza per numero di addetti pari al 13%, con un contributo al Pil di circa il 3%, e che le tecniche utilizzate sono ampiamente obsolete; il settore turistico incide sul Pil nell’ordine dell’11% ed è gestito con assoluto disinteresse per i danni ambientali. Il settore industriale, fatti salvi alcuni poli chimici, è pressoché inesistente. Se non si incide radicalmente su questa configurazione della struttura produttiva, anche nel caso in cui si conceda alla Grecia un allentamento delle politiche di rigore, l’effetto di un aumento della spesa pubblica corrente rischierebbe di risolversi unicamente in un aumento delle esportazioni. Su fonte Banca di Grecia, si stima che il bilancio delle partite correnti è stato sistematicamente in disavanzo almeno a partire dal 2010, nonostante le accentuate politiche di “moderazione salariale” messe in atto, che avrebbero dovuto accrescere la competitività delle imprese di quel Paese.

Non vi è dubbio che si muovono nella direzione giusta (per tamponare l’emergenza sociale) i primi provvedimenti del nuovo governo greco: l’aumento del salario minimo da 439 a 751 euro lordi, lo stop alle privatizzazioni, in primo luogo del porto del Pireo, il ripristino della contrattazione collettiva e reintegro dei dipendenti pubblici il cui licenziamento è stato giudicato incostituzionale, l’accesso al pronto soccorso anche per chi non ha un’assicurazione sanitaria, l’elettricità gratuita per i 300.000 poveri a cui era stata tagliata. Ma non vi è dubbio che occorre fare di più, e il Governo greco ne è ben consapevole.

La Grecia (come l’Italia) ha bisogno di un piano di investimenti pubblici finalizzato alla crescita della domanda interna ma anche alla crescita della produttività del lavoro, per il tramite del miglioramento dello stock di capitale e di maggiori risorse destinate alla ricerca scientifica. Per quanto è dato sapere, è questa la strategia che il Ministro delle Finanze greco intende perseguire. Il problema consiste nel reperire le risorse necessarie per finanziare gli investimenti. E’ evidente che, data la sua struttura produttiva e la povertà diffusa, la Grecia non può sperare di finanziare un ingente piano di investimenti attingendo a maggiori entrate fiscali derivanti da incrementi di tassazione su famiglie e imprese. Potrebbe tuttavia adottare più incisive misure di contrasto all’evasione fiscale, ma, data l’entità del rimborso del debito e sebbene siano provvedimenti necessari, possono rivelarsi insufficienti. Occorrono dunque finanziamenti esterni e, su questo, si profilano due scenari, che attengono ai rapporti di forza fra il Governo greco e la Commissione Europea.

a) Un primo scenario fa riferimento a un possibile un impegno diretto della  Banca Europea per gli investimenti (BEI). Si tratterebbe di un impegno che rientra nelle sue finalità istituzionali, considerando che l’art.198E del suo Statuto rende possibile “il finanziamento dei […] progetti contemplanti la valorizzazione delle regioni meno sviluppate” .

b) Un secondo scenario riguarda la dichiarazione di default. Per quanto è possibile far previsioni in questo caso, un eventuale default comporterebbe, da un lato, per la Grecia serissime difficoltà nel reperire risorse sui mercati finanziari, a seguito dell’aspettativa che il debito venduto possa non essere rimborsato, dall’altro, ingenti perdite per i suoi creditori.

Si consideri che il debito pubblico greco ammonta a ben 322 miliardi di euro e che, stando a quanto comunicato dal Ministero delle Finanze ellenico alla fine del terzo trimestre 2014, i titoli di Stato sono solo per il 17% in possesso di soggetti privati. Il 62% è detenuto dai governi dell’Eurozona, il 10% dal Fondo Monetario Internazionale e l’8% alla BCE, mentre il restante 3% è custodito nella Banca centrale greca. I governi dell’Eurozona, tra prestiti bilaterali concessi in occasione del primo salvataggio nel 2010 e fondi elargiti attraverso il “Fondo Salva Stati”, sono esposti complessivamente per 195 miliardi di euro. Il primo creditore della Grecia è la Germania con 60 miliardi, cui segue la Francia con 46. L’esposizione dell’Italia ammonta a circa 40 miliardi, cui seguono la Spagna con circa 26 miliardi e l’Olanda con circa 12 miliardi. Dunque, un eventuale default greco implicherebbe perdite ingenti per queste istituzioni e soprattutto per la Germania, principale creditore della Grecia e, contestualmente, anche perdite per la Grecia. Stando così le cose, dovrebbe convenire a tutti evitare che la Grecia dichiari fallimento e abbandoni l’euro.

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L’austerità “fessibile” che non genera crescita e accentua le disuguaglianze

[in “MicroMega” online del 10 marzo 2015]

SINTESI. Le politiche economiche europee vengono ora definite di austerità “flessibile”, dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil. Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso. Tuttavia, essa di fonda sulla discutibile convinzione che la riduzione delle imposte sugli utili d’impresa produca maggiori investimenti che attivano maggiore occupazione e maggiore crescita. Contestualmente, per l’obiettivo di rispettare il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil, fatta salva la temporanea deroga, si propone di ridurre la spesa pubblica. Gli effetti redistributivi a danno del lavoro appaiono evidenti, dal momento che la detassazione degli utili d’impresa verrebbe pagata con minori servizi pubblici a danno delle famiglie con redditi più bassi.

Con uno slittamento semantico che ben poco toglie alla sostanza della questione, le politiche economiche suggerite dalla commissione europea vengono ora definite di austerità “flessibile”[1], dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. Ciò a indicare che la stagione delle misure radicali di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale sarebbe ormai terminata. In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta formulata da due dei più accreditati economisti italiani – Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil (http://www.voxeu.org/article/how-jumpstart-eurozone-economy)[2]. E’ una proposta che merita di essere discussa proprio perché essa è alla base di quello che viene propagandato come un nuovo corso della politica economica italiana.

Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso, definita keynesiana e, in quanto tale, “di sinistra”. In realtà, essa non è affatto keynesiana, non è affatto “di sinistra” (se la si legge considerando gli effetti redistributivi che la sua attuazione produrrebbe), e non è neppure di buon senso. Per queste ragioni.

1) Alesina e Giavazzi propongono di sforare temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil per accrescere la domanda interna, assumendo neppur tanto implicitamente che quel vincolo abbia una sua ratio e che, nel lungo periodo, debba essere rispettato. Si tratta di una posizione alquanto discutibile, almeno sotto due aspetti. In primo luogo, come diffusamente evidenziato, quel vincolo non risponde a nessun criterio scientifico e, conseguentemente, non vi è nessuna motivazione cogente, se non esclusivamente politica, che dovrebbe indurre un Paese a rispettarlo[3]. Occorre peraltro sottolineare che l’elevato debito pubblico italiano (se comparato con la media dei Paesi dell’Unione Monetaria Europea) non è affatto imputabile all’eccessiva spesa pubblica, ma semmai agli elevati tassi di interesse che lo Stato italiano paga ai sottoscrittori di titoli[4]. In secondo luogo, la proposta di Alesina e Giavazzi si basa su una concezione banalmente keynesiana della politica fiscale, secondo la quale l’aumento del deficit pubblico agisce (o deve agire) esclusivamente in funzione anticiclica. Per contro, si può argomentare che l’insufficienza di domanda aggregata è un problema di breve come di lungo periodo, dal momento che, in un’ottica teorica diversa da quella di Alesina e Giavazzi e autenticamente keynesiana, un’economia di mercato deregolamentata produce spontaneamente sottoutilizzazione delle risorse e disoccupazione, e, dunque, necessita di un intervento pubblico strutturale[5].

2) Alesina e Giavazzi propongono di utilizzare le risorse liberate dall’aumento del rapporto deficit/Pil per ridurre l’imposizione fiscale. Qui la loro proposta assume più decisamente connotati “di destra”. Dimenticando il fatto che, per accrescere l’occupazione, è più efficace aumentare la spesa che ridurre le tasse, Alesina e Giavazzi ritengono che la riduzione della pressione fiscale possa generare crescita per i consueti canali che si immagina si attivino dal lato dell’offerta: la riduzione delle imposte sugli utili d’impresa produce maggiori investimenti che attivano maggiore occupazione e maggiore crescita. Contestualmente, viene argomentato, per l’obiettivo di rispettare il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil, fatta salva la temporanea deroga, occorre ridurre la spesa pubblica. Gli effetti redistributivi a danno del lavoro appaiono evidenti, dal momento che la detassazione degli utili d’impresa verrebbe pagata con minori servizi pubblici a danno delle famiglie con redditi più bassi. Vi sono poi almeno due rilievi che contraddicono la tesi secondo la quale la detassazione degli utili d’impresa accresce gli investimenti. In primo luogo, come attestato dall’Agenzia delle Entrate, in media, gli imprenditori italiani hanno un’elevata propensione all’evasione fiscale (da qui discende il curiosum che sono in molti a dichiarare al fisco redditi inferiori ai loro dipendenti):  la detassazione degli utili, in questo contesto, può, nella migliore delle ipotesi, accrescere il gettito fiscale, ma appare molto problematico ritenere che possa stimolare gli investimenti. D’altra parte, l’esperienza storica recente mostra che, a fronte di reiterate misure di detassazione, gli investimenti non sono aumentati e, nel caso italiano, sono stati sempre inferiori alla media dell’Eurozona. In secondo luogo, occorre tener conto – come rilevato dall’ISTAT – che gli imprenditori italiani esprimono un’elevata propensione al consumo, particolarmente di  beni di lusso. Anche per questa ragione, la detassazione può avere effetti pressoché nulli sulla ripresa degli investimenti[6].

Si può, per contro, argomentare che l’eventuale sforamento del vincolo del 3% avrebbe effetti più significativi se le risorse fossero destinate ad aumentare la spesa pubblica incidendo sulla distribuzione del reddito e sulla struttura produttiva. Ciò per queste ragioni. In primo luogo, incrementi di spesa pubblica a beneficio delle famiglie con redditi più bassi, che esprimono maggiore propensione al consumo, accrescono la domanda interna e l’occupazione, in una condizione per la quale è l’equità distributiva una precondizione per la crescita economica. In secondo luogo, l’aumento della spesa pubblica, ampliando i mercati di sbocco per le imprese che operano sui mercati interni (ovvero per la gran parte delle imprese italiane e ancor più delle imprese meridionali), incentiva l’aumento delle dimensioni medie d’impresa. E poiché imprese di più grandi dimensioni operano con tecniche produttive che generano rendimenti crescenti, l’aumento delle dimensioni d’impresa ha, di norma, effetti di segno positivo sulla dinamica della produttività del lavoro. Inoltre, dal momento che le imprese di grandi dimensioni dispongono di fondi interni maggiori di quelli di cui dispongono imprese di più piccole dimensioni, le prime possono accordare incrementi salariali più di quanto possano fare le seconde. In più, potendo (almeno parzialmente) autofinanziare i propri investimenti, sono meno dipendenti dal sistema bancario[7];  il che, in un contesto di restrizione del credito, comporta una dinamica degli investimenti maggiore di quella che si avrebbe in un’economia popolata da imprese di piccole dimensioni. In questa dinamica di causazione cumulativa, l’avanzamento tecnico risulta quindi dipendente dalla dinamica della domanda aggregata.

Con riferimento alla proposta di temporaneo sforamento del vincolo del 3% per detassare gli utili di impresa, si pongono due ulteriori considerazioni. Innanzitutto, occorre riconoscere che l’attuazione di politiche fiscali espansive, in quanto tale, non genera necessariamente effetti redistributivi (non li genera, per esempio, nel caso in cui la detassazione vada a esclusivo beneficio delle imprese): e se è la maggiore equità distributiva un presupposto per la crescita, vi è anche da dubitare che la sola detassazione dei redditi più alti – in regime di austerità “flessibile” – possa incidere positivamente sul tasso di crescita. In secondo luogo, occorre ricordare che in assenza di politiche industriali che rafforzino la struttura produttiva l’aumento della spesa pubblica e/o la riduzione della pressione fiscale rischia di risolversi quasi unicamente in un aumento delle esportazioni. Ed è questo, oggi, il principale problema italiano. Da almeno un ventennio (dunque prima dell’adozione dell’euro e delle politiche di austerità), l’economia italiana è dentro un circolo vizioso di bassa crescita della domanda e bassa crescita della produttività, che culmina in una profonda “crisi di struttura”. (http://temi.repubblica.it/micromega-online/litalia-e-la-crisi-ce-luce-in-fondo-al-tunnel/).  Su fonte OCSE, si stima, a riguardo, che il tasso di crescita della produttività del lavoro, in Italia, ha assunto valori poco superiori all’0.5% nel periodo 1990-2010, a fronte di un tasso di crescita della produttività della media OCSE del 2% e dell’1.5% dell’UE15 nel periodo considerato. Il divario si accentua nel periodo 2001-2010, quando il tasso di crescita medio della produttività del lavoro in Italia si aggira intorno allo 0% a fronte di una media OCSE dell’1.5% e di una media UE15 dell’1%.

Va da sé che, in un contesto di caduta della domanda aggregata, disporre di maggiori margini di manovra per politiche fiscali espansive è assolutamente necessario. Il problema è come le si vuole declinare, ovvero se si intende dare priorità a misure fiscali che riducano le diseguaglianze distributive (e incidano sulla struttura industriale) o meno. In tal senso, la proposta di Alesina e Giavazzi, oltre a essere di dubbia efficacia, è semmai annoverabile fra le più tipiche e ricorrenti proposte della destra.

Note

[1] Si veda http://ec.europa.eu/economy_finance/economic_governance/sgp/pdf/2015-01-13_communication_sgp_flexibility_guidelines_en.pdf

[2] Si veda anche http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_17/terapia-coraggiosa-b52dfb04-25d5-11e4-9b50-a2d822bcfb19.shtml.

[3] Per la dimostrazione dell’inesistenza di un criterio scientifico che sia in grado di determinare un unico parametro di sostenibilità del deficit e del debito pubblico, si rinvia  in particolare a L.L.Pasinetti, The mith (or folly) of the 3%  deficit/GDP Maastricht ‘parameter’, “The Cambridge Journal of Economics”, 22 (1), 1998, pp.113-116.

[4] Sul tema si rinvia, fra gli altri, per il caso italiano, a G.Forges Davanzati, La spesa pubblica, il debito e l’aristrocrazia finanziaria, Micromega on-line, 30.10.2014.

[5] Sul punto, con riferimento a una critica alla proposta di Alesina e Giavazzi, si rinvia a http://keynesblog.com/2014/08/22/john-maynard-giavazzi-o-quasi/. Si veda anche G. Pastrello. La va rovesciata, Il Manifesto, 2.1.2015.

