Di mestiere faccio il linguista 36. Lingua e dialetti

Anche la Rai, le cui trasmissioni iniziarono il 3 gennaio del 1954, fece la propria parte. Trasmissioni d’intrattenimento, rielaborazioni televisive di grandi romanzi, lettura pacata di telegiornali, diffusero in tutti gli angoli del paese un italiano semplice e poco variato, in grado di costituire un modello facile da apprendere e da imitare. Non urla, volgarità e pettegolezzi (come molta televisione dei nostri giorni), ma soprattutto informazione garbata e divulgazione culturale. Dal 1959 al 1968 il maestro Manzi, un signore affabile, bravissimo a scrivere alla lavagna con i gessetti, ha insegnato a leggere e scrivere a oltre un milione di italiani adulti analfabeti: «Non è mai troppo tardi» si intitolava la trasmissione del maestro Manzi, che teneva incollati davanti allo schermo operai rientrati dal lavoro e casalinghe, uniti dal desiderio di saper usare un po’ meglio la lingua nazionale.

Passo dopo passo, per la prima volta nella nostra storia, siamo diventati un paese linguisticamente unito: ci esprimiamo correntemente in italiano (spesso in maniera faticosa e incerta, possiamo migliorare) ma (nello stesso tempo) non abbiamo rinunziato al dialetto. Una porzione rilevante della popolazione è grado di usare sia l’italiano sia il dialetto, variando a seconda delle situazioni. Il dialetto si parla più in famiglia e meno con gli estranei, con variazioni all’interno di questi due mondi. In famiglia si usa più con gli anziani e meno con i bambini (con intenti “educativi”, i bambini vengono sollecitati a esprimersi nella lingua nazionale); all’esterno si usa più con gli amici e meno con le persone di riguardo, mai o pochissimo negli uffici pubblici e in situazioni formali. Pur con oscillazioni notevoli, alcuni dati sono inconfutabili. Rispetto ad alcuni decenni fa, la situazione linguistica complessiva è cambiata e l’italianizzazione è progressivamente cresciuta. Italiano e dialetti non sono in opposizione, possono convivere senza conflitti anche nella odierna società telematica e digitale.

Senza conflitti non vuol dire senza mutamenti interni, gli idiomi cambiano in continuazione, come gli uomini che li parlano. Tra gli effetti più cospicui della crescente italianizzazione della società c’è la desuetudine o la scomparsa di molte parole dialettali. Sottoposti alla pressione della lingua nazionale, i dialetti si indeboliscono. Perdono o dismettono parole e tratti caratterizzanti. Quanti salentini conoscono il significato di parole antiche come «caforchia», «cannaozzu», «currulu», «dderlampare», «sire», «tata»?; chi usa (o almeno conosce il significato di) «chiezzu» o «uttisciana»? o individua la genesi remota di «zinzulusa»? Oppure forme dialettali convivono con altre italianizzanti («canata» ~ «cognata», «cittu» ~ «zitto», «faore» ~ «favore», «fungu» ~ «fungo», «pete» ~ «piede», «state» ~ estate»e moltissime altre).

E tuttavia, i dialetti non sono morti né moribondi. Li ascoltiamo nei film e in televisione, nella pubblicità, nelle canzoni, rinascono in rete. Non corrono pericoli di estinzione. Italiano e dialetti possono coesistere nella società moderna, la diffusione dell’italiano non contrasta con la persistenza dei dialetti; anzi il possesso della lingua ufficiale da parte di percentuali crescenti di cittadini ha dato sicurezza linguistica ai parlanti, li ha resi più tolleranti, ha impedito ai dialetti di fare una brutta fine, perché non sono più considerati un ostacolo al normale svolgimento del vivere sociale. Oggi che quasi tutti conoscono l’italiano (magari un po’ ammaccato), il dialetto non fa più paura a nessuno. Di più. In qualche modo affascina i giovani per la sua spontaneità comunicativa e per la sua eccentricità. Dall’incontro plurisecolare con l’italiano i dialetti sono usciti un po’ cambiati. Ma vivi.

Nel contesto attuale, pacificato e tranquillizzante, in cui italiano e dialetti non appaiono conflittuali ma coesistenti, assumono particolare rilevanza gli atteggiamenti e le opinioni collettivi. In maniera socialmente trasversale il dialetto, quando è posseduto contemporaneamente alla lingua, non è più avvertito come simbolo di inferiorità ma offre al parlante una consapevole opzione in grado di soddisfare varie esigenze comunicative e espressive della società attuale. Oggi si aprono nuovi spazi e àmbiti d’impiego al dialetto, che fluisce persino nei grandi mezzi di comunicazione: presenza e usi del dialetto (in misura variabile e per finalità differenti) registriamo in giornali, radio, televisione, cinema, pubblicità, fino alle forme recenti della comunicazione digitale.

È importante come i dialetti vengono percepiti e valutati non solo dai linguisti ma soprattutto dagli stessi parlanti. Se una comunità si riconosce nel proprio dialetto, se ne mostra cosciente e orgogliosa, ne fa una bandiera, attribuisce allo stesso un prestigio che facilita il travaso nella lingua nazionale di elementi di matrice locale che caratterizzano un prodotto e individuano una caratteristica, fisica o ideale, del territorio. Se invece predomina la noncuranza o, addirittura, il disprezzo, il dialetto è sentito come un marchio di inferiorità e la sua stessa sopravvivenza entra in crisi.

Tutto dipende dall’autocoscienza della propria identità e dall’attaccamento, individuale e collettivo, alla stessa.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 febbraio 2021]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (quarta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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