A S. Cataldo non c’era il molo di Adriano, ma il Porto di Lecce: Portus Lupiarum!

di Francesco D’Andria

Fa rabbia pensare che, dopo tanti mesi, ancora la scritta campeggia sul muro del cosiddetto Molo di Adriano; una scritta che è anche la firma del graffitaro, ben noto in certi ambienti del capoluogo salentino, che ha voluto associare il suo “capolavoro” al nome di un imperatore romano tra i più grandi, personaggio eminente del potere e della letteratura, ancora vivo nella memoria culturale dell’Occidente. Dovremmo esserne orgogliosi anche perché la notizia sul grande porto romano di Lecce, ci è stata tramandata da un altro gigante della letteratura antica, Pausania, l’autore, nel II sec., della prima Guida turistica della Grecia, in cui egli fa riferimento alla nostra città. Egli parla dell’ormos tais nausì (l’approdo per le navi), cheiropoietos (artificiale, fatto da mano umana) che l’imperatore aveva ordinato di costruire; e guardando le foto aeree che evidenziano centinaia di blocchi sul fondo del mare, ci si rende conto di quanto sia riduttivo parlare ancora del molo di Adriano. Tutta la vasta insenatura, sino all’Idrovora e alla zona S. Giovanni appare costellata di strutture di età romana: tagli regolari della roccia per impianti di saline, edifici a blocchi che le mareggiate periodicamente portano alla luce, la cosiddetta “chiesa sommersa” a 150 metri dalla riva, su un fondale di circa 4 metri, che in antico era probabilmente una peschiera per l’allevamento di pregiate specie ittiche come murene, orate, anguille, triglie. Un sistema marittimo che le indagini degli archeologi dell’Università salentina come Marcello Guaitoli, Giuseppe Ceraudo, Rita Auriemma, Francesco Esposito, hanno contribuito a far conoscere, mettendo a disposizione della comunità i risultati delle loro ricerche; ma devo dire che la scarsa attenzione e una certa indifferenza hanno fatto seguito a un tale fervore di ricerca, come accade per l’anfiteatro di Rudiae e per realtà come la sezione archeologica del MUST- Il Museo Storico della città, dove tesori archeologici provenienti dal territorio leccese giacciono da anni dimenticati, a causa non soltanto del Covid. Miracolo della vischiosità delle burocrazie italiche, comunali, regionali e oltre.

La rada di S. Cataldo conserva tracce imponenti di un’epoca in cui Lupiae, già prediletta dall’imperatore Augusto perché vi aveva trovato rifugio al momento della morte di Cesare, era diventata una città importante, a poca distanza da un altro polo urbano, quello di Rudiae, al centro di un territorio agricolo ricchissimo in cui il paesaggio era caratterizzato da estese coltivazioni di ulivi, che i Romani sapevano come proteggere da sputacchine varie e che, oggi siamo stati incapaci di salvare, riducendo le nostre campagne ad una landa desolata. E, lungo la strada tra Lecce e S. Cataldo, sorgevano i trappeti e le officine per la produzione della anfore che, riempite dell’oro liquido salentino, erano imbarcate sulle navi onerarie per raggiungere i più lontani porti del Mediterraneo.

Per questo penso sia giunta l’ora di abbandonare la riduttiva indicazione di Molo di Adriano, che fa riferimento solo ad una parte di un sistema molto più ampio, per parlare di Portus Lupiarum (Porto di Lupiae o Porto di Adriano).

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