[6] In particolare, l’ISTAT rileva che una famiglia il cui reddito deriva da attività imprenditoriale spende, in media, circa 3600 euro al mese, più del doppio di una famiglia il cui reddito deriva da lavoratore dipendente.

[7] Per un inquadramento teorico di questi effetti, si rinvia a N.Kaldor, A model of economic growth, “The Economic Journal”, vol.67, n.268, December 1957, pp.591-624. Sul piano empirico, si rinvia al rapporto OCSE,  Entrepreneurship at glance, OECD Library, 2013.

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Alle radici del declino economico italiano

[in “MicroMega” online dell’1 aprile 2015]

SINTESI:  Le tesi più accreditate nel dibattito sulle cause della recessione italiana sono fondamentalmente due. Da un lato, vi è chi sostiene che essa dipende dall’eccessivo debito pubblico e dall’esistenza di un settore pubblico ipertrofico e poco produttivo; dall’altro vi è chi ritiene che essa sia imputabile, in ultima analisi, all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e alla conseguente adozione dell’euro. Entrambe le interpretazioni non tengono conto del fatto che la crisi attuale è il prodotto di un lungo sentiero di declino economico, che origina almeno a partire dagli anni novanta, e la cui principale causa risiede nella rinuncia all’attuazione di politiche industriali e alla connessa fiducia nella presunta spontanea vitalità della nostra imprenditoria. La spirale perversa nella quale, da oltre un ventennio, è precipitata la nostra economia è così riconducibile alla contrazione della domanda interna (anche per effetto della reiterazione di politiche fiscali restrittive) alla quale ha fatto seguito la continua riduzione del tasso di crescita della produttività.

Nel dibattito sulle cause del c.d. declino economico italiano, le due tesi più accreditate sono le seguenti. Da un lato, vi è chi sostiene che esso dipende dall’eccessivo debito pubblico e dall’esistenza di un settore pubblico ipertrofico e poco produttivo; dall’altro vi è chi ritiene che esso sia imputabile, in ultima analisi, all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e alla conseguente adozione dell’euro, che, impedendo la svalutazione, avrebbe ridotto la domanda interna a causa della contrazione delle esportazioni. Ciò che accomuna queste posizioni è il ritenere che la recessione italiana trovi le sue cause in vicende che si sono determinate in un passato relativamente breve e il ritenere che il declino italiano abbia una radice monocasuale.

In quanto segue, si proverà a mostrare, per contro, che il declino economico italiano è semmai da imputare a una dinamica di lungo periodo e che si è manifestato con la massima intensità in questi ultimi anni a seguito di un shock esogeno (l’esplosione della bolla dei mutui subprime negli USA come esito dell’accelerazione dei processi di finanziarizzazione) innestatosi su una struttura produttiva la cui fragilità era palese già da almeno un ventennio.

Si parta dal presupposto che le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste. L’Italia ha una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale e gestite da imprenditori con basso titolo di studio;è  un’economia dualistica,  nella quale le divergenze fra macro-aree sono state, se non per pochi anni, costantemente in crescita; l’Italia ha registrato – e registra – un’evasione fiscale sistematicamente più alta della media dei Paesi OCSE; è un Paese importatore netto di materie prime e da almeno un ventennio ha visto crescere la sua domanda interna a tassi sistematicamente più bassi della media dei Paesi OCSE[1]. A ciò si aggiunge che l’economia italiana ha storicamente sperimentato una dinamica dei consumi più bassa nel confronto con i principali Paesi industrializzati. Il che può essere spiegato alla luce del fatto che i) essendo un Paese late comer nel processo di industrializzazione, ha registrato una dinamica della propensione al risparmio sistematicamente maggiore di quella della media OCSE; ii) l’Italia è il Paese che ha dato il maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro che, di norma, si associano a riduzioni della propensione al consumo[2]. Non da ultimo, l’Italia ha da molti anni un rapporto debito pubblico/Pil superiore alla media europea.

Per ricostruire la spirale viziosa che ha caratterizzato l’economia italiana nell’ultimo ventennio, è opportuno individuare le cause che hanno generato il costante declino della domanda interna. Lo si può fare a partire dalla considerazione che, per evitare sistematici disavanzi della bilancia commerciale (e, al tempo stesso, per contenere la crescita del debito pubblico), a fronte della dipendenza dalle importazioni di materie prime (e macchinari), si è assecondata una specializzazione produttiva – il c.d Made in Italy – che non richiede rilevanti innovazioni tecnologiche (e che, dunque, non richiede rilevanti importazioni di materie prime e macchinari), e che deriva da produzioni generate per lo più da imprese di piccole dimensioni. I Governi che si sono succeduti almeno a partire dagli anni ottanta hanno dunque rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria. D’altra parte, poteva sembrare, in quegli anni, una scelta scontata, sia perché legittimata dalla tesi del “piccolo è bello”, sia perché funzionale a contenere la dinamica della spesa pubblica per provare a ridurre il debito pubblico e, contestualmente, a evitare disavanzi sistematici della bilancia commerciale. La costante riduzione della domanda interna è derivata (e deriva), dunque, non solo da riduzione dei consumi e degli investimenti privati, ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si può considerare che un’elevata evasione fiscale implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di norma, si tratta di redditi tassati “alla fonte”.  Quest’ultima considerazione contribuisce a spiegare per quale ragione l’Italia ha sperimentato (e sperimenta) le maggiori diseguaglianze distributive fra i Paesi OCSE[3].

Qual è stato l’esito di queste scelte? In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (e l’aumento della tassazione) non è risultata una strategia efficace per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, che ha continuato a crescere soprattutto – se non esclusivamente – a ragione degli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato[4]. In secondo luogo, il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, contribuendo a ridurre ulteriormente le dimensioni medie aziendali. Imprese di piccole dimensioni sono, di norma, imprese poco innovative (che, dunque, non esprimono domanda di lavoro qualificato), nelle quali le retribuzioni sono basse, e sono imprese fortemente dipendenti dal credito bancario.

Lo scoppio della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti si è tradotto nella c.d. crisi dei debiti sovrani nell’eurozona[5] e, soprattutto, nella caduta della domanda globale su scala internazionale. Si sono conseguentemente ridotte le esportazioni, con ulteriore conseguente contrazione della domanda, anche per effetto delle politiche di austerità. Alla quale hanno fatto seguito l’aumento del tasso di disoccupazione – soprattutto giovanile e riguardante individui con elevato livello di scolarizzazione[6] – compressione dei margini di profitto e/o fallimenti, riduzione degli investimenti e conseguente riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.

E’ evidente che, in questo scenario, ciò che occorre fare è invertire questa dinamica innanzitutto attraverso l’attuazione di politiche industriali[7]. Che possono essere declinate in forme assai diverse.  Le (poche) misure messe in atto negli ultimi anni per rafforzare la struttura produttiva italiana si sono basate sulla convinzione che sia sufficiente detassare gli utili d’impresa (e rendere più ‘flessibile’ il mercato del lavoro) per incentivare gli investimenti. E’ però del tutto evidente che la detassazione (come la maggiore flessibilità del lavoro) può essere semmai una condizione permissiva per generare incrementi di investimenti, ma non è una condizione sufficiente, dal momento che se le aspettative sono pessimistiche gli investimenti non vengono effettuati e il solo effetto che può verificarsi è un aumento dei profitti netti.

Esistono, per contro, buone ragioni per ritenere che si possa agire sul rafforzamento del tessuto industriale attraverso politiche del lavoro che rendano più rigido il mercato del lavoro. Come mostrato da un’ampia evidenza empirica, l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di moderazione salariale, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese.Nel saggio La questione degli alti salari del 1930,Keynes scriveva a riguardo: “Se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”. In altri termini, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione per la quale, non potendo ridurre le retribuzioni e/o licenziare senza costi e per l’obiettivo di non veder ridotti i propri margini di profitto, le imprese non possono che reagire a una più accentuata regolamentazione del mercato del lavoro cercando di accrescere la produttività. E, per farlo, devono introdurre innovazioni[8]. Al tempo stesso, i più alti salari contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo vizioso di alta domanda ed elevata produttività. Esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio.

Note

[1] Cfr. S.Perri Bassa domanda e declino italiano, “EconomiaePolitica”, 4 aprile 2013.

[2] Ciò a ragione del fatto che la somministrazione di contratti a tempo determinato, in quanto accresce l’incertezza in ordine al reddito futuro, incentiva forme di risparmio precauzionale. Cfr. G.Forges Davanzati and R.Realfonzo,  Labour market deregulation and unemployment in a monetary economy, in R.Arena and N.Salvadori (eds.), Money, credit and the role of the State. Essays in honour of Augusto Graziani, Ashgate, Burlington, 2004, pp.65-74.

[3] Si consideri anche che un elevato debito pubblico si associa, di norma, a un’elevata tassazione sui salari. Ciò accade, in particolare, in contesti nei quali risulta non conveniente, per un Governo, tassare banche e/o imprese, ovvero in contesti nei quali le prime potrebbero reagire a un aumento della tassazione sui loro utili vendendo (o non acquistando) titoli di Stato e le seconde potrebbero reagire de localizzando. In più, la tassazione sugli utili di impresa può tradursi nella traslazione delle imposte sui consumi, generando, anche per questa via, riduzione dei salari reali. Sul tema, si rinvia a G.Forges Davanzati, La spesa pubblica, il debito e l’aristocrazia finanziaria, Micromega 30.10.2014.

[4] Tassi di interesse tenuti elevati per attirare capitali speculativi e provare, per questa via, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Cfr. A.Graziani, L’economia italiana dal ’45 a oggi. Bologna: Il Mulino, 1989.

[5] Ciò a ragione del fatto che lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti ha imposto misure di ricapitalizzazione (o “salvataggio”) non solo delle banche direttamente coinvolte nella vicenda, ma, data l’interconnessione del sistema bancario su scala sovranazionale, anche di altri Istituti di credito e istituzioni finanziarie.

[6] A ragione della scarsa propensione a innovare da parte delle nostre imprese, alla bassissima percentuale di spesa pubblica per ricerca e sviluppo in rapporto al Pil, e alla bassa scolarizzazione della gran parte degli imprenditori italiani. Sebbene quest’ultimo nesso sia spesso trascurato, vi è evidenza relativa al fatto che imprenditori con basso titolo di studio tendono ad assumere individui con basso titolo di studio. V. www.almalaurea.it.

[7] Nonostante la visione dominante accrediti ancora la tesi secondo la quale l’intervento pubblico è sempre e comunque fonte di inefficiente allocazione delle risorse, va registrato che, nel dibattito degli ultimi anni, è in aumento il numero di economisti che sostiene la necessità che lo Stato si faccia carico di stimolare investimenti e innovazione. Si vedano, fra gli altri, M.Mazzucato, Lo Stato innovatore, Bari:Laterza, 2014.

[8] Per un approfondimento, si rinvia a G.Forges Davanzati and R.Patalano, Economic theory and economic policy in Italy at the beginning of the 20th century: The case of Francesco Saverio Nitti, mimeo; G.Forges Davanzati and A.Pacella, Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, 2008, vol.XXII, n.1, pp.179-194.

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Troppo ottimismo sulle scelte di Draghi

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 aprile 2015]

Il c.d. quantitative easing (QE) della Banca Centrale Europea (o “alleggerimento quantitativo”) suscita molte attese, sebbene sia chiaro alla gran parte dei commentatori che non si tratta di una misura sufficiente per fuoriuscire dalla recessione. Si tratta di un’operazione definita di politica monetaria espansiva “non convenzionale”, finalizzata – nelle intenzioni di Mario Draghi – a far crescere gli investimenti nell’Eurozona, mediante maggiori immissioni di liquidità, e, al tempo stesso, a contrastare la deflazione in atto. Il sistema europeo delle banche centrali nazionali acquisterà titoli sovrani, di agenzie e di istituzioni europee, per 60 miliardi al mese fino a settembre 2016 e comunque fino a quando il tasso di inflazione non si assesterà al suo livello target, ovvero al 2%. Si stima che l’ammontare complessivo dell’operazione sarà di circa 1.100 miliardi di euro di nuova liquidità immessa nel sistema. La liquidità verrà immessa attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico emessi dai Governi dei singoli Stati aderenti all’Unione Monetaria Europea e gli acquisti saranno a carico, per il 20%, della BCE e, per l’80%, delle banche centrali dei singoli Paesi.

Le principali criticità di questa operazione riguardano i meccanismi di trasmissione della politica monetaria nell’assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. In altri termini, vi è da dubitare che l’acquisto di titoli di Stato detenuti da banche e istituzioni finanziarie da parte della BCE possa accrescere gli investimenti nell’eurozona, e, come nelle intenzioni di Draghi, generare inflazione. Occorre preliminarmente chiarire che la fondamentale causa della restrizione del credito in atto è da rinvenirsi nella caduta della domanda, che attiva una spirale perversa di riduzione dei profitti, crescenti insolvenze, progressiva riduzione della convenienza da parte delle banche a erogare credito. In più, come attestato da Banca d’Italia, il peggioramento delle aspettative imprenditoriali si associa anche alla riduzione della domanda di credito, con effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti e sul tasso di crescita. Letto in quest’ottica, il credit crunch è l’effetto di politiche fiscali restrittive e, dunque, andrebbe contrastato con maggiore spesa pubblica e minore pressione fiscale. Ciò a dire che la sola politica monetaria può fare davvero poco per far fronte al problema. In più sussistono ragioni di ordine tecnico che inducono a ritenere che il QE europeo non produrrà effetti significativi sulla ripresa degli investimenti, per queste ragioni:

1) non sono stati imposti obblighi alle banche di utilizzare quanto ricevuto dalla BCE nella concessione di finanziamenti e linee di credito ad imprese e famiglie;

2) le nome di Basilea 2 in tema di erogazione del credito di fatto rendono ancora più difficile l’erogazione di credito a imprese e famiglie, dal momento che impongono alle banche di aumentare gli accantonamenti quando aprono linee di credito per operatori economici con elevata probabilità di insolvenza, così che, in questi casi, è maggiore l’assorbimento di patrimonio di vigilanza. In altri termini, la normativa vigente incentiva comportamenti prudenziali, contribuendo, anche per questa via, a ridurre l’offerta di credito. In più, in un contesto di stretta creditizia, sono stati aumentati i requisiti patrimoniali richiesti alle banche europee dalla Bce, a seguito dei c.d. stress test recentemente effettuati. In altri termini, rinunciando ad attuare politiche fiscali espansive per contrastare il credit crunch, si è regolamentato il settore bancario a tal punto da accentuare il problema.

