Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXXII

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Tramonto secondo Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p.174: “Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il “tramonto del mondo antico”, lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il “tramonto dell’Occidente”.  Stesse cose ribadite a p. 258.

Ogni civiltà attraversa le stesse fasi dell’individuo umano. Ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità.”

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La roba. Scrive Emanuele Severino, Téchne, cit. p. 201: “Il significato originario e ormai quasi perduto della parola “roba” è dato dal germanico ranba; ancor oggi in tedesco Ranb significa preda (noi, diciamo “rubare”). Inizialmente, la donna, il bestiame, il campo, il riparo, sono sentiti come preda, bottino fruttato da un’impresa riuscita: il loro essere preda guida e stabilisce le azioni del maschio adulto, che vive come predatore non solo quando impugna le armi, ma anche quando miete o giace con la donna. Quando il senso iniziale della “roba” impallidisce per il gruppo umano che da esso era stato guidato, incomincia un altro modo di vivere. E lungo i secoli il predatore diventa un contadino.”

Penso alla roba verghiana, a mastro-don Gesualdo, a Mazzarò, e capisco meglio l’istinto predatorio che si cela nei personaggi verghiani. Il predatore delle origini è diventato contadino, mastro, don,  ma sempre predatore è rimasto!

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Lo scopo dell’ “umanità” secondo Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 40: “Ma l’ “umanità”  non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non lo ha la specie delle farfalle o quella delle orchidee. “L’umanità” o è un concetto zoologico o un vuoto nome. Si bandisca questo fantasma del dominio dei problemi storici della forma e allora si vedrà apparire una sorprendente dovizia di vere forme. Qui regna una sconfinata ricchezza, una profondità e una dinamicità della realtà vivente finora nascoste da parole d’ordine, da aridi schemi, da “ideali” personali. Invece della squallida immagine di una storia mondiale lineare, cui ci si può tenere solo se si chiudono gli occhi dinanzi alla massa schiacciante dei fatti, io vedo una molteplicità di civiltà possenti…”.

Dire che” l’ “umanità”  non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano” significa dire che la storia dell’uomo non è il risultato della sua volontà, ma solo della necessità. Tutto ciò che è accaduto non poteva non accadere, il che equivale a dire che la necessità coincide col caso. L’accaduto è infatti, in senso proprio, il caso.

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Il nichilismo, ovvero di che cosa siamo convinti, secondo Emanuele Severino, Téchne, cit. pp. 220-221: “Gli abitatori dell’Occidente sono dunque convinti: 1) che qualcosa del passato non rimane; 2) che il qualcosa che non rimane è un non-niente (e infatti anche il linguaggio non dice “un niente non rimane”, ma dice “qualcosa non rimane”); 3) che il non rimanere è un diventare un niente. L’Occidente è la persuasione che qualcosa, passando, diventa un niente. Diventare un niente significa che, a un certo punto, si è niente. La persuasione che qualcosa diventa un niente è la persuasione che il non-niente è niente, ossia è la persuasione che l’ente è niente. E “ente” non è un termine astratto, ma nomina appunto quei sentimenti, visioni, sensazioni, pensieri, corpi, figure, colori, suoni, eventi, situazioni, di cui gli abitatori dell’Occidente dicono: “sono passati; non sono rimasti”. E, dicendo questo, dicono “sono – essi che non sono un niente – un niente”.

La persuasione che l’ente sia niente è il nichilismo. Il nichilismo è la follia estrema, l’alienazione essenziale in cui cresce la storia dell’Occidente. L’estrema follia è la persuasione che le cose (ossia i non-niente) nascono e muoiono, sono prodotte e distrutte, fabbricate e consumate, create e annientate. “Dio”, la “natura”, la “prassi umana”, la “tecnica” sono espressioni di questa follia estrema: essi infatti sono pensati come le forze che conducono le cose al di fuori del niente e le riconducono nel niente. Essi sono le forme della poìesis. E’ all’interno di questa follia che anche il cristianesimo e, poi, il marxismo, hanno preso significato.”

Avevo all’incirca quindici anni quando per la prima volta sorpresi in me questo pensiero, ovvero l’idea che tutto fosse nulla; ricordo anche che questo pensiero non aveva nulla di negativo – almeno, io non vi sentivo nulla di negativo -, ma significava per me una sorta di liberazione da una realtà – quella mia adolescenziale – che avvertivo troppo angusta ed opprimente. Se tutto è nulla, se la realtà si nega da sé, allora la via di fuga era assicurata ed io ero libero di volare alto. Questo significava per me l’affermazione nichilista. Che fosse anche “l’espressione di questa follia estrema”, nella quale viviamo, l’avrei scoperto solo dopo.

