Saturae VI

***

Cave canem

Cane rognoso, è solo questo che sai fare:

davanti ad un osso già spolpato, latrare.

Quando da lungi avvisti la preda: bau bau!

Ma quando le sei di fronte, ecco: au au!

Come una stupida majorette: “dammi una b!

dammi una a! dammi una u!”: tu fai così.

Se al verde, ti vendi tutto, anche il vespone,

e la tua casa resta senza finestre e portone.

Il tuo baubari diventa muta imprecazione

per tema che ti lasci digiuno il tuo padrone.

“Un cane rognoso”

Il nemico del Satirico, da buon parassita, ha sempre qualcosa da chiedere. Egli cerca di essere seduttivo come una majorette, in realtà è solo sfacciatamente “stupido”; poi, quando non c’è più nulla da arraffare, diventa scialacquatore delle sue stesse sostanze, e infine cambia atteggiamento e da remissivo che era si fa aggressivo nei confronti del suo stesso padrone. Il suo imprecare è un baubari (lat. sta per abbaiare), ma si sa che can che abbaia non morde; morde invece il poeta che non ha perso l’occasione per connotare in malo modo il suo Margite: “un cane rognoso”!

***

Per essere diverso

Per essere diverso, per far piacere a te,

ho lasciato carta e penna, per tribunali foro e altari,

ho rinnegato l’ozio creativo e mi sono dato agli affari.

Per non sprecare il mio tempo, ho lasciato la campagna,

per viaggiare tra Inghilterra, Francia e Spagna,

ho salutato il mio aprico paese ai piedi del monte,

per cogliere a pieno le opportunità del presente,

dimenticato libri, canzoni e bei conversari,

per darmi al commercio e ai beni materiali,

ho lasciato i poeti antichi e i vaneggiamenti della filosofia,

e come Callicle dice a Socrate, ho scelto la retta via.

Poi una notte in sogno, come Ercole nel mito di Prodico,

combattuto fra vizio e virtù, io mi sentivo afasico,

mi vennero a trovare cultura e finanza,

volevo gridare, ma non avevo forza abbastanza.

Per essere diverso, per far piacere a te,

costretto a scegliere fra vita attiva e contemplativa,

ho messo da parte la scrittura, l’estro e l’inventiva,

sono sceso dalle nuvole, entrando a pieno nella vita reale,

lasciando ai poeti, ai pazzi e ai filosofi quella ideale,

ho abbandonato la mia “casetta in Canadà, coi suoi fiori di lillà”,

per darmi davvero al commercio e alla produttività.

Ma una notte, come nel sogno di Luciano di Samosata,

ho realizzato quanto insignificante la mia vita sarebbe stata.

Ed ora non sono più diverso, per far piacere a te:

non sono felice né infelice, ma assomiglio di nuovo a me.

Io e te

Il Satirico qui è in vena di confessione, una pubblica confessione. Il destinatario principale è un “tu”, un semplice pronome personale dietro il quale si cela qualcuno di molto importante per la vita del poeta. Dal momento che il poeta ne ha taciuto il nome, anche il commentatore tacerà e lascerà nel non-detto l’identità di costui; importa infatti quel che il poeta qui ci dice, permettendoci di penetrare nelle riposte motivazioni della sua esperienza poetica.  Egli ha ora dato una svolta alla sua vita, ha trovato finalmente la sua identità, e ci dice: “non sono felice né infelice, ma assomiglio soltanto a me”; ma per scrivere questo verso ha dovuto attraversare le lande desolate di una vita programmata e imposta da altri, da questo “tu” innominato, dal quale egli è riuscito finalmente a svincolarsi.

Abbondano i riferimenti dotti: da Senofonte, Memorabili 2.1 (Eracle al bivio), a Platone, Gorgia (Callicle), a Luciano di Samosata, Il sogno o la vita di Luciano. Ma non mancano le citazioni amene, come al solito: con “casetta in Canadà, coi suoi fiori di lillà” fa la sua fugace comparsa anche il Quartetto Cetra.

Piccoli dolori (Odisseo)

Ti prego, dammi il fiore dell’oblio,