Infine – questione di non poco conto – ai sensi dell’art.21 del suo statuto la BCE non può finanziare direttamente gli Stati membri, che avrebbero vincoli meno rigidi, rispetto a quelli delle banche, nel finanziare economia e lavoro. La Bce, infatti, non è ente prestatore di ultima istanza, come lo sono, la Fed e la Banca del Giappone, quindi non può prestare direttamente ai singoli Stati.

Il QE potrebbe poi generare effetti indesiderati, sul piano distributivo, a ragione del fatto che modifica il portafoglio degli investitori. In altri termini, se l’operazione risulta efficace (ovvero se le banche si liberano di titoli di Stato), la quantità di titoli del debito pubblico sui mercati finanziari si riduce e diventa più facile per le imprese reperire risorse sui mercati finanziari (dal momento che vi è minor concorrenza da parte di titoli di Stato). Occorre osservare che questo esito non ha effetti uniformi per i singoli Paesi, né ha effetti uniformi per la collettività delle imprese, per due ragioni. In primo luogo, la maggiore facilità di reperire risorse nei mercati finanziari riguarda evidentemente le sole imprese che emettono titoli. Si tratta, di norma, di imprese di grandi dimensioni localizzate nelle aree centrali del continente. Il QE consente loro di ridurre le passività finanziarie, accentuando il processo di concentrazione dei capitali e accentuando le divergenze regionali. In secondo luogo, e soprattutto, il QE si associa alla svalutazione dell’euro rispetto al dollaro (e, essendo stato annunciato, modifica anche le aspettative sui tassi di cambio). Vi è ragionevolmente da aspettarsi un aumento delle esportazioni – soprattutto tedesche – e il conseguente aumento dei profitti delle imprese esportatrici tedesche. Letto in quest’ottica, il QE si prefigura come un dispositivo che intensifica i conflitti intercapitalistici su scala globale, coinvolgendo, in particolare Germania e Stati Uniti.

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La pressione fiscale in Italia

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 aprile 2015]

L’ISTAT ha recentemente reso noto che la pressione fiscale, in Italia, si colloca al valore allarmante del 50,3% del Pil, in aumento dello 0.1% rispetto allo stesso trimestre del 2013, che ciò è essenzialmente imputabile all’aumento delle imposte locali (addizionali comunali e regionali IRPEF) e all’elevata evasione fiscale (stimata nell’ordine dei 90 miliardi). Si rileva, a riguardo, che solo l’1% dei contribuenti dichiara al Fisco un reddito imponibile superiore ai 100 mila euro.

Più in generale, lo scenario macroeconomico italiano sembra dar ragione al Wall Street Journal che considera l’Italia (“un elefante nella stanza”) e non la Grecia “il vero nodo europeo”. L’ISTAT certifica anche un aumento, dello 0.1%, del rapporto deficit/Pil e un aumento dell’indebitamento della pubblica amministrazione di oltre un punto percentuale. Il solo dato positivo che emerge dal Rapporto riguarda l’onere degli interessi sul debito pubblico, in calo – nel quarto trimestre del 2014 – del 4.6% rispetto allo stesso trimestre del 2013. Quest’ultimo dato va essenzialmente imputato alle misure di quantitative easing messe in atto dalla Banca Centrale Europea. La spirale perversa nella quale è precipitata l’economia italiana è sintetizzabile in questi passaggi. Per ridurre il rapporto debito/Pil, in un contesto di elevata evasione fiscale, viene aumentata la tassazione. La tassazione finisce, pressoché inevitabilmente, per gravare essenzialmente sul lavoro dipendente e sulle piccole imprese. Ciò a ragione del fatto che la tassazione di soggetti detentori di titoli di Stato (tipicamente banche e grandi imprese) non è mai conveniente per un Governo, dal momento che l’acquisto di titoli di Stato verrebbe disincentivato, rendendo problematica la riduzione dello stock di debito pubblico. In tal senso, è in larga misura irrilevante il fatto che i titoli del debito pubblico siano detenuti da italiani o stranieri.

Ciò che realmente conta è che la tassazione dei salari riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro, per due ordini di ragioni.

1) In primo luogo, e in via indiretta, la moderazione salariale genera calo dei consumi e della domanda interna e, a seguire, il calo della domanda disincentiva gli investimenti e la crescita dimensionale della imprese. La riduzione degli investimenti ha impatto di segno negativo sia sulla domanda interna, sia sul tasso di crescita della produttività del lavoro, amplificando la spirale recessiva.

2) In più, il calo dei salari, per effetto della maggiore tassazione, ha effetti diretti sul tasso di crescita della produttività. La moderazione salariale, infatti, pone le imprese nelle condizioni di accrescere la loro competitività attraverso riduzioni dei costi di produzione, disincentivando, in tal modo, una modalità di competizione basata sulle innovazioni. Questo effetto è ulteriormente amplificato dal fatto che le imprese italiane, salvo rare eccezioni, sono imprese di piccole dimensioni. La piccola scala dimensionale impedisce di sfruttare economie di scala e rende difficile l’attuazione di politiche di alti salari, sia a ragione del fatto che imprese di piccole dimensioni hanno meno fondi interni di imprese di più grandi dimensioni, sia a ragione del fatto che avendo pochi dipendenti la conflittualità è sostanzialmente inesistente e sono conseguentemente assenti rivendicazioni salariali.

In più, la tassazione sulle piccole imprese può generare due effetti: se sono in condizioni di farlo (ovvero se i beni che vendono sono difficilmente sostituibili), possono traslare le imposte a danno dei consumatori, generando, anche per questa via, compressione dei salari netti; se non sono in condizioni di farlo, data la caduta della domanda, incorrono inevitabilmente in riduzioni dei margini di profitto, con conseguente aumento della probabilità di fallimento e contrazione degli investimenti.

Il combinato della riduzione della domanda e della riduzione del tasso di crescita della produttività, generando recessione, contribuisce ad accrescere il rapporto debito/Pil, rendendo necessarie ulteriori misure di aumento della tassazione (ed eventualmente di riduzione della spesa pubblica). Si osservi che, in questo scenario, è politicamente preferibile agire sulla leva fiscale, dal momento che quest’ultima grava essenzialmente sul lavoro e che, per contro, rilevanti contrazioni della spesa pubblica riducono i mercati di sbocco e, per conseguenza, i margini di profitto delle imprese che vendono su mercati interni. Ciò spiega per quale ragione, in particolare in Italia, le politiche di austerità sono state declinate prevalentemente mediante aumenti della pressione fiscale e per quale ragione le proposte di spending review sono state attuate solo parzialmente. Più in dettaglio, gli ultimi Governi hanno ridotto le spese in conto capitale (in primis, gli investimenti pubblici), mantenendo pressoché invariate le spese correnti.

Un’ampia evidenza teorica ed empirica mostra che non esiste alcun criterio scientifico tale da determinare in modo univoco il livello di sostenibilità del debito pubblico. Sia sufficiente, qui, richiamare il fatto che, mentre il debito pubblico italiano, pari a circa il 135% del Pil, è considerato ‘eccessivo’, il debito pubblico giapponese, che supera il 200% del Pil, non è considerato tale. I parametri stabiliti nei Trattati europei (il 3% del rapporto deficit/Pil e il 60% del rapporto debito/Pil) sono, in tal senso, del tutto arbitrari e, soprattutto, il loro rispetto comporta un aumento della pressione fiscale tale da portare i salari permanentemente al di sotto del loro valore di sussistenza. E’ ciò che si può definire ‘sfruttamento fiscale’ operato dallo Stato soprattutto gravando sui lavoratori con più basso reddito, con effetti redistributivi a loro danno e con conseguente inevitabile accentuazione della lunga recessione in corso.

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Il bluff dell’aumento dell’occupazione

[“MicroMega” online del 6 maggio 2015]

SINTESI. Nonostante la propaganda governativa, il numero di nuove assunzioni è di entità trascurabile e il tasso di disoccupazione è in aumento. Né potrebbe essere diversamente: lo scenario macroeconomico non è tale da favorire né una ripresa dei consumi né un aumento degli investimenti. Sebbene siano in molti a ritenere che vi siano in atto mutamenti rilevanti ai fini della ripresa della crescita italiana (la svalutazione dell’euro, il quantitative easing, la riduzione del prezzo del petrolio), si può rilevare che tali fattori producono effetti sostanzialmente irrisori sull’aumento dell’occupazione in un contesto nel quale si continuano a proporre misure di austerità.

A seguito dei dati recentemente diffusi dal Ministero del Lavoro, stando ai quali a marzo ci sarebbe stato un significativo aumento di nuove assunzioni con contratto a tempo determinato, il Governo ha motivato questo risultato avvalendosi di due argomenti: le nuove assunzioni derivano dagli sgravi contributivi messi in atto da questo Governo oppure – altra interpretazione – derivano dall’attuazione del Jobs Act. Ha fatto seguito il proliferare di commenti sul boom di assunzioni.

A ben vedere, si tratta di interpretazioni e di dati in larghissima misura fuorvianti. Nella migliore delle ipotesi, ciò che ragionevolmente ci si può aspettare dall’attuazione del Jobs Act è un aumento temporaneo dei contratti a tempo indeterminato sul totale dei nuovi contratti di lavoro. Il provvedimento, infatti, lascia sostanzialmente invariate le forme contrattuali pre-esistenti e precarie, a fronte degli sgravi fiscali che si attribuiscono alle imprese che assumono con contratto a tempo indeterminato. Il meccanismo è disegnato in modo tale da rendere conveniente per le imprese assumere con contratti a tempo indeterminato fino a quando potranno godere di sgravi fiscali, per poi tornare ad assumere con contratti ‘flessibili’ (non eliminati dalla “riforma”). In tal senso, il provvedimento può tradursi in uno sconto fiscale alle imprese senza effetti sull’occupazione[1].

In effetti, e in modo del tutto improprio, il Governo ha diffuso dati parziali, non restituendo una fotografia di ciò che è realmente accaduto nel mercato del lavoro italiano. Il quadro generale è stato fornito dall’ISTAT, che ha rilevato che, a fronte dell’aumento delle nuove assunzioni a tempo indeterminato (+20.7% rispetto al 2013), si è verificata una significativa riduzione sia delle trasformazioni dei contratti a termine (-11.2% rispetto allo stesso anno di riferimento) sia delle assunzioni con contratti a tempo determinato (-7%). In base a queste stime, si giungerebbe alla conclusione che le nuove assunzioni nel 2014 sono state ben 13. Viene anche rilevato, dal Centro Studi di Confindustria, che il modesto incremento dell’occupazione riguarda individui di età superiore ai cinquant’anni (http://www.confindustria.it/).  In ogni caso, come mostrato in Figura 1, il tasso di disoccupazione, fra il 2014 e il 2015, è aumentato.

I dati Istat (non quelli della propaganda governativa) riflettono, a ben vedere, il fatto che, nel periodo considerato, non vi è stata nessuna modifica radicale negli indirizzi di politica economica tale da motivare un rilevante aumento dell’occupazione. Neppure si può stabilire che sono migliorate le aspettative degli imprenditori e dei consumatori. Tutt’altro. L’aumento dei risparmi delle famiglie italiane attesta semmai il contrario. Si tratta, infatti, di risparmi effettuati per ragioni precauzionali, ovvero per far fronte a eventi futuri percepiti come sempre più incerti (http://www.istat.it/it/archivio/144695). E l’aumento dei risparmi ha prodotto (e sta producendo) due esiti negativi per quanto attiene all’andamento dell’occupazione:

1) poiché i redditi non sono aumentati, l’aumento dei risparmi si è interamente tradotto in una riduzione dei consumi, quindi della domanda interna e della domanda di lavoro espressa dalle imprese;

2) la contrazione dei consumi ha ulteriormente accentuato la spirale deflazionistica nella quale si trova l’economia italiana, incidendo negativamente sulle aspettative imprenditoriali. E’ evidente, infatti, che in condizioni nelle quali il tasso di inflazione si riduce, le imprese si attendono di poter vendere i beni da loro prodotti a prezzi più bassi, ottenendo margini di profitto ridotti, con la conseguenza che gli investimenti non vengono effettuati e vengono posticipati. Ciò anche a ragione della riduzione dell’offerta di credito da parte del settore bancario.

In questo scenario, il peggioramento delle aspettative dei consumatori (che genera un aumento dei risparmi precauzionali) attiva una spirale perversa che agisce negativamente sulle aspettative delle imprese, generando la contestuale riduzione di consumi e di investimenti. E’ chiaro che, stando così le cose, è ragionevolmente impossibile attendersi un aumento dell’occupazione e, ancor più, attendersi un aumento delle assunzioni con contratto a tempo indeterminato.

A ciò si aggiunge il fatto che, sebbene il termine sia scomparso dal dibattito politico, questo Governo continua, di fatto, ad attuare politiche di austerità, ovvero di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale, quest’ultima attestatati a oltre il 50% del Pil e prevalentemente imputabile all’aumento delle addizionali regionali e comunali. Dunque, anche per questa ragione la domanda interna si riduce, contribuendo in via diretta a generare cali (o non aumenti) del tasso di occupazione e, in via indiretta, a incidere negativamente sulle aspettative di imprese e consumatori.

L’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato (qualora vi sia effettivamente stato secondo la stima del Governo) non è imputabile né al Jobs Act né agli sgravi fiscali, ma deriva essenzialmente da un aumento della domanda estera che ha spinto alcune imprese italiane ad accrescere la produzione (a seguito dell’aumento degli ordinativi) e dunque la domanda di lavoro. In particolare, è il settore automobilistico quello che, su fonte ISTAT, fa registrare i maggiori tassi di crescita, con un aumento della produzione di oltre il 30% nell’ultimo trimestre 2014 rispetto al medesimo trimestre dell’anno precedente. L’aumento delle esportazioni, a sua volta, è imputabile alle politiche di “moderazione salariale” che sono state messe in atto negli ultimi anni, e che si sono manifestate in un rilevante calo della quota dei salari sul Pil in Italia.