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Il collezionista, secondo Spengler. Che cosa vuol dire Osvald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 2008, p. 29, quando afferma che “L’anima del collezionista la si comprende solo in base al suo rapporto col tempo”? Che rapporto c’è – se c’è –, per es., tra il collezionista di francobolli e il tempo? Spengler non spiega tutto questo, ma ci dà modo di riflettere. Il collezionista in effetti sottrae le cose prodotte dall’uomo e dalla natura al tempo, le imbalsama, chiudendole in uno spazio museale, dove è possibile contemplarle non più per il loro valore d’uso, ma per il valore in sé – potenzialmente inestimabile -, ch’esse acquistano quando sono parte di un tutto: la collezione. Pertanto, il collezionista vince il tempo, lo imprigiona in una raccolta di oggetti destinata a suscitare stupore e ammirazione nel visitatore, che in essa vedrà la possibilità dell’uomo di immobilizzare gli oggetti, sottraendoli al divenire e dunque a tutti i processi di trasformazione della materia e delle forme del mondo; il che vuol dire, in ultima istanza, che il collezionista vince la morte, chiudendo le cose nel mausoleo della propria collezione. Infatti, la collezione non è altro che una tomba monumentale, la tomba del collezionista.

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Elaborazione del lutto. Per molti anni dopo la morte di mia madre (2001) e di mio padre (2009), ogni settimana sono andato al cimitero per far loro visita. Poi, improvvisamente, una decina d’anni dopo la morte di mio padre, ho smesso di andare al cimitero. A volte, penso che dovrei far visita ai miei genitori, mi prefiggo di andarci, ma poi me ne dimentico, e quando me ne ricordo, mi stupisco della mia dimenticanza fino a sentirmi in colpa. Cerco una spiegazione di quanto mi accade. Mi dico che ho elaborato il lutto, ho lasciato andar via i miei genitori, li ho per così dire “dimenticati”. Essi sono usciti dalla mia vita, sono morti.

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La fine dell’amore. Quanto ho scritto a proposito dell’elaborazione del lutto, a ciò che sentiamo quando questa elaborazione è avvenuta (dimentichiamo i morti, li lasciamo andare dopo averli a lungo trattenuti presso di noi), si può dire anche dell’amore. Quando questa affezione diminuisce fino a sparire del tutto avviene la stessa cosa che nel lutto: la vita lentamente ci conduce alla dimenticanza. A un certo punto ci accorgiamo di non pensare più alla persona che un tempo era al sommo dei nostri pensieri, l’oggetto del nostro esclusivo amore. La lasciamo andare via o siamo noi stessi che ci allontaniamo da lei. Tutto questo avviene non per nostra volontà, ma perché il flusso della vita ci separa e ci allontana progressivamente, inesorabilmente, fino a farci perdere di vista la persona amata. All’improvviso, un giorno, ci meravigliamo che il nostro pensiero ha riacquistato la sua libertà, non è più preso dall’amore.

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Pandemia e disuguaglianza. La pandemia da Covid 19 farà più poveri i poveri e più ricchi i ricchi. Infatti, chi pagherà domani il conto salato che i finanziatori (gli speculatori finanziari) presenteranno agli Stati per recuperare i crediti che ora stanno concedendo perché si finanzi la lotta agli effetti destabilizzanti della pandemia? Quando sarà trovato un vaccino e il corpo sociale sarà guarito, le persone si ritroveranno indebitate fino al collo, più di quanto non lo fossero già prima della pandemia, e così le condizioni di vita dei più peggioreranno sensibilmente.

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Rinunciare all’utopia. “Non bisogna mai rinunciare all’utopia di un futuro migliore”: questo dice ogni buon predicatore. In questo rifiuto della rinuncia, in questa speranza, si annida una inconfessata debolezza di chi ha paura di rimanere faccia a faccia con la natura immutabile dell’uomo, nella quale il desiderio di vivere si confonde con la brama di dominio, il piacere di godere dei beni terreni col piacere predatorio, la fame di energia col cannibalismo, il consumo senza fine e senza limite di questa energia con la distruzione totale della vita.

Nessuno sa tenersi fermo davanti alla realtà delle cose. La paideia funge spesso da trasparente copertura; ciascuno cerca una scappatoia, una via di fuga e di salvezza, un escamotage per salvarsi dalla catastrofe. Bisogna avere il coraggio di sapere che non ci sarà mai un’età millenaria come non ci fu mai un’età dell’oro.

La critica severa dello status quo, il riso, la rassegnazione, l’indifferenza, il silenzio: quale sarà il nostro atteggiamento dinanzi alla realtà delle cose? Che senso ha la critica, la più severa, quando altra realtà non può darsi? E che tipo di riso sarà il nostro, se non sardonico? Ma come non venire a noia, di questo passo, a noi stessi e all’umanità intera?

