Il brutto abete

di Evgenij Permjak

In un bosco misto, parlante danese, crescevano alberi parlanti danesi che si esprimevano tra loro nell’unica lingua che conoscevano,  il danese.

Nelle giornate caldissime di sole, spossati dalla calura, gli alberi parlavano tra di loro sottovoce, talmente piano, che persino gli uccelli dall’udito sensibile non potevano distinguere una parola di ciò che sussurravano. Però, non appena si alzava il vento, nel bosco si sollevavano dei discorsi tanto agitati e rumorosi che chiunque avrebbe potuto ascoltare facilmente i loro temi.

Il più chiacchierone di tutti era il Tremolo. La sua voce sonante di undicimila foglie non si zittiva neppure a mezzogiorno. Il Tremolo adorava darsi al pettegolezzo, come, peraltro, la Betulla. L’Abete invece era fatto di una pasta opposta a loro due. L’Abete era estremamente taciturno e pensieroso. Lui, a differenza dei suoi belli e slanciati fratelli, veniva su non tanto bello. Anzi, diciamolo pure, cresceva proprio brutto: tutto da una parte e storto.

L’Abete non era benvoluto dai confratelli del bosco, anche se a nessuno di loro aveva fatto alcun male. Non copriva loro il sole, non gettava loro ombra, non li privava dell’umidità, non frusciava per disturbare il loro riposo, come facevano, per esempio, il Frassino e il Rovere. Insomma, il suo comportamento era molto tranquillo. Gli alberi, però, avevano una pessima maniera di rapportarsi tra loro, privilegiando su ogni cosa l’aspetto fisico, l’abito, la bellezza dei rami e la conformazione delle fronde. L’Abete invece non era attraente, era brutto. Proprio questo servì da pretesto perché fosse perennemente deriso dal narcisista Frassino, dal giovane bellissimo Acero e dalla Betulla, il cui vanto maggiore era, oltre a tutti gli altri, di avere dei rami raffinatamente sottili.

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