Da più parti viene fatto rilevare che lo scenario macroeconomico ha subìto una svolta in senso favorevole alla crescita italiana, derivata dal combinato della svalutazione dell’euro, del quantitative easing e della riduzione del prezzo del petrolio. Vi sono però fondate ragioni per ritenere che nessuno di questi fattori possa incidere in misura significativa sull’aumento dell’occupazione:

a) La svalutazione dell’euro potrebbe non associarsi a incrementi rilevanti delle nostre esportazioni, dal momento che, data la specializzazione produttiva dell’economia italiana, ciò che maggiormente conta è la competitività ‘non di prezzo’, ovvero la qualità dei prodotti venduti all’estero. E, in molti casi, si tratta di prodotti considerati di lusso, per i quali vale semmai il c.d. effetto Veblen, per il quale la domanda cresce al crescere del prezzo[2].

b) Il quantitative easing presenta una fondamentale criticità che attiene ai meccanismi di trasmissione della politica monetaria nell’assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. In altri termini, l’acquisto di titoli di Stato detenuti da banche e istituzioni finanziarie da parte della BCE di per sé non implica che le banche eroghino maggiori finanziamenti a imprese e famiglie. Ciò a ragione del fatto che la fondamentale causa della restrizione del credito in atto è da rinvenirsi nella caduta della domanda, che attiva una spirale perversa di riduzione dei profitti, crescenti insolvenze, progressiva riduzione della convenienza da parte delle banche a erogare credito. In più, come attestato da Banca d’Italia, il peggioramento delle aspettative imprenditoriali si associa anche alla riduzione della domanda di credito, con effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti e sul tasso di crescita. Letto in quest’ottica, il credit crunch è l’effetto di politiche fiscali restrittive e, dunque, andrebbe contrastato con maggiore spesa pubblica e minore pressione fiscale. Ciò a dire che la sola politica monetaria può fare davvero poco per far fronte al problema.

c) La riduzione del prezzo del petrolio è da leggersi semmai come effetto della recessione in corso, ovvero come effetto della riduzione della domanda di materie prime derivante dalla contrazione della produzione. Un recente rapporto della Banca d’Italia conferma questa congettura, rilevando che la riduzione del prezzo del petrolio è effettivamente dipesa dalla contrazione della domanda a fronte di livelli di produzione invariati (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-economico/2015-1/boleco_1_2015.pdf).

Occorre chiarire che il persistente aumento (o la non riduzione) del tasso di disoccupazione è un fenomeno irreversibile. Si tratta, infatti, di disoccupazione di lungo periodo che si associa, per gli individui con più elevata scolarizzazione, a obsolescenza intellettuale e, dunque, al progressivo depauperamento delle conoscenze acquisite; così che è estremamente bassa la probabilità che siano assunti nel caso in cui aumenti la domanda di lavoro. Più in generale, il deterioramento della qualità della forza-lavoro, conseguente a una condizione di disoccupazione di massa (soprattutto giovanile) di lunga durata, compromette non solo la possibilità che questi individui siano assunti una volta aumentata la domanda di lavoro, ma, per effetto della progressiva perdita di competenze e soprattutto della compressione degli investimenti conseguente alla riduzione della domanda attesa, anche la possibilità di un futuro aumento del tasso di crescita della produttività del lavoro. In questo scenario, non stupisce se la ricerca dell’impiego passa sempre più attraverso le “reti relazionali”, accrescendo, anche per questa via, le diseguaglianze distributive.

Note

[1] V. A.Stirati, Il primo maggio del Jobs Act, “Economia e Politica”, 1 maggio 2015. Per una accurata ricostruzione critica dei contenuti del Jobs Act, si rinvia a M.Barbieri, Jobs Act e intergrazione salariale, “Economia e Politica”, 31 marzo 2015. La nuova normativa dispone che sulla retribuzione spettante al lavoratore (nel caso di conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato – vigente la clausola delle tutele crescenti), l’impresa non paga la contribuzione all’Inps. L’impresa continua a versare i contributi all’Inail e il Tfr (che il lavoratore potrà chiedere di includere in busta paga). La durata delle agevolazioni è di tre anni.

[2] Sebbene non siano disponibili risultati definitivi, la gran parte degli studi sull’argomento conclude che l’elasticità al prezzo delle esportazioni italiane è, per la gran parte dei beni esportati, più bassa della media dei Paesi dell’eurozona.

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Per una nuova visione della politica economica europea

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 2 luglio 2015]

Ben venga, soprattutto per il popolo greco, e soprattutto per come le Istituzioni europee hanno gestito il negoziato, l’abbandono dell’euro. Come ha osservato il Premio Nobel Paul Krugman, vi sono fondate ragioni per ritenere che il ritorno alla dracma possa avviare un percorso di crescita che le irrazionali misure di austerità imposte al Paese inibiscono del tutto. Si può ragionevolmente ritenere, infatti, che l’attuale situazione nella quale versa l’economia ellenica sia la peggiore possibile per tutti gli scenari immaginabili, e che il ritorno alla dracma, se non altro per la sua svalutazione e il conseguente aumento delle esportazioni (evento ragionevolmente prevedibile, pur a fronte dell’imprevedibilità della sua entità), potrebbe portare quella economia fuori dalla recessione, almeno in un orizzonte temporale medio-lungo. In una condizione di disinflazione, non dovrebbero esserci ragioni per prevedere che la svalutazione della dracma produca iperinflazione, come, per contro, sostenuto da Larry Summers, ex segretario USA al Tesoro. Insomma, lo scenario visto da Krugman appare, date le informazioni di cui si dispone, quello più sensato. Esso è rafforzato da una recente ricerca condotta dal Levy Institute, dalla quale si prevede che il ritorno alla dracma porterebbe il Paese a una significativa ripresa della crescita economica.

Va tuttavia tenuto conto del fatto che il problema greco è innanzitutto politico e che solo in seconda battuta le tesi degli economisti possono aiutare a comprenderlo. Il nucleo del problema consiste, infatti, nel fatto che Syriza ha proposto una visione della politica economica europea radicalmente contrapposta a quella dominante, che fa riferimento alle politiche di austerità, alla moderazione salariale e alle c.d. riforme strutturali. Questa visione si è scontrata con l’intransigenza in primis del Governo tedesco, rendendo sostanzialmente superfluo il prolungamento della trattativa. Un’intransigenza apparentemente miope e irrazionale, per almeno due ragioni. In primo luogo, il Grexit può dar adito a effetti contagio in altri Paesi periferici dell’eurozona, mettendo seriamente a rischio la tenuta dell’Unione Monetaria Europea, verosimilmente a danno della stessa Germania. In secondo luogo, il Grexit può ridefinire gli assetti geo-politici, soprattutto mediante l’avvicinamento della Grecia alla Russia, anche in questo caso con effetti certamente non desiderabili per la stessa Germania e per l’intera Eurozona.

Occorre chiedersi se vi siano ragioni di convenienza economica e politica che motivino la posizione tedesca.

a) Una prima ragione potrebbe riguardare ciò che il finanziere George Soros ripete da qualche tempo: o si rimane nell’Euro modificando i Trattati e praticando una politica fiscale comune o sarà la Germania a decidere di uscire dall’Euro. Da qualche anno la Germania, la cui crescita dipende dalle esportazioni, sta diversificando i mercati di sbocco dei suoi prodotti dall’Unione Europea (dove la domanda è calata proprio a causa della crisi dei paesi del Sud)  ai paesi dell’Est Europa ed alla Cina: quando i costi per restare nell’Unione Europea – si ricordi che la Germania è il primo contribuente dell’UE – saranno diventati più alti dei vantaggi (il valore delle esportazioni negli altri paesi dell’UE) probabilmente sarà proprio la Germania a voler uscire.

b) Una seconda ragione attiene a una strategia di disciplina, per la quale il Grexit, se dovesse portare la Grecia a una situazione peggiore di quella attuale, rafforzerebbe la posizione tedesca e indurrebbe i Paesi periferici dell’eurozona a una totale subalternità rispetto alle decisioni tedesche, con prevedibile accentuazione delle misure di austerità.

Ciò che sembra certo è che l’abbandono dell’euro da parte della Grecia porterebbe solo costi per l’economia italiana, sia per l’esposizione delle nostre banche sul debito greco, sia perché, se dovesse funzionare la strategia di disciplina, vi è da attendersi un’intensificazione delle misure di austerità che hanno contribuito, in questi anni, a generare recessione.

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La crisi greca e la distribuzione del reddito nell’eurozona

[“MicroMega” online del 13 luglio 2015]

Sintesi. Al di là del modo in cui stanno evolvendo ed evolveranno le trattative fra Governo greco e Istituzioni europee, va registrato che la crisi greca si inserisce nel quadro di un processo rilevante di redistribuzione del reddito fra Paesi centrali e Paesi periferici dello sviluppo capitalistico e, all’interno di questi ultimi, di ulteriore polarizzazione dei redditi. Syriza ha proposto nei mesi scorsi una radicale revisione di questo modello di sviluppo e ciò che sta accadendo sembra accreditare l’idea che è impossibile attuare politiche redistributive nell’attuale assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. In questo scenario, è davvero imbarazzante la posizione del Governo italiano e la gestione della crisi greca contribuisce in modo significativo a chiarirne la reale natura. A fronte delle molteplici dichiarazioni del Presidente Renzi a favore di una radicale revisione delle politiche economiche europee, il mancato sostegno di Syriza non può che essere interpretato come la radicale accettazione delle politiche economiche della c.d. Troika.

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La gran parte delle analisi sulla crisi greca, soprattutto nei media italiani, si è concentrata sull’andamento delle trattative fra il Governo greco e le istituzioni europee, e – schematicamente – il dibattito è sostanzialmente ruotato intorno alla domanda se l’intransigenza tedesca sia opportuna o meno, ovvero se i greci debbano o meno continuare a fare “riforme”. L’accordo recentemente raggiunto configura di fatto una resa incondizionata del Governo Tsipras, sui cui sviluppi è impossibile esprimersi, anche considerando che molte delle ‘raccomandazioni’ contenute nel documento approvato sono assolutamente inattuabili (http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/12/grecia-le-condizioni-delleurogruppo-3-giorni-per-le-riforme-e-pignoramento-dei-beni-pubblici-per-50-miliardi/1866962/). Ed è un accordo probabilmente non conclusivo della vicenda.

La crisi greca può essere forse meglio compresa se inquadrata innanzitutto all’interno di una cornice più ampia, che parta dalla constatazione che l’attuale configurazione delle economie capitalistiche è essenzialmente caratterizzata da forti e crescenti diseguaglianze della distribuzione dei redditi[1].

Con la massima schematizzazione, si può rilevare che ciò che qualche anno fa era definita crisi globale è oggi essenzialmente crisi europea ed è tale proprio nell’area nella quale trovano la loro massima legittimazione le politiche ‘neoliberiste’(https://www.imf.org/external/np/seminars/eng/2010/eui/pdf/AB.pdf.), in una condizione di continuo aumento dei debiti pubblici dei Paesi aderenti (e, nel caso greco, di sostanziale insolvenza). Una recente ricerca del Max Plank Institute mostra che dal 1970 al 2011 il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato in modo esponenziale in tutti i Paesi OCSE[2]. La motivazione tradizionale[3] che spiegherebbe questo fenomeno fa riferimento alla presunta tendenza degli Stati democratici a “vivere al di sopra delle loro possibilità”, soprattutto a ragione della spesa crescente per servizi di Welfare imputabile all’aumento della partecipazione democratica. A ben vedere, si tratta di una tesi oggi palesemente falsa, che, al più, poteva valere nella fase della c.d. crisi fiscale dello Stato, quando il potere politico gestiva la doppia funzione di agevolare l’accumulazione capitalistica e di legittimarla[4]. Oggi, è semmai il deficit di democrazia e la notevole riduzione del potere contrattuale della classe operaia a generare l’esplosione del debito: vi è ampia evidenza, infatti, a sostegno della tesi stando alla quale il peggioramento della distribuzione del reddito ha effetti di segno negativo sul tasso di crescita, generando continui aumenti del rapporto debito pubblico/Pil[5]. Il peggioramento della distribuzione del reddito, infatti, associata a bassa crescita obbliga gli Stati a emettere titoli del debito pubblico con tassi di interesse crescenti, in una spirale perversa per la quale il crescente indebitamento, in una condizione nella quale è fatto divieto di ‘monetizzarlo’, richiede crescente imposizione fiscale soprattutto a danno del lavoro, amplificando ulteriormente le diseguaglianze distributive.

Letta in quest’ottica, la crisi dell’Eurozona può essere fatta dipendere dal fatto che è l’area nella quale, negli ultimi decenni, la distribuzione del reddito è maggiormente peggiorata e nella quale sono state attuate, con la massima intensità, politiche di smantellamento del welfare state e di precarizzazione del lavoro.

Come si può osservare in figura 1, su fonte Eurostat (ultima rilevazione), le diseguaglianze distributive, misurate con l’indice di Gini, sono maggiori nei Paesi periferici dell’Eurozona, e, quantomeno nel caso esaminato, nei Paesi europei nei quali le diseguaglianze distributive sono maggiori risulta più basso il tasso di crescita (http://www.socialeurope.eu/2012/09/income-inequality-in-the-eurozone-what-are-the-effects-on-growth/).

 La crisi greca non è dunque un caso eccezionale, derivando fondamentalmente dal combinato della crescita dei divari regionali all’interno dell’Eurozona[6] e dal peggioramento della distribuzione del reddito all’interno del Paese (accentato dalle misure di austerità), a partire da una condizione iniziale (pre-euro) di estrema fragilità della struttura produttiva. Ed è stato a più riprese (ottimisticamente) rilevato che l’evoluzione della crisi greca potrebbe portare a una radicale inversione di rotta nella gestione della politica economica, per esempio creando le condizioni politiche perché si arrivi a un referendum europeo sulle politiche di austerità (http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/10/grecia-e-ora-un-referendum-europeo-contro-lausterita/1855997/). In ogni caso, al di là di come evolverà la vicenda, sembra che la fondamentale lezione appresa da quanto fin qui accaduto possa essere così posta: per come è oggi costruita l’Unione Monetaria Europea è impossibile l’attuazione di misure di redistribuzione del reddito e, come corollario politico, è sostanzialmente impossibile, dentro questa Unione Monetaria Europea, la realizzazione di programmi politici di partiti di sinistra, nell’accezione tradizionale del termine (http://ilmanifesto.info/leuropa-e-lanomalia-di-un-governo-di-sinistra/)[7].

Sul piano più propriamente tecnico, appare convincente la posizione di Paul Krugman[8], secondo la quale vi sono fondate ragioni per ritenere che il ritorno alla dracma possa avviare un percorso di crescita che le irrazionali misure di austerità imposte al Paese inibiscono del tutto. Si può cioè ragionevolmente ritenere, infatti, che l’attuale situazione nella quale versa l’economia ellenica sia la peggiore possibile per tutti gli scenari immaginabili, e che il ritorno alla dracma, se non altro per la sua svalutazione e il conseguente aumento delle esportazioni (evento ragionevolmente prevedibile, pur a fronte dell’imprevedibilità della sua entità), potrebbe portare quella economia fuori dalla recessione, almeno in un orizzonte temporale medio-lungo. In una condizione di disinflazione, non dovrebbero esserci ragioni per prevedere che la svalutazione della dracma produca iperinflazione, come, per contro, sostenuto da Larry Summers, ex segretario USA al Tesoro. Insomma, lo scenario visto da Krugman appare, date le informazioni di cui si dispone, quello più sensato. Esso è rafforzato da una recente ricerca condotta dal Levy Institute, dalla quale si prevede che il ritorno alla dracma, con l’attuazione di politiche fiscali espansive, porterebbe il Paese a una significativa ripresa della crescita[9]. D’altra parte, l’accordo del 13 luglio è non solo il peggior accordo possibile per la Grecia, ma è anche sostanzialmente irrealizzabile.

Va tuttavia tenuto conto del fatto che il problema greco è innanzitutto politico e che solo in secondo battuta le tesi degli economisti possono aiutare a comprenderlo. Il nucleo del problema consiste, infatti, nel fatto che Syriza ha proposto nei mesi scorsi una visione della politica economica europea radicalmente contrapposta a quella dominante, che fa riferimento alle politiche di austerità, alla moderazione salariale e alle c.d. riforme strutturali. Questa visione si è scontrata con l’intransigenza in primis del Governo tedesco: un’intransigenza apparentemente miope e irrazionale, per almeno due ragioni. In primo luogo, il Grexit può dar adito a effetti contagio in altri Paesi periferici dell’eurozona, mettendo seriamente a rischio la tenuta dell’Unione Monetaria Europea, verosimilmente a danno della stessa Germania. In secondo luogo, il Grexit può ridefinire gli assetti geo-politici, soprattutto mediante l’avvicinamento della Grecia alla Russia, anche in questo caso con effetti certamente non desiderabili per la stessa Germania e per l’intera Eurozona.

Occorre chiedersi se vi siano ragioni di convenienza economica e politica che motivino la posizione tedesca.

a) Una prima ragione, suggerita da alcuni analisti (http://www.stefanogiantin.net/interviste/la-germania-pronta-a-lasciare-leurozona-italia-sicuro-default/), potrebbe riguardare la possibilità che sia la Germania a far deflagrare il progetto di unificazione europeo. Si può considerare, a riguardo, che la Germania, la cui crescita dipende dalle esportazioni, sta diversificando i mercati di sbocco dei suoi prodotti dall’Unione Europea (dove la domanda è calata proprio a causa della crisi dei paesi del Sud)  ai paesi dell’Est Europa ed alla Cina.

b) Una seconda ragione attiene a una strategia di disciplina, per la quale il Grexit, se dovesse portare la Grecia a una situazione peggiore di quella attuale, rafforzerebbe la posizione tedesca e indurrebbe i Paesi periferici dell’eurozona a una totale subalternità rispetto alle decisioni tedesche, con prevedibile accentuazione delle misure di austerità.

In questo scenario, è davvero imbarazzante la posizione del Governo italiano e la gestione della crisi greca contribuisce in modo significativo a chiarirne la reale natura. A fronte delle molteplici dichiarazioni del Presidente Renzi a favore di una radicale revisione delle politiche economiche europee, il mancato sostegno di Syriza non può che essere interpretato come totale subordinazione rispetto alle misure imposte da BCE, Commissione Europea e FMI.

Note

[1] Per un approfondimento, si rinvia a E. Tsakalatos and C. Laskos, Crucible of resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis, Plu­to­Press, 2013. Si veda anche http://www.altraeuroparoma.it/blog/le-quattro-tesi-economiche-di-euclid-tsakalotos/

[2] V. W. Streek, The politics of public debt. Noeliberalism, Capitalist Development and the Restructuring of the State, “Max Plank Institute for the study of Societies”, working paper 13/7, 2013.

[3] Per la quale si rinvia al pionieristico studio di J. Buchanan, Public principles of public debt del 1958.

[4] Si fa qui riferimento a quanto scriveva J. O’Connor, nel volume La crisi fiscale dello Stato (1973), ovvero che: “Lo stato capitalistico deve espletare due funzioni fondamentali, spesso contraddittorie: l’accumulazione e la legittimazione. Vale a dire, lo stato deve sforzarsi di creare o di conservare condizioni idonee a una redditizia accumulazione di capitale. D’altra parte, lo stato deve sforzarsi di creare o di conservare condizioni idonee all’armonia sociale”.

[5] A fronte dell’ampia letteratura sul tema, si rinvia qui in particolare a J.E. Stiglitz, The Price of Inequality: How Today’s Divided Society Endangers Our Future, New York, New York Times Best Sellers, 2013. I principali (ma non unici) argomenti a favore della tesi seconda la quale una distribuzione fortemente diseguale del reddito frena la crescita sono due: in una condizione di bassi salari sono bassi i consumi e, dati gli investimenti privati, è bassa la domanda aggregata, soprattutto a ragione del fatto che la propensione al consumo delle famiglie con più bassi redditi è maggiore della propensione al consumo delle famiglie con redditi elevati; a ciò si aggiunge che bassi salari sono di norma associati a un basso tasso di crescita della produttività del lavoro.

[6] Dal momento che, come scriveva, fra gli altri, Nicholas Kaldor, nel saggio The foundation of free trade theory del 1980, “Il libero scambio porta inevitabilmente alla concentrazione spaziale della produzione industriale – un processo di polarizzazione che inibisce la crescita di queste attività in alcune aree e le concentra in altre”.

[7] Si veda G. Pastrello, L’obiettivo vero: eliminare la sinistra, “Il Manifesto”, 12.7.2015

[8] Si veda P.Krugman, Per Atene Grexit sarebbe meno costosa delle attese, “Il Sole 24 ore”, 25.6.2015.

[9] D.B. Papadimitriou, M.Nikiforos and G.Zezza, Greece: conditions and strategies of economic recovery, Levy Economics Institute, Strategic Analysis, May 2015.

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La resa incondizionata di Tsipras

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 17 luglio 2015]

L’accordo recentemente raggiunto fra il Governo greco e le Istituzioni Europee configura di fatto una resa incondizionata di Tsipras, sui cui sviluppi è impossibile esprimersi, anche considerando che molte delle ‘raccomandazioni’ contenute nel documento approvato sono assolutamente inattuabili. Ed è un accordo probabilmente non conclusivo della vicenda.
La crisi greca può essere forse meglio compresa se inquadrata innanzitutto all’interno di una cornice più ampia, che parta dalla constatazione che l’attuale configurazione delle economie capitalistiche è essenzialmente caratterizzata da forti e crescenti diseguaglianze della distribuzione dei redditi. 
Con la massima schematizzazione, si può rilevare che ciò che qualche anno fa era definita crisi globale è oggi essenzialmente crisi europea ed è tale proprio nell’area nella quale trovano la loro massima legittimazione le politiche ‘neoliberiste’, in una condizione di continuo aumento dei debiti pubblici dei Paesi aderenti (e, nel caso greco, di sostanziale insolvenza). Una recente ricerca del Max Plank Institute mostra che dal 1970 al 2011 il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato in modo esponenziale in tutti i Paesi OCSE.
La motivazione tradizionale che spiegherebbe questo fenomeno fa riferimento alla presunta tendenza degli Stati democratici a “vivere al di sopra delle loro possibilità”, soprattutto a ragione della spesa crescente per servizi di Welfare imputabile all’aumento della partecipazione democratica. A ben vedere, si tratta di una tesi oggi palesemente falsa, che, al più, poteva valere nella fase della c.d. crisi fiscale dello Stato, quando il potere politico gestiva la doppia funzione di agevolare l’accumulazione capitalistica e di legittimarla. Oggi, è semmai il deficit di democrazia e la notevole riduzione del potere contrattuale dei lavoratori a generare l’esplosione del debito: vi è ampia evidenza, infatti, a sostegno della tesi stando alla quale il peggioramento della distribuzione del reddito ha effetti di segno negativo sul tasso di crescita, generando continui aumenti del rapporto debito pubblico/Pil. Ciò fondamentalmente per l’operare di due effetti: in una condizione di bassi salari sono bassi i consumi e, dati gli investimenti privati, è bassa la domanda aggregata, soprattutto a ragione del fatto che la propensione al consumo delle famiglie con più bassi redditi è maggiore della propensione al consumo delle famiglie con redditi elevati; a ciò si aggiunge che bassi salari sono di norma associati a un basso tasso di crescita della produttività del lavoro.  Il peggioramento della distribuzione del reddito, infatti, associata a bassa crescita obbliga gli Stati a emettere titoli del debito pubblico con tassi di interesse crescenti, in una spirale perversa per la quale il crescente indebitamento, in una condizione nella quale è fatto divieto di ‘monetizzarlo’, richiede crescente imposizione fiscale soprattutto a danno del lavoro, amplificando ulteriormente le diseguaglianze distributive.

Letta in quest’ottica, la crisi dell’Eurozona può essere fatta dipendere dal fatto che è l’area nella quale, negli ultimi decenni, la distribuzione del reddito è maggiormente peggiorata e nella quale sono state attuate, con la massima intensità, politiche di smantellamento del welfare state e di precarizzazione del lavoro.
Su fonte Eurostat, si rileva che le diseguaglianze distributive, misurate con l’indice di Gini, sono maggiori nei Paesi periferici dell’Eurozona, e nei Paesi europei nei quali le diseguaglianze distributive sono maggiori risulta più basso il tasso di crescita. La crisi greca non è dunque un caso eccezionale, derivando fondamentalmente dal combinato della crescita dei divari regionali all’interno dell’Eurozona e dal peggioramento della distribuzione del reddito all’interno del Paese (accentato dalle misure di austerità), a partire da una condizione iniziale (pre-euro) di estrema fragilità della struttura produttiva. Al di là di come evolverà la vicenda, sembra che la fondamentale lezione appresa da quanto fin qui accaduto possa essere così posta: per come è oggi costruita l’Unione Monetaria Europea è impossibile provare ad attenuare le diseguaglianze distributive o comunque attuare linee di politica economica diverse o alternative rispetto a quelle proposte/imposte da BCE, Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale.
Il punto in discussione è che queste politiche, reiterate nel corso degli ultimi dieci anni in tutti i Paesi dell’Unione Monetaria Europea, si sono rivelate del tutto irrazionali per l’obiettivo che si propongono (ridurre il rapporto debito pubblico/Pil), generando, per contro, continui aumenti del debito, e soprattutto fonte esclusiva di recessione, di aumento della disoccupazione e di crescita delle diseguaglianze. Se è vero che l’austerità tedesca funziona perché consente a quel Paese di crescere attraverso l’aumento delle esportazioni, è anche vero che, su questo fronte, i Paesi periferici non traggono alcun beneficio: la loro bilancia commerciale risulta attiva esclusivamente per la riduzione delle importazioni derivante dalla caduta della domanda interna.
Posta la questione in questi termini, dovrebbe essere interesse di tutti i Paesi periferici dell’Eurozona (Italia inclusa) quantomeno provare a mettere in discussione l’egemonia tedesca e, più in generale, questo modello di competizione fra Stati che è venuto determinandosi all’interno dell’Unione: il mancato appoggio di Syriza da parte del nostro Governo purtroppo non va in questa direzione.

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Il vero spreco dell’economia italiana: la disoccupazione giovanile

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 agosto 2015]

La crescita della disoccupazione giovanile – fenomeno presente in molti Paesi europei, fortemente accentuato in Italia, e ancor più al Sud, come attestato dall’ultimo rapporto SVIMEZ – non è imputabile, come viene diffusamente sostenuto, alla (presunta) rigidità del mercato del lavoro italiano, ma fondamentalmente alla caduta della domanda interna e alla conseguente riduzione della domanda di lavoro espressa dalla imprese. A fronte dell’aumento della disoccupazione giovanile, si registra un considerevole aumento della disoccupazione giovanile intellettuale, che riguarda, cioè, individui giovani con elevato titolo di studio. Si tratta di un fenomeno imputabile a numerosi fattori, fra i quali essenzialmente l’esistenza di una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni e poco innovative che non esprimono domanda di lavoro qualificato; una spesa pubblica per ricerca e sviluppo inferiore allo 0.5% del Pil; il blocco del turn-over nel pubblico impiego e, non da ultimo, alla rilevante decurtazione di fondi alle Università. Una recente indagine dell’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) rileva che solo il 7% dei dottori di ricerca potrà intraprendere la carriera accademica e che, per il combinato del sottofinanziamento delle Università e dell’introduzione di contratti precari per lo svolgimento di attività di ricerca, negli ultimi cinque anni 2.000 posti da ricercatore strutturato si sono trasformati in meno di 1.000 posti da precario.

Che la crisi nel Mezzogiorno sia più intensa del resto del Paese è ormai un dato acquisito, così come è un dato acquisito il fatto che le politiche messe in campo negli ultimi anni – sotto forma di riduzioni di spesa pubblica e aumento della pressione fiscale – hanno contribuito ad accentuare i divari regionali. In questo scenario, va sottolineato che una parte consistente della platea di disoccupati al Sud è formata da individui con elevato tasso di scolarizzazione, laureati e dottori di ricerca. Un elevato tasso di disoccupazione intellettuale è uno spreco per almeno due ragioni. Innanzitutto, lo è perché lo Stato contribuisce a formare individui con elevato capitale umano, con un investimento il cui rendimento risulta sostanzialmente nullo. In secondo luogo, si tratta di uno spreco dal momento che le famiglie hanno contribuito a finanziare gli studi dei loro figli, ottenendo un flusso di benefici, in termini di reddito, anche in questo caso pressoché nullo.

Occorre rilevare, a riguardo, che da almeno sei anni il finanziamento alla ricerca, in Italia, è in costante riduzione e che, come corollario, le assunzioni nelle Università e nei centri di ricerca sono in costante declino. A ciò occorre aggiungere che non pochi laureati e dottori di ricerca meridionali sono non solo estremamente preparati ma anche molto motivati per lo svolgimento di attività di ricerca. E non è assolutamente secondario rilevare che – cosa difficilmente smentibile – la ricerca scientifica contribuisce in modo significativo alla crescita economica.

Il punto in discussione è che è assolutamente irrazionale sottofinanziare la ricerca, con particolare riferimento a quella prodotta nel Mezzogiorno, generando un sostanziale blocco del turnover nelle Università, in un contesto di drammatica crescita della disoccupazione intellettuale, e delle emigrazioni intellettuali. Non vale, a riguardo, l’obiezione secondo la quale sono pochi i fondi disponibili, in virtù degli obblighi assunti dall’Italia in sede europea in merito alle politiche di “consolidamento fiscale” e, dunque, di riduzione del debito pubblico.