Forse solo quando avremo capito fino in fondo – ovvero quando la comprensione diventerà comportamento conseguente -, che il nostro progressivo allontanamento dal vivente ci ha fatto e continua farci del male, solo allora la nostra esistenza acquisterà la forza che serve a ritrovare l’autenticità della vita, consentendoci di crescere nella direzione possibile, come una pianta che nel folto del sottobosco trova lo spiraglio di luce che la porta verso l’alto.

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Distanziamento. Leggo l’intervista rilasciata da Edoardo Winspeare ad Antonella Gaeta, “La Repubblica-Bari” del 31 marzo 2020, p. 11: “[Al coronavirus] ci penso e tanto, sono interessato a capire cos’è la vita ora e cosa sarà dopo. Mi impongo di cercare il positivo, seguo il bollettino, vedo le città svuotate che mettono tristezza, ma i nostri paesi, in Salento, sono sempre vuoti… alla fine non cambia moltissimo.”

“Alla fine non cambia moltissimo”: giusto! Prima del “distanziamento sociale” imposto dalla pandemia, non eravamo tutti distanti gli uni dagli altri? Certo, la pandemia ha impedito gli affari, lo scambio di merci, che non fossero necessarie, ma i rapporti tra le persone non sono cambiati. I nostri paesi – credo che Winspeare pensi ai paesi del Capo di Leuca – deserti erano e deserti rimangono. Solo molte auto in meno nelle strade, e questo è un gran bene. Il Covid 19 ha fornito al “distanziamento sociale”, questo ossimoro della nostra esistenza di umani, una solida motivazione. La vita sociale infatti era piuttosto debole come conseguenza di uno stile di vita improntato all’individualismo, alla competizione, ecc. Pertanto, il “distanziamento sociale” non ha nulla di traumatico in quanto la rarefazione sociale era già in atto da molto tempo.

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La bellezza secondo Giorgio Manganelli, La favola pitagorica, Adelphi, Milano 2005. Ne parla a proposito dei luoghi d’arte e in particolare di Firenze, a p. 31 “… direi che guardarli [i luoghi d’arte] come luoghi di sola estetica, parcheggi della nostra anima di gusto colto e raffinato, significa non guardare nulla.

E qui si tocca con mano qualcosa che accade spesso di sospettare: vale a dire, che la cosiddetta estetica sia un’astuzia laica per non venire a contatto con la materia mitica e violenta, il luogo dionisiaco, che abita un oggetto.”

E più avanti, a p. 32, ecco l’esempio di Firenze: “… insomma, Firenze “bella” è una città esorcizzata; non fa male, è solo una fonte inesauribile di letizia intellettuale, non conosce demoni, non significa nulla, non allude, non è un’allegoria del mondo.”

Da queste parole possiamo dedurre molte cose a proposito della bellezza, in rapporto non solo a oggetti e luoghi d’arte, ai paesaggi, alle città, ecc., ma anche in rapporto alla bellezza umana. Se la bella Firenze “non significa nulla”, non significa nulla neppure una bella donna o un bell’uomo. La bellezza nasconde il vissuto della persona, i suoi sogni, le sue paure, i suoi pensieri, i suoi demoni. Essa è un paravento puramente esornativo. La bellezza è un escamotage per tenere a distanza, per esorcizzare tutto ciò che è dietro di essa, oggetto di paura perché incontrollabile. La bellezza è una maschera che laicamente e astutamente ammiriamo per non vedere il vero volto delle cose. Così noi impediamo a noi stessi l’accesso al sapere che è nella “materia mitica e violenta, il luogo dionisiaco che abita un oggetto”. Ciò accade, dice Manganelli, perché l’uomo tende ad esorcizzare i demoni che potrebbero mettere in crisi la stabilità psichica del soggetto. La bellezza allora è la panacea di tutti i mali, l’apparenza ingannevole nella quale il pensiero si lascia irretire, illudendosi di aver trovato in essa l’appagamento, mentre esso è solo ammaliato, drogato, anestetizzato. La bellezza infatti “non significa nulla”.

Ricordo di gioventù. Guardavo a bocca aperta il volto bellissimo della mia amica, i suoi occhi, la bocca, i capelli, e mi pareva bella, straordinariamente bella; ma davanti a quella bellezza io ero muto, non sapevo dir nulla; se avessi tentato di parlare, avrei certamente balbettato, preso da timor panico. Ora so che l’immagine della bellezza ch’io vedevo era solo il nulla – dietro il quale vi era il corpo adolescente di una ragazza, del quale non sapevo nulla e che dunque temevo -; la bellezza che mi incantava, mi intimoriva e mi rendeva muto, era uno schermo che astutamente io stesso avevo frapposto tra me e lei per non sapere e per sfuggire ai miei e suoi demoni.

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