“Alfredino”. Se la memoria è in un brivido

di Antonio Errico

Era una tempesta di calura umida, untuosa, quella sera di giugno di quarant’anni fa, e c’era un’ansia e poi c’era una paura che quella storia finisse come non poteva finire: come non doveva finire. La foto di un bambino con il sorriso grande quanto l’orizzonte che s’immaginava  alle sue spalle, andava e veniva dallo schermo del televisore. Ventuno milioni di persone avevano lo sguardo affondato in quello schermo. Forse ognuno pregava a modo suo. Ognuno sperava a modo suo. C’era un bambino incastrato in un pozzo a trentasei mesi di profondità. Aveva sei anni. Si chiamava Alfredino.  L’incidente di Vermicino era la notizia di chiusura del telegiornale delle 13.30 dell’undici di giugno.  Durante il servizio qualcuno disse che il bambino stava per essere salvato. Allora Emilio Fede, che dirigeva il tg, decise di andare avanti. La diretta durò per tre giorni. Quello che è accaduto dopo lo sanno tutti. Lo sanno tutti coloro che allora c’erano e lo sanno anche coloro che allora non c’erano. Perché la storia di Alfredino Rampi è memoria collettiva. E’ un simbolo delle tragedie del moderno. La rappresentazione di un dolore privato che si trasforma in dolore di tutti, in passione, sentimento, emozione di tutti.

Tante cose sono accadute nei quarant’anni che sono passati. Tragedie come quella di Alfredino. Ma molte di esse le abbiamo dimenticate proprio per il fatto che non sono diventate memoria collettiva, non si sono trasformate in simbolo e rappresentazione che si ripropongono attraverso la narrazione. Probabilmente la trasformazione in simbolo e rappresentazione è stata determinata proprio dalla narrazione di quella diretta di tre giorni, dal coinvolgimento  emotivo che si alimentava con l’alternarsi delle fasi, l’accendersi improvviso e l’improvviso spegnersi delle speranze, dalla tensione, dalla presenza di un personaggio come Sandro Pertini, lì, ai bordi del pozzo.

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