E’ ormai del tutto chiaro, infatti, che la riduzione della spesa pubblica (e dell’aumento della pressione fiscale) genera semmai un aumento del debito pubblico, non solo in rapporto al Pil ma anche in valore assoluto. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce la domanda interna e, per conseguenza, riduce il tasso di occupazione e il tasso di crescita. Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, così che, anche per questa via, minore spesa può implicare più debito.

L’Istat certifica che il numero di dottori di ricerca in Italia è notevolmente inferiore alla media europea, nonostante sia cresciuto nel corso dei primi anni Duemila, e soprattutto che solo il 75% di coloro che hanno acquisito un dottorato di ricerca in sedi universitarie meridionali resta nel Mezzogiorno (trovandosi, peraltro, in condizioni di disoccupazione o sottoccupazione), a fronte del 96% di individui che hanno acquisito il medesimo titolo di studio in sedi localizzate a Nord e che restano al Nord.

Posta la questione in questi termini, appare evidente che la sola prospettiva di fuoriuscita dalla recessione e di riduzione dei divari regionali passa attraverso maggiore spesa pubblica in particolare nel settore della ricerca scientifica. Si tratterebbe di una misura che attiverebbe un effetto moltiplicativo non solo dal lato della domanda, come conseguenza di maggiori consumi e maggiori investimenti, ma anche dal lato dell’offerta, come conseguenza di un maggior tasso di crescita della produttività del lavoro. Ma, soprattutto, si tratterebbe di una strategia efficace per attenuare il vero spreco che l’economia italiana produce, ovvero una elevata e crescente disoccupazione giovanile con elevato livello di scolarizzazione. Giacché non può non apparire palesemente irrazionale bloccare il reclutamento nei centri di ricerca con oltre il 40% di disoccupazione giovanile prevalentemente con elevato titolo di studio.

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La rottamazione del Mezzogiorno

[“MicroMega online” del 7 settembre 2015]

SINTESI: Il Presidente Renzi ha recentemente dichiarato che il suo Governo “ha salvato il Mezzogiorno”. E’ un’affermazione palesemente smentita dall’evidenza empirica. Al di là della propaganda governativa, per la quale occorre superare la “retorica assolutoria del Sud abbandonato”, occorre prendere atto del fallimento delle politiche per il Mezzogiorno degli ultimi decenni, e indirizzare gli sforzo verso una radicale revisione degli indirizzi di policy, che dovrebbero semmai incidere, attraverso investimenti pubblici, sulla specializzazione produttiva dell’economia meridionale, rafforzandone il tessuto industriale.

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Il Presidente Renzi ha recentemente dichiarato che il suo Governo “ha salvato il Mezzogiorno” (http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/renzi_salvataggio_sud/notizie/1544785.shtml). E’ davvero difficile comprendere il senso di questa affermazione: stando all’ultimo Rapporto SVIMEZ, il Pil del Mezzogiorno è inferiore a quello greco, ha fatto registrare una contrazione del 13% dal 2008 a fronte del 7.4% del Centro-Nord, configurando uno scenario che SVIMEZ definisce di “sottosviluppo permanente”. Si tratta di un dato, fra i tanti rilevati nel Rapporto, che non può non destare preoccupazione e che smentisce in modo inequivocabile la propaganda governativa[1]. E si tratta peraltro di un’evidenza confermata dai dati recentemente diffusi dal Ministero delle Finanze, dalla quale risulta che, a fronte di una riduzione del reddito pro-capite in tutte le regioni italiane, le contrazioni di maggiore entità si sono manifestate nelle regioni meridionali e nelle Isole.

Occorre innanzitutto individuare le cause che hanno portato a questo esito. Cause sostanzialmente riconducibili alle seguenti.

1) In primo luogo, in assenza di interventi esterni, un’economia di mercato tende spontaneamente a generare divari regionali e ad amplificarli. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una volta determinatasi un’agglomerazione di imprese in una data area, per l’operare di economie di scala e di network, e per l’esistenza di centri di ricerca e di facile accesso al credito bancario, le imprese operanti in quell’area sono in grado di realizzare maggiori investimenti (e di generare più intensi flussi di innovazione) rispetto alle aree periferiche. Il che si traduce in “effetti di polarizzazione” che attivano meccanismi perversi di riduzione dell’occupazione nelle aree periferiche e di aumento della domanda di lavoro qualificato nelle aree centrali, con conseguenti migrazioni di individui con elevata scolarizzazione dalle aree periferiche alle aree centrali[2]. Gli imponenti flussi migratori dal Mezzogiorno oggi testimoniano il fatto che queste dinamiche sono pienamente operanti e che il “capitale umano” formato nelle regioni meridionali, una volta trasferito in altre aree, contribuisce, tramite trasferimento di produttività, ad accrescere le divergenze regionali, amplificando la spirale viziosa di crescita dei divari regionali: spirale viziosa che non può che essere fermata attraverso interventi esterni.

2) Negli ultimi anni, tuttavia, gli interventi esterni, anziché risolvere o attenuare il problema, lo hanno accentuato. Per due ragioni. Innanzitutto, le politiche di austerità hanno ridotto la domanda interna con evidente danno per le imprese che operano su mercati interni, e, dunque, essenzialmente per le imprese meridionali. In secondo luogo, come attestato dalla corte dei conti, le politiche di austerità, sotto forma di aumento della pressione fiscale e di riduzione dei trasferimenti pubblici, sono state attuate in dosi più massicce proprio nel Mezzogiorno (soprattutto a causa della riduzione della spesa in conto capitale), generando l’esito paradossale per il quale le misure adottate, anziché invertire (o provare a invertire) questa dinamica, la hanno di fatto amplificata. Si noti che non esiste motivazione ufficiale che dia conto del perché i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno deciso di ridistribuire risorse a vantaggio del Nord e a danno del Sud[3].

Dovrebbe essere ormai chiaro che il Mezzogiorno non ha bisogno di trasferimenti monetari. L’esperienza dei fondi strutturali come meccanismo di riequilibrio si è rivelata palesemente fallimentare: fondi spesi male, tardi, e spesso per soli obiettivi di acquisizione di consenso. Si può ricordare, a riguardo, che come attestato da Sesto Rapporto sulla Coesione della Commissione Europea, al maggio 2014 l’Italia era quart’ultima su 27 Stati membri nel “tasso di assorbimento”, cioè nella percentuale di spesa delle risorse disponibili per il 2007-13 (di norma, i ritardi di spesa sono ritenuti un segnale di bassa efficienza della stessa). Il che non desta sorpresa dal momento che nelle aree nelle quali la povertà è diffusa, è maggiormente elevata la probabilità che si faccia un uso distorto di fondi pubblici. Ciò a ragione del fatto che laddove i redditi sono bassi è molto difficile che i cittadini pretendano da chi gestisce le amministrazioni locali un’elevata efficienza: ci si limita a domandare alla politica un’azione, per così dire, di pura assistenza, che spesso si realizza in modo non propriamente lecito. Il che, si badi, non è ascrivibile a una diretta responsabilità delle classi dirigenti meridionali, come vorrebbe la vulgata per la quale ogni intervento a favore del Mezzogiorno è destinato a fallire a ragione della strutturale incapacità della classe politica meridionale di gestire in modo efficiente risorse pubbliche e alla sua propensione a utilizzare risorse pubbliche per clientelismo e corruzione. E’ un fenomeno semmai imputabile a una condizione di sottosviluppo che limita l’azione politica locale, nella gran parte dei casi, a una funzione puramente assistenziale.

A ben vedere, la convinzione che i fondi strutturali possano contribuire alla ripresa dell’economia meridionale è palesemente falsa e, per molti aspetti, pericolosa. Innanzitutto, i fondi strutturali ammontano a solo il 5% del totale della spesa pubblica nel Mezzogiorno e potrebbe essere sufficiente questo dato per rendere del tutto inverosimile l’ipotesi che il Mezzogiorno riprenda a crescere utilizzandoli in modo più efficiente, considerata la percentuale assolutamente irrisoria. In secondo luogo, i fondi strutturali accentuano i meccanismi di dipendenza delle aree periferiche rispetto a quelle centrali, rendendo sempre più difficile l’avvio di un percorso di sviluppo non etero diretto.

Il palese fallimento delle politiche per il Mezzogiorno degli ultimi decenni, basate sulla convinzione che il Mezzogiorno possa crescere esclusivamente valorizzando le sue ‘vocazioni naturali’ (turismo e agricoltura in primis), con trasferimenti monetari compensativi degli squilibri regionali, dovrebbe indurre a una radicale revisione degli indirizzi di policy, che dovrebbero semmai incidere, attraverso investimenti pubblici, sulla specializzazione produttiva dell’economia meridionale, rafforzandone il tessuto industriale. Si può rilevare, a riguardo, che l’economia meridionale è attualmente caratterizzata da un peso crescente del terziario e un’incidenza sul Pil decrescente del settore manifatturiero. Il comparto che fa registrare, pur in un contesto recessivo, le performance migliori resta quello turistico. Si tratta di un settore che presenta alcune criticità, che fanno riferimento in particolare ai seguenti aspetti: in primo luogo, l’aumento dei flussi turistici sembra dipendere più dalla riduzione del reddito pro-capite dei visitatori che dal successo delle operazioni di marketing territoriale. In tal senso, si percepisce il rischio che, a seguito dell’inversione del ciclo economico, i flussi tendano a ridursi in misura consistente; in secondo luogo, nella gran parte dei casi, la gestione dei servizi turistici assume modalità organizzative non adeguatamente strutturate, in molti casi delegate a imprese a gestione familiare in condizioni di ‘disoccupazione nascosta’, non di rado collocate nell’economia sommersa. In tali condizioni, la domanda di lavoro si rivolge, nella gran parte dei casi, a lavoratori con basso titolo di studio o in condizioni di sottoccupazione intellettuale.

Vi sono, dunque, buone ragioni per ritenere che non possa essere questo il solo settore trainante dell’economia locale e soprattutto che non lo possa essere nelle modalità con le quali esso è oggi strutturato. Si fa riferimento, a riguardo, al paradosso per il quale “l’immagine è migliore della realtà”. L’evidenza empirica mostra che i flussi turistici seguono la sequenza esplorazione-coinvolgimento-sviluppo-consolidamento-declino, dove il declino dipende dal degrado ambientale conseguente alla crescita degli afflussi nel tempo in assenza di adeguate politiche di contrasto al deterioramento delle risorse naturali[4].

Non lascia ben sperare il fatto che, a fronte della drammaticità di questo scenario, il Presidente del Consiglio invochi il superamento della “retorica assolutoria del Sud abbandonato” se non altro perché è un’implicita ammissione del fatto che anche questo Governo il Sud lo ha abbandonato[5].

Note

[1] Si può osservare, a riguardo, che pure a fronte del fatto che i Governi degli ultimi anni hanno fatto ben poco (se non nulla) per riequilibrare i divari regionali, il Governo Renzi si segnala anche per il fatto di non avere neppure un Ministero per il Mezzogiorno o, come nel caso del Governo Monti, per la coesione sociale. E si segnala anche per il fatto che, all’atto del suo insediamento, il Presidente del Consiglio non ha mai fatto riferimento al Sud.

[2] Sul tema si rinvia a N. Kaldor (1981), The role of increasing returns, technical progress and cumulative causation in the theory of international trade and economic growth, “Economie Appliqueé”, n.4.

[3] In particolare, la corte dei conti registra che “Dalle manovre restrittive risultano maggiormente penalizzate le Regioni (…), nonché, a livello territoriale, le Amministrazioni del Mezzogiorno, con consistenti contrazioni di risorse soprattutto in conto capitale”.

[4] Si rinvia al pionieristico contributo di C.Butler (1980), The concept of a tourist area cycle of evolution, “Canadian Geographer”, XXIV, 1.

[5] Un elenco di provvedimenti di questo Governo a danno delle regioni meridionali è contenuto qui: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/un-anno-di-renzi-tra-nord-e-sud/

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Renzi, la disoccupazione giovanile e il sindacato

[“MicroMega” online del 6 ottobre 2015]

SINTESI. Il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il suo massimo storico e, tuttavia, non sembra che il problema sia oggi prioritario per l’agenda di politica economica del Governo Renzi. I provvedimenti messi in atto si stanno rivelando del tutto inefficaci e per molti aspetti controproducenti ai fini della ripresa della crescita. La politica economica seguita in questi anni, in primis la moderazione salariale e la delegittimazione del sindacato, non fa che accentuare la spirale recessiva di bassi salari e bassa produttività del lavoro nella quale è precipitata economia italiana. Ma appare funzionale a un rilevante processo di redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori.

Il tasso di disoccupazione giovanile, che riguarda individui di età compresa fra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto, nell’ultima rilevazione ISTAT di giugno, il 44,2%, in aumento di 1,9% rispetto al mese precedente, raggiungendo il livello più alto dal primo anno di stima (il 1977). La rilevazione esclude i giovani inattivi, ovvero coloro che non cercano lavoro. L’ISTAT rileva che nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione complessivo è aumentato di 0.3 punti percentuali.

A ben vedere, l’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo Governo. La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti. Molti commentatori fanno osservare che la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato  è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. E, seguendo questa interpretazione. è prevedibile che alla scadenza del periodo durante il quale le imprese potranno godere di decontribuzioni, molti contratti verranno ri-trasformati in contratti a tempo determinato. Ma soprattutto la propaganda governativa è impegnata in una tenace battaglia volta a dipingere il sindacato come una forza reazionaria, la cui azione frena la crescita.

L’aumento della disoccupazione giovanile è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin da 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. 
A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico (per la perdita di reddito dell’unità familiare) sia psicologico, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati. Non dovrebbe essere trascurato il fatto che l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità. Il punto in discussione riguarda il fatto, ben noto, che le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle. Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori che sono alla base dell’azione sindacale. In questa dinamica, ha buon gioco il Governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: la proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia.

Uno studio recente del Fondo Monetario Internazionale (http://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2015/sdn1514.pdf)  mostra che la riduzione della union density nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive. E aggiunge che le crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta, sono alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai Paesi industrializzati negli ultimi decenni (http://www.oecd.org/els/soc/Focus-Inequality-and-Growth-2014.pdf). La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile. Schematicamente, e con riferimento all’Italia, il rallentamento del tasso di crescita (a sua volta imputabile al declino della produttività del lavoro) è imputabile ai seguenti fattori.

1) Le imprese italiane, nella gran parte dei casi, sono poco propense a innovare, anche a ragione del fatto che, essendo di piccole dimensioni, non possono sfruttare economie di scala e in più sono fortemente dipendenti dal settore bancario. In una fase, come questa, di restrizione del credito, gli investimenti si riducono e, a seguire, si riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro.

