Di mestiere faccio il linguista 33. Se “furbetto” è un eufemismo

Il valore traslato, ironico o censurabile, è evidente nell’espressione «furbetti del cartellino» da cui abbiamo preso le mosse. A partire dai media, nel lessico italiano contemporaneo l’aggettivo «furbetto» è usato con valenze in chiaro contrasto con il significato originario. La realtà dei fatti ne risulta travisata ed edulcorata, ne ricaviamo un’impressione non rispondente a quella effettiva, le cose non vengono qualificate con il nome che parrebbe opportuno: atti fortemente riprovevoli assumono un connotato eufemistico, scherzoso e giocoso, quasi la marachella di un bambino che ruba una caramella dalla dispensa di famiglia. L’espressione «furbetti del quartierino» (analoga a furbetti del cartellino) è usata nel linguaggio giornalistico per indicare uomini d’affari spregiudicati, che aggirano le difficoltà e le regole del mondo finanziario in modo fraudolento. Si tratta di un’espressione idiomatica nata nel gergo romanesco a partire dal 2006. Fu usata da Stefano Ricucci per riferirsi alle banche estere che in quel periodo tentavano la scalata a due banche italiane; secondo il parere di Ricucci il comportamento di tali banche estere era simile a quello dei furbi malavitosi dei quartieri di Roma, riuniti in bande per organizzare scorrerie poco lecite. I giornalisti ribaltarono l’utilizzazione di questa frase, identificando i furbetti di quartiere proprio in Ricucci e i suoi affiliati, poi indagati e condannati per frode e truffa. Oggi ormai, genericamente, con questa espressione si identificano individui arroganti e pieni di sé, che si comportano illegalmente disprezzando ogni regola. Ne risulta qualificato il comportamento di figure che nascondono le proprie intenzioni per vantaggi personali.

L’uso traslato e figurato del termine furbetto prende sempre più piede. Una decina di mesi fa, all’inizio della terribile pandemia che attanaglia le vite di tutti noi, nel periodo del confinamento obbligatorio, furono definiti «furbetti della passeggiata» coloro che violavano con mille pretesti il divieto di uscire immotivatamente da casa per impedire il diffondersi del contagio (come invece poi purtroppo è avvenuto). Di fronte alle misure, necessarie per il bene collettivo, molti non se ne davano per intesi, con mille scuse: «vado a giocare la schedina», «la mia ragazza mi ha cacciato di casa», «se non faccio due passi non riesco a dormire», «sono andato a comprare il pane nell’altro comune perché lì è più buono», «vado a far la spesa in quel supermercato lontano venti kilometri perché mi scadono i punti-premio che ho accumulato», «voglio andare a vedere dove è la casa di Vasco Rossi», si leggeva in una lista di assurde giustificazioni fornite ai carabinieri da chi violava le regole stabilite per il bene di tutti. Ignorando che la rivendicazione esasperata di un presunto diritto individuale alla liberta di spostarsi a proprio piacimento non può mai prevalere sul dovere di sottomettersi all’inderogabile interesse collettivo.  

La tendenza alla coniazione di nuove espressioni modellate in maniera identica non si arresta. Una parte della trasmissione «Non è L’Arena» condotta da Massimo Giletti, il 17 gennaio, era dedicata ai «furbetti del vaccino». In Sicilia, appena tornata zona rossa, a quanto pare ci sono persone che pretendono illegalmente di essere vaccinate, a scapito di coloro che ne avrebbero diritto. Il «Nuovo Quotidiano» del 22 gennaio, in prima pagina, titola: «ASL, caccia ai furbetti del vaccino»; e spiega: «Verifiche in corso su una fiala sparita e su diversi dipendenti amministrativi a cui sarebbe stata iniettata la dose “abusivamente”». E il 26 gennaio, in prima pagina: «Vaccini, si indaghi sui furbetti». In questi tempi di pandemia assistiamo a spettacoli indecorosi, la crisi fa emergere gli egoismi e forse ci rende peggiori (l’ottimismo di chi ha affermato che la crisi ci avrebbe reso migliori appare infondato). Mi colpisce la lettera scritta dalla vicepresidente e nuova assessora lombarda, Letizia Moratti, per chiedere al commissario all’emergenza Arcuri più vaccini per la sua regione. Nella lettera la signora Moratti chiede che, data la penuria di vaccini (accentuata dalla decisione della Pfizer, che ha ridotto la quantità di vaccini originariamente prevista per l’Italia e per l’intera Europa), tra i criteri per distribuirli alle diverse regioni si tenga conto del PIL, il prodotto interno lordo, cioè il valore, a prezzi di mercato, di tutti i beni e i servizi prodotti dalle diverse regioni. Chi ha il PIL maggiore, chi produce di più, dovrebbe ricevere una quantità maggiore di vaccini. La signora Moratti sostiene che una Lombardia che si vaccini prima delle altre regioni (anche se non ne avrebbe diritto, in base a una distribuzione rapportata al numero degli abitanti) può riattivarsi e rimettersi all’opera precocemente, con vantaggi per tutto il Paese.

Dimenticando che dovrebbe essere curata con criteri paritari l’intera popolazione italiana, non è possibile parametrare la cura in base alla ricchezza e all’“importanza” (presunta) del territorio. Dimenticando, inoltre, che una distribuzione sperequata farebbe aumentare il numero dei morti nelle regioni sfavorite in base al PIL, le quali sarebbero ingiustamente private della dose che toccherebbe alle stesse, in base a una distribuzione del vaccino proporzionata alla popolazione. Estremizzando il ragionamento della signora Moratti, i senzatetto, i poveri, i pensionati e gli invalidi non dovrebbero ricevere il vaccino, quelli con entrate più alte dovrebbero invece beneficiarne prima di altri. L’eugenetica in base al reddito. Ma che nazione siamo diventati? Nessuno si indigna? Perché i cari politici che blaterano su tutto sono silenti? Vorrei che qualcuno dicesse: «Mi impegno a vigilare su una distribuzione corretta e senza favoritismi del vaccino, secondo criteri equi e trasparenti». E alle parole facesse seguire i fatti.

Non parliamo più di «furbetti del vaccino». Autentici criminali da punire esemplarmente, altro che furbetti. Definire «furbetti» coloro che avanzano pretese intollerabili (venire meno ai propri doveri di lavoro, organizzare illecitamente scalate bancarie, chiedere privilegi ostacolando l’inalienabile diritto collettivo alla salute, in generale adottare comportamenti torbidi per vantaggi personali o dei gruppi che si pretende di rappresentare) è la traduzione in termini linguistici di un fenomeno gravissimo. Con la scelta di certe parole la lingua fotografa la decadenza di una società che accetta comportamenti miopi ed egoisti e, a volte, addirittura sembra applaudire agli stessi.

                                           [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 31 gennaio 2021]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (quarta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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