Manco p’a capa 51. La ludopatia finanziaria incombe…

di Ferdinando Boero

Darwin non usò la parola ecologia nei suoi scritti, usò “economia della natura”: il suo pensiero fu influenzato dall’economista Malthus che, data la finitezza delle risorse disponibili, comprese l’impossibilità della crescita infinita dei sistemi economici. Darwin ne dedusse la lotta per l’esistenza tra gli esseri viventi e, a sua volta, influenzò il concetto di lotta di classe di Karl Marx. Ecologia ed economia, quindi, si basano sugli stessi principi. L’economia, però, valuta le risorse in termini monetari e traduce in “soldi” il loro valore.

Ora faccio un passo indietro: quando ero bambino, negli anni Cinquanta, si celebrava la cultura del “risparmio”: i soldi vanno messi da parte, per affrontare possibili spese future. Ci raccontavano la favola della formichina che risparmia e della cicala che sperpera. Questi sani principi preoccupano gli economisti: ci sono troppi soldi nei conti correnti! Dobbiamo spendere, solo così l’economia “gira”: da formiche dobbiamo diventare cicale.

Molte ricette “miracolose”, proposte da chi “ne capisce”, tipo le privatizzazioni per ovviare all’inefficienza del pubblico, o la delocalizzazione delle industrie dove la manodopera è a basso costo, non hanno dato i frutti sperati. Questo mi conforta nell’avanzare perplessità sul ruolo attuale delle banche, che dovrebbero raccogliere i soldi dei risparmiatori, e li dovrebbero amministrare saggiamente, iniettandoli nei sistemi produttivi per finanziare iniziative che dovrebbero portare a ulteriori guadagni. È il costo del denaro prestato a portare introiti alle banche e ai risparmiatori che mettono a disposizione i loro fondi. Le enormi quantità di denaro nei conti correnti dei cittadini, a rigor di logica, dovrebbero essere iniettate dalle banche nei sistemi produttivi per far girare l’economia. Invece le banche preferiscono intermediazioni per gestire il flusso di risorse monetarie verso i sistemi produttivi: le azioni. La banca non presta i soldi agli imprenditori, ma vende ai suoi clienti dei pezzi virtuali dell’azienda. Se il valore dell’azienda aumenta, le azioni valgono di più: gli investitori guadagnano. Se il valore dell’azienda diminuisce, le azioni perdono valore: resta il proverbiale pugno di mosche. La banca che vende le azioni guadagna sempre, che le azioni salgano o scendano. I rischi sono scaricati sugli investitori che, in effetti, “giocano in borsa”. E quando si gioca vince il banco (in questo caso la banca).

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