2) L’invecchiamento della popolazione, per alcune mansioni, costituisce un fattore di freno alla crescita della produttività. In generale, economie nelle quali il bacino degli occupati è formato prevalentemente da individui giovani sono economie con elevato tasso di crescita: ciò a ragione dell’obsolescenza intellettuale che riguarda lavoratori con età più elevata, della maggiore propensione al consumo dei giovani (e dunque della più alta domanda interna), della maggiore ‘creatività’ (e, dunque, della maggiore propensione a innovare). Gli annunciati tagli alla sanità non potranno che esercitare ulteriori effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, dal momento che incideranno negativamente sul potenziale produttivo della forza-lavoro[1].

3) I salari percepiti dai lavoratori italiani sono al di sotto della media europea a fronte di un numero di ore lavorate superiore alla media europea. Vi è ampia evidenza empirica a sostegno della tesi secondo la quale laddove i salari sono maggiori è maggiore la produttività del lavoro. Ciò accade fondamentalmente per l’operare di due meccanismi. Sul piano microeconomico, l’aumento dei salari, combinato con minore flessibilità in uscita, incentiva le imprese a introdurre innovazioni per non perdere quote di mercato[2]. Sul piano macroeconomico, l’aumento dei salari incentiva l’aumento degli investimenti netti, con un duplice effetto di segno positivo, dal lato della domanda (essendo gli investimenti una componente della domanda) e dal lato dell’offerta, dal momento che l’ammodernamento degli impianti è una fondamentale pre-condizione per l’aumento della produttività del lavoro.

4) La precarizzazione del lavoro è un freno alla crescita della produttività, sia perché incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (e dunque non innovando)[3] sia perché, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, rende necessario un maggior impegno del management in attività di controllo e sorveglianza, per loro natura improduttive, disincentivando l’impegno per la produzione di innovazioni[4].

I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno provato a contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile con queste misure:

a) L’alternanza scuola-lavoro. Si tratta di una misura che risponde all’esigenza di dequalificare la forza-lavoro, assecondando la domanda di lavoro poco qualificato espressa dalla gran parte delle nostre imprese: imprese, salvo rare eccezioni (soprattutto nel comparto dei macchinari), di piccole dimensioni, poco innovative che operano in settori “maturi” (agroalimentare e Made in Italy in primis)[5]. Peraltro i programmi di apprendistato già sperimentati hanno prodotto effetti pressoché nulli.

b) Le incentivazioni offerte alle imprese che assumono giovani. E’ bene chiarire che, anche in questo caso, non si tratta uno strumento efficace per incentivare le imprese ad assumere e, soprattutto, non è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione giovanile. Ciò a ragione del fatto che le imprese assumono se le loro aspettative in ordine alla realizzazione di profitti sono ottimistiche e ciò, di norma, accade quando ci si aspetta un aumento della domanda.

c) La promozione dell’auto-imprenditorialità In questo caso, è possibile riscontrare un duplice problema: la difficoltà di accesso a finanziamenti per l’avvio dell’impresa (pure a fronte di incentivi pubblici nella fase iniziale) e verosimilmente i bassi profitti che una nuova impresa può aspettarsi di ottenere in una fase di intensa e prolungata recessione[6].

[7]Si tratta di provvedimenti la cui ratio risiede, in ultima analisi, nel dequalificare la forza-lavoro e renderla disponibile a bassi salari. Affinché ciò si renda pienamente possibile, è necessario ridurre ulteriormente il potere contrattuale del sindacato. La figura 1 stabilisce che la riduzione della union density e dunque del potere contrattuale del sindacato si è tradotta, nei Paesi OCSE, in un significativo aumento dei redditi percepiti dal 10% delle famiglie con più alto reddito. L’Italia è ovviamente all’interno di questa dinamica, ma con una propria specificità, ovvero il fatto che, rispetto alla media europea, il numero di iscritti al sindacato è ancora relativamente elevato. Letto in questa chiave, il fondamentale compito del Governo Renzi consiste nell’impedire qualunque forma di conflittualità sociale e di resistenza organizzata, incentivando i giovani disoccupati all’autoimprenditorialità e passando a un sistema di relazioni industriali di tipo ‘atomistico’, vincolando l’intermediazione del sindacato. In tal senso, è un compito che deve accentuare, per l’economia italiana, il processo di redistribuzione del reddito a vantaggio dei più ricchi (percettori di rendite finanziarie e di redditi da capitale) già intensamente in atto in altri Paesi[8]. Un processo di redistribuzione della ricchezza che sembra prioritario rispetto all’obiettivo della crescita e che si rende possibile per l’accresciuto potere politico delle nuove classi agiate.

Note

[1] L’ISTAT, a riguardo, calcola che oltre il 10% della popolazione italiana non ha effettuato spese, nell’ultilo anno, per cure sanitarie.

[2] V., fra gli altri, G. Forges Davanzati e A. Pacella, Minimum wage Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, vol.XXII, n.1, pp.179-194.

[3] V. P.Pini, Più precari, meno produttivi, Micromega on-line, 31 marzo 2014

[4] Sul tema si rinvia a A.Kleinknecht, Z.Kwee and L.Budyanto, Rigidities trough flexibility: flexible labour and the rise of management bureaucracy, “Cambridge Journal of Economics”, 2015, pp.1-11.

[5] Sul tema si rinvia a G.Forges Davanzati, La scuola che piace a Confindustria, Micromega on-line, 22 maggio 2015.

[6] Un importante contributo sul “mito” dell’autoimprenditorialità è stato offerto da M.E.Gerber, The E Mith, HarperCollins Publisher, 2001.

[7] Tratto da F. Jaumotte and C. Osorio Buitron in IMF “Finance & Development”, March 2015, Vol. 52, No1.

[8] V. http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/09/28/carlo-formenti-%E2%80%9Cbasta-sindacati%E2%80%9D-il-manifesto-neoliberista-del-%E2%80%9Ccorriere%E2%80%9D/

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Quando si delegittima il sindacato…

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 ottobre 2015]

Il tasso di disoccupazione giovanile, che riguarda individui di età compresa fra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto, nell’ultima rilevazione ISTAT di giugno, il 44,2%, in aumento di 1,9% rispetto al mese precedente, raggiungendo il livello più alto dal primo anno di stima (il 1977). La rilevazione esclude i giovani inattivi, ovvero coloro che non cercano lavoro. L’ISTAT rileva che nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione complessivo è aumentato di 0.3 punti percentuali, e l’aumento è stato maggiore nelle regioni meridionali.

A ben vedere, l’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo Governo. Il Governo è prevalentemente concentrato nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti. Molti commentatori fanno osservare che la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato  è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. E, seguendo questa interpretazione. è prevedibile che alla scadenza del periodo durante il quale le imprese potranno godere di decontribuzioni, molti contratti verranno ri-trasformati in contratti a tempo determinato. Ma soprattutto la propaganda governativa è impegnata in una tenace battaglia volta a dipingere il sindacato come una forza reazionaria, la cui azione frena la crescita.

L’aumento della disoccupazione giovanile è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia fin dal 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. 
A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico (per la perdita di reddito dell’unità familiare) sia psicologico, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati. Non dovrebbe essere trascurato il fatto che l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità. Il punto in discussione riguarda il fatto, ben noto, che le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle. Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori che sono alla base dell’azione sindacale. In questa dinamica, ha buon gioco il Governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: la proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia.

I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni (e, da ultimo, il governo Renzi) hanno provato a contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile con queste misure:

a) L’alternanza scuola-lavoro. Si tratta di una misura che risponde all’esigenza di dequalificare la forza-lavoro, assecondando la domanda di lavoro poco qualificato espressa dalla gran parte delle nostre imprese: imprese, salvo rare eccezioni (soprattutto nel comparto dei macchinari), di piccole dimensioni, poco innovative che operano in settori “maturi” (agroalimentare e Made in Italy in primis). Peraltro i programmi di apprendistato già sperimentati hanno prodotto effetti pressoché nulli.

b) Le incentivazioni offerte alle imprese che assumono giovani. E’ bene chiarire che, anche in questo caso, non si tratta uno strumento efficace per incentivare le imprese ad assumere e, soprattutto, non è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione giovanile. Ciò a ragione del fatto che le imprese assumono se le loro aspettative in ordine alla realizzazione di profitti sono ottimistiche e ciò, di norma, accade quando ci si aspetta un aumento della domanda.

c) La promozione dell’auto-imprenditorialità In questo caso, è possibile riscontrare un duplice problema: la difficoltà di accesso a finanziamenti per l’avvio dell’impresa (pure a fronte di incentivi pubblici nella fase iniziale) e verosimilmente i bassi profitti che una nuova impresa può aspettarsi di ottenere in una fase di intensa e prolungata recessione.

Si osservi che queste misure sono basate sulla convinzione che il mercato del lavoro funziona meglio se la contrattazione è ‘atomistica’, ovvero se si svolge in assenza dell’intermediazione sindacale. Si tratta di un punto dirimente per comprendere la logica dell’”attacco” al Sindacato che si sta consumando in questi mesi. E, tuttavia, vi sono solidi argomenti per ritenere che si tratta di una strategia sbagliata, ai fini della ripresa economica e dell’aumento dell’occupazione.

Uno studio recente del Fondo Monetario Internazionale mostra che la riduzione del potere contrattuale del sindacato nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive. E aggiunge che le crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta, sono alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai Paesi industrializzati negli ultimi decenni.  La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile. Si tratta, con ogni evidenza, di una spirale perversa che occorrerebbe semmai contrastare con misure di redistribuzione del reddito e di rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori, che, tuttavia, sembrano del tutto estranee alle linee di politica economica oggi dominanti, peraltro con forte accentuazione in Italia rispetto ai principali Paesi OCSE.

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Il fenomeno dei NEET

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 novembre 2015]

Pare essere convinzione diffusa, stando ai principali media italiani, il fatto che l’occupazione sia aumentata e che, più in generale, l’economia italiana si stia muovendo su un sentiero di crescita che riguarderebbe anche il Mezzogiorno.  A ben vedere, le cose non stanno esattamente in questi termini. Vediamo perché, con particolare riferimento al mercato del lavoro. Secondo le ultime rilevazioni ISTAT dello scorso settembre, il numero dei disoccupati si è ridotto di 35.000 unità. In termini assoluti, si tratta di una contrazione di entità analoga a quella degli occupati (- 36.000). In termini percentuali, il calo dei disoccupati (- 11,2%) risulta più significativo di quello degli occupati (-0,2%), dal momento che il numero dei disoccupati risulta inferiore a quello degli occupati. La riduzione del tasso di disoccupazione è quindi di entità irrisoria, pari circa allo 0.1%: dall’11,9% di agosto all’11,8% di oggi. Vi è di più. Il mercato del lavoro italiano, molto più di quanto accade in altri Paesi europei, si caratterizza per una consistente presenza di individui inattivi (i c.d. NEET), ovvero di individui che non sono alla ricerca di lavoro e non studiano. L’inattività riguarda prevalentemente individui giovani, nella fascia d’età compresa fra i 15 e i 29 anni, in molti casi con un livello di istruzione elevato. Si tratta, con ogni evidenza, di uno dei principali problemi che il Governo dovrebbe affrontare, dal momento che l’esistenza di un’ampia platea di giovani disoccupati è uno dei principali fattori di freno alla crescita. Il fenomeno dei NEET è imputabile a numerosi fattori, fra i quali, soprattutto nel caso italiano e ancor più meridionale, l’esistenza di effetti di ‘scoraggiamento’ derivanti da aspettative pessimistiche circa le probabilità di trovare impiego, e di trovarlo con retribuzioni dignitose e con mansioni coerenti con il titolo di studio acquisito. In altri termini, a fronte della retorica dei ‘bamboccioni’, i giovani italiani inattivi sono tali anche per motivazioni che possono essere considerate di pura razionalità economica.

Le aspettative pessimistiche sulla probabilità di trovare impiego trovano infatti un fondamento nella realtà dei fatti e, in più, si autoalimentano. Con un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 40% è molto ragionevole attendersi che i costi monetari e di tempo per cercare lavoro superino notevolmente i benefici. Le aspettative tendono inoltre a peggiorare per effetti di apprendimento, in una spirale che appunto di autoalimenta: la ripetizione di tentativi di ricerca di lavoro fallimentari rinforza la convinzione che cercare lavoro è solo un costo. In questo scenario, appare ragionevole ritenere che gli effetti di ‘scoraggiamento’ siano tanto più intensi quanto più ci si aspetta un lavoro precario, sottopagato, con mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla competenze acquisite. Non appare dunque casuale il fatto che l’esplosione del fenomeno sia stata particolarmente intensa in Italia, ovvero nel Paese, fra quelli OCSE, che, nel corso degli ultimi decenni, ha dato la massima accelerazione alle politiche di precarizzazione del lavoro, nel quale sono state più intense le misure di moderazione salariale e nel quale è relativamente minore la domanda di lavoro altamente qualificato. Come certificato dall’OCSE, l’Italia è il Paese nel quale si sono maggiormente ridotte le tutele del lavoro dipendente, con una contrazione dell’indice di protezione del lavoro (EPL – Employment Protection Legislation) circa pari al 40%. Più in dettaglio, l’OCSE quantifica la protezione del lavoro a tempo indeterminato, misurata dall’indice EPRC, che comprende quattro set di indicatori relativi ai vincoli procedurali e temporali, al livello degli indennizzi, alla difficoltà di licenziare, alla disciplina del reintegro, alla disciplina dei licenziamenti collettivi. La protezione del lavoro a termine è misurata dall’indicatore EPT, che considera il grado di protezione dei lavoratori con contratti a termine e la disciplina che appartiene alle agenzie interinali. Tanto minori risultano i due indicatori EPRC e EPT tanto più basso risulterà ovviamente l’indice generale di protezione del lavoro. Occorre osservare, a riguardo, che il Jobs Act non contrasta il problema, fondamentalmente a ragione del fatto che, a legislazione vigente, non verranno abolite le principali tipologie contrattuali ‘flessibili’ delle quali le imprese italiane si sono fin qui avvalse e delle quali continuano ad avvalersi. Peraltro, come è stato osservato, l’aumento dell’occupazione imputabile alla “riforma” del mercato del lavoro deriva non dalle nuove norme, ma dagli sgravi fiscali temporanei assegnati alle imprese che assumeranno lavoratori con contratti a tutele crescenti. Una volta terminati gli sconti, è ragionevole prevedere una riconversione dei contratti in rapporti di lavoro nuovamente precari. A ciò va aggiunto che, considerando che la specializzazione produttiva italiana (e ancor più meridionale) è sempre più caratterizzata da una crescente incidenza del settore turistico, le variazioni del tasso di occupazione dipendono in modo significativo dalla capacità di attrazione turistica del nostro territorio, dando luogo a un peso crescente del lavoro stagionale, e dunque del lavoro precario.

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Il capitalismo delle diseguaglianze e del debito

[“MicroMega online del 6 novembre 2015]

SINTESI. Due “fatti stilizzati” sono propri del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l’esplosione del debito pubblico su scala globale. Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che è proprio la diseguaglianza a generare crescente indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del carico fiscale, crescenti diseguaglianze distributive. Le misure di politica economica adottate per ridurre il debito (le c.d. politiche di austerità), in particolare nell’Unione Monetaria Europea, non hanno prodotto e non producono altri effetti se non generare esiti esattamente opposti a quello desiderati e soprattutto peggiorano ulteriormente la distribuzione del reddito.

 Due “fatti stilizzati” sono propri del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l’esplosione del debito pubblico su scala globale[1]. Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che, come si proverà a mostrare, è proprio la diseguaglianza a generare crescente indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del carico fiscale, crescenti diseguaglianze distributive.

Sul piano empirico, l’OCSE rileva un significativo aumento dell’indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni, in particolare a partire dal 2007 (http://www.oecd.org/social/income-distribution-database.htm). Al tempo stesso, come mostrato in Fig.1, si registra un continuo aumento del debito pubblico su scala globale.

L’aumento delle diseguaglianze distributive riduce il tasso di crescita fondamentalmente attraverso due canali, che operano rispettivamente sulla domanda aggregata e dal lato dell’offerta.

a) Dal lato della domanda. La riduzione della quota dei salari sul Pil determina una caduta dei consumi e, a parità di investimenti pubblici e privati, della domanda aggregata e del tasso di crescita. L’effetto è amplificato dal fatto che, di norma, le famiglie con più basso reddito esprimono una propensione al consumo maggiore di quelle con redditi più elevati. Vi è poi un nesso fra dinamica dei consumi e dinamica degli investimenti, dal momento che la compressione dei consumi, derivante dalla riduzione dei salari, tende a disincentivare gli investimenti privati, con effetti, anche in questo caso, di segno negativo sulla domanda aggregata[2].

b) Dal lato dell’offerta. La riduzione dei salari (e del costo di tutela dei diritti dei lavoratori da parte delle imprese) pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività[3]. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica. Primo: la riduzione della domanda interna (imputabile, in primis, alla caduta dei salari e, dunque, dei consumi), in quanto riduce i mercati di sbocco, riduce i profitti monetari, a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno[4], con conseguente compressione degli investimenti e del tasso di crescita della produttività del lavoro. Secondo: la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e ne accresce il grado di dipendenza dal settore bancario. La compressione dei margini di profitto, in quanto accresce il rischio di insolvenza, induce le banche a ridurre l’offerta di credito generando, anche per questa via, riduzione degli investimenti e della produttività.

Con ogni evidenza, la moderazione salariale in atto, mentre può generare crescita attraverso un aumento delle esportazioni per un singolo Paese, non può generare questo effetto su scala globale, essendo il commercio internazionale un gioco a somma zero[5].

Sono due i principali canali attraverso i quali la crescita delle diseguaglianze contribuisce a generare incrementi del debito: i) in quanto la crescita delle diseguaglianze è anche associata ad aumenti del tasso di disoccupazione, ciò genera un aumento della spesa pubblica per i c.d. stabilizzatori automatici (in primis, i sussidi di disoccupazione); ii) la crescita delle diseguaglianze è associata a un aumento del potere politico del capitale con conseguente riduzione dell’imposizione fiscale sui profitti[6]. Dunque, maggiori diseguaglianze distributive tendono ad associarsi a maggiori spese di ‘legittimazione’ del sistema (ovvero spese finalizzate a preservare la coesione sociale) e a minori entrate fiscali derivanti dal pagamento delle imposte da parte di famiglie con redditi elevati. E da ciò segue che la crescita delle diseguaglianze distributive, riducendo il tasso di crescita, contribuisce ad accrescere l’indebitamento pubblico[7].

Le misure di politica economica adottate per ridurre il debito (le c.d. politiche di austerità), in particolare nell’Unione Monetaria Europea, non hanno prodotto e non producono altri effetti se non generare esiti esattamente opposti a quello desiderati e soprattutto peggiorano ulteriormente la distribuzione del reddito, soprattutto nei Paesi periferici dell’Eurozona, per le seguenti ragioni.

1) La riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell’onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell’onere degli interessi.

2) La riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda interna, contribuisce ad accrescere il tasso di disoccupazione, a ridurre conseguentemente il tasso di crescita e ad accrescere il rapporto debito pubblico/Pil. Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, a ragione del fatto alquanto ovvio che una forza-lavoro poco istruita e con difficile accesso a cure sanitarie è potenzialmente poco produttiva. E anche per questa via, minore spesa può implicare più debito[8].

A ragione di questi meccanismi, le politiche di austerità hanno di fatto contribuito a far aumentare il rapporto debito pubblico/Pil, rendendo necessario l’aumento della pressione fiscale.

Nell’impossibilità di “monetizzare” il debito, l’accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. La monetizzazione del debito, resa impossibile dai Trattati europei, consiste nell’acquisto diretto da parte della Banca Centrale di titoli di Stato, ovvero nello “stampare moneta”. Occorre chiarire che la ripartizione dell’onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema. In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque lecito aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici) venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale “la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell’alta finanza [è] l’indebitamento continuamente crescente dello stato”. In altri termini, una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro genera una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nell’arena politica e, dunque, la loro sostanziale impossibilità di modificare a loro vantaggio le scelte di politica economica[9].

In questo scenario, le diseguaglianze distributive tendono ad autoalimentarsi. Le misure di austerità, da un lato, accrescono il tasso di disoccupazione e, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori, riducono la quota dei salari sul Pil; l’aumento del debito pubblico che ne consegue si traduce nella necessità di reperire risorse tramite tassazione, prevalentemente a danno del lavoro dipendente.

Da cui una seconda conclusione: le politiche finalizzate a ridurre il debito (in quanto si associano a un aumento della tassazione sui redditi più bassi e, dunque, a maggiore diseguaglianza distributiva) determinano un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria. Come scriveva Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: “L’indebitamento dello stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio og­getto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, man­tenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”.

Note

[1] V. W. Streek, The Politics of Public Debt, Max-Planck-Institute, discussion paper 13/7, 2013.

[2] Ciò sia a ragione dell’operare di effetti di accelerazione, sia perché una bassa domanda peggiora le aspettative imprenditoriali. V. N.Kaldor, A model of economic growth, “The Economic Journal”, vol.67, n.268, December: 591-624, 1957. Occorre chiarire che l’effetto qui descritto configura una modalità di crescita trainata da aumenti salariali (wages-led) che può non verificarsi se l’aumento dei salari riduce i margini di profitto e gli investimenti, come nel caso di modelli di crescita trainati dai profitti (profits-led regime). La letteratura su questi argomenti è estremamente vasta: qui si rinvia al pionieristico contributo di A. Bhaduri, A. and S. Marglin, S.,. Unemployment and the real wage: The economic basis for contesting political ideologies, “The Cambridge Journal of Economics”, 14, pp.375-393, 1990.

[3] V. A.K. Dutt, Distributional dynamics in Post-Keynesian growth models, “Journal of PostKeynesian  Economics”, 34(3), Spring: 431-51, 2012.

[4]. A ciò si può aggiungere che la compressione dei salari costituisce una concausa della deflazione in corso. V. G.Forges Davanzati, Attenti alla deflazione. E a come la si vuol fermare, Micromega on line, 29 agosto 2014.

[5] Sul tema si rinvia a O Onaran, and G. Galanis. Income distribution and aggregate demand: A global Post-Keynesian model, “PostKeynesian Economics Study Group”, working paper n.1304, 2013.

[6] A ciò si può aggiungere l’aumento delle spese militari su scala globale.

[7] V. J. Gladney, La bassa crescita fa aumentare il debito pubblico, “Keynesblog”, 6 maggio 2013.  La relazione fra crescita economica e dinamica del debito pubblico è oggetto di un ampio dibattito, che ruota intorno all’individuazione dei nessi di causalità (ovvero se è una bassa crescita a “causare” aumenti del debito o viceversa). In questa sede, ci si può limitare a rinviare a J.E. Stiglitz, Il prezzo delle diseguaglianze, Giulio Einaudi Editore, 2014.

[8] L’apparente paradosso dell’aumento del debito con riduzioni di spesa può essere anche spiegato alla luce di una duplice considerazione. In primo luogo, i tassi di interesse sui titoli  di Stato vengono mantenuti elevati per attrarre capitali speculativi con l’obiettivo di mantenere in pareggio la bilancia dei pagamenti, a fronte dei deficit di partite correnti dovuti alla scarsa competitività internazionale delle nostre imprese.  In secondo luogo, gioca qui un ruolo cruciale l’elevata evasione fiscale, dal momento che impedisce recuperi di gettito di entità tale da consentire più agevolmente di ripagare il debito. Più in generale, con particolare riferimento al caso italiano, va osservato che gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato (al netto di variazioni congiunturali) sono, in ultima analisi, imputabili a una dinamica di lungo periodo di costante riduzione della domanda interna connessa a una costante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.

[9] Cfr. W. Korpi, Power resources approach vs action and conflict: On causal and intentional explanations in the study of power. Power resources theory and the welfare state, in «Power resource theory and the welfare state, 1998», pp. 37-69.

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Dignità e reddito nella Puglia di Emiliano

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 novembre 2015]

Ben vengano, ovviamente, per ragioni di equità, 600 euro al mese per sessantamila famiglie pugliesi al di sotto della soglia di povertà, come disposto nella misura sul reddito di dignità (denominato RED) della Giunta Emiliano. Ma forse si poteva fare di meglio. Non è qui soltanto in discussione la critica al provvedimento rivolta dai consiglieri del Movimento 5stelle, per la quale la misura è principalmente finanziata con tagli all’assistenza per i disabili, ma è qui in discussione soprattutto l’efficacia del provvedimento rispetto all’obiettivo di crescita dell’occupazione (soprattutto giovanile) nella Regione.

Innanzitutto va ricordato che l’erogazione ha durata annuale e che l’importo per singola famiglia dipende dal reddito, dalla condizione di disoccupazione, dalla numerosità dei componenti dell’unità familiare. Ed è condizionato all’accettazione di un’offerta di posto di lavoro”congruo” rispetto alle competenze dei beneficiari.

Il provvedimento presenta due criticità.

1) In primo luogo, nonostante le dichiarazioni del Governatore, rischia di tradursi in una misura assistenzialistica che, paradossalmente, non ha nulla a che vedere con la dignità dei beneficiari. Se si accetta l’idea che la dignità è nel lavoro, sarebbe stato semmai più opportuno ipotizzare interventi diretti dell’operatore pubblico come “datore di lavoro” di ultima istanza. In una condizione nella quale la domanda di lavoro proveniente dal settore privato è in riduzione, dovrebbe essere semmai l’Ente regionale a farsi carico di assumere. Le misure di contrasto alla povertà, in questa accezione, passano innanzitutto attraverso misure di contrasto alla disoccupazione, declinate sotto forma di aumento della domanda di lavoro nel settore pubblico.

2) In secondo luogo, non sono chiari (né prevedibili) gli effetti del provvedimento sulla crescita della domanda interna. L’attuazione del RED in una sola Regione rischia di generare effetti pressoché nulli sulla crescita della domanda interna e, dunque, sull’occupazione. Ciò a ragione del fatto che, anche assumendo che i beneficiari destinino le risorse aggiuntive prevalentemente per incrementi di consumi (ovvero non li destinino a risparmi per ragioni precauzionali), è ben difficile attendersi che quei consumi siano destinati interamente a produzioni interne. Se ciò non accade, e non vi è nessuna ragione cogente per prevedere che ciò accada, gran parte dei fondi stanziati dalla Regione Puglia rischia di tradursi in un aumento delle importazioni da altre aree del Paese, con conseguente riduzione della domanda interna. Si genererebbe un esito paradossale per il quale la Regione Puglia, in via indiretta, contribuirebbe a finanziare imprese operanti altrove e, in più, per il calo della domanda interna, si troverebbe anche un minor gettito fiscale con il quale eventualmente rifinanziare il RED.

In altri termini, si può ragionevolmente affermare che trasferimenti monetari a famiglie indigenti, sotto forma di reddito di dignità e di cittadinanza, possono risultare efficaci per l’aumento dell’occupazione (e, dunque, per la fuoriuscita non temporanea da una condizione di povertà estrema) se coordinate, ovvero se attuate a livello centrale, in un contesto di politiche fiscali espansive.

Il problema, in questo caso, è che il Governo si muove in una direzione esattamente opposta, lungo le linee delineate dalla commissione europea. Ovvero lungo un sentiero di moderazione salariale funzionale alla ripresa della crescita per il tramite di un aumento delle esportazioni. La linea di politica economica in atto è infatti basata sulla convinzione che la compressione dei salari, attraverso misure di indebolimento del potere contrattuale dei sindacati, metta le nostre imprese nella condizione di accrescere la loro competitività di prezzo nei mercati internazionali, con presunti effetti di segno positivo sulla domanda aggregata, l’occupazione e la crescita. In questa prospettiva, l’erogazione di un reddito di dignità è da escludere del tutto per due ragioni. Innanzitutto, perché rafforzerebbe il potere contrattuale dei lavoratori, che potrebbero contare su un sussidio statale in caso di perdita del posto di lavoro. In secondo luogo, e soprattutto, il reddito di dignità produrrebbe un aumento della domanda interna con conseguenti possibili aumenti delle importazioni: esattamente ciò che il Governo intende scongiurare.

E’ probabile che la scelta della Giunta Regionale sia prevalentemente dettata da ragioni di ordine puramente politico che attengono alla dialettica interna al PD. Ma, in ogni caso, a fronte dell’inerzia dei Governi che si sono succeduti negli ultimi anni sulle politiche di contrasto alla povertà, ben venga la scelta del Governatore Emiliano. Al netto dei possibili effetti collaterali del provvedimento, essa si muove su una direzione di rispetto della dignità umana e di recupero del senso di giustizia distributiva che ha valore in quanto tale, e che risulta purtroppo incompatibile con l’attuale modello di sviluppo e con le politiche economiche che lo assecondano.

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