L’arroganza che porta a fare a meno dell’esperienza

Non si attribuisce valore all’esperienza degli altri. Anzi, a volte l’esperienza degli altri  infastidisce, annoia, si pensa che faccia  perdere tempo, che distolga dall’impegno che richiede il cammino. Si presume di poter fare tutto da soli, che non occorrano i riferimenti alle cose fatte bene e agli errori già commessi. Forse perché si suppone di essere migliori, di non poter sbagliare, di possedere la conoscenza, la competenza, l’abilità di attraversare il ponte. Così si procede con la presunzione di fare meglio di quanto altri siano riusciti a fare, ignorando che quello che appare esclusivo e nuovo,  molto spesso è vecchio quanto basta ed abbastanza comune.

Poi in qualche caso accade che un’asse non tenga. Guardandosi intorno ci si rende conto che in qualche caso accade. Guardandosi intorno si potrebbero rintracciare prove in ogni contesto del sociale.   

Ma una società, una civiltà, senza esperienza si destina inevitabilmente alla condizione della superficialità. Perché non può contare su quella stratificazione di concetti e di significati che consente di avere conoscenza e consapevolezza della Storia, delle cause, dei motivi, dei moventi da cui sono determinate le situazioni del presente con cui ci si ritrova a confrontarsi, degli effetti che quelle situazioni possono produrre, delle soluzioni ai problemi che si possono trovare.

Una società, una civiltà, che rifiuta il patrimonio dell’esperienza è costretta ad improvvisare giorno per giorno, problema per problema, i modi con i quali ricucire gli strappi, senza potersi concedere il privilegio di progettare, di pensare alla costruzione di nuove espressioni culturali, di strutture semantiche sulle quali affidare un nuovo pensiero. Le soluzioni improvvisate, quelle che non fanno riferimento all’esperienza, non sono mai durature.   

Per poter andare avanti è necessario saper guardare indietro. Ogni progresso è una derivazione, una conseguenza del passato. Quindi dell’esperienza. Sempre. Quando si improvvisa la soluzione di un problema, prima o poi il problema si ripresenta, a volte anche in maniera prepotente, aggressiva; accerchia, pone l’assedio, impone la resa senza condizioni. 

A volte si ha necessità, o soltanto desiderio, di correre, per esempio, di rendere più rapidi i processi. Uno che di correre se ne intendeva e che si chiamava Ayrton Senna diceva che quando pensi di avere un limite, provi a toccare quel limite. A un certo punto accade qualcosa e immediatamente riesci a correre un po’ più forte: te lo permette il potere della tua mente, la tua determinazione e la tua esperienza. Già: l’esperienza. Perché la tua mente può spingerti ad aumentare la velocità e la determinazione può assecondare la tua mente, ma se non hai esperienza di cosa vuol dire e di come si fa a correre a 299 chilometri l’ora non puoi pensare di poter correre a 300.

Il criterio che vale per l’esperienza soggettiva, vale anche per quella collettiva, per quella di una società, di una civiltà.

Altri hanno attraversato il ponte prima di coloro che si apprestano ad attraversarlo. Hanno fatto esperienza di quanto tengano o non tengano le assi; hanno fatto esperienza dell’incertezza, del vuoto che si spalanca sotto i piedi, della paura che annoda il respiro. Molto spesso hanno raccontato la loro esperienza dell’incertezza, del vuoto, della paura, e del sollievo che hanno provato quando l’attraversamento si è concluso, quando hanno messo i piedi sulla terraferma.

Forse è dal racconto della loro esperienza che chiunque si ritrova ad attraversare il ponte deve cominciare. Da quella che è conoscenza, perchè il racconto porta sempre conoscenza. Se invece arrogantemente  si pensa di poterne fare a meno, se si pensa che la memoria di quello che è stato non abbia senso e non abbia funzione, allora si deve necessariamente mettere in conto che un’asse possa non tenere e che si precipiti nel vuoto, irrimediabilmente.    

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 17 gennaio 2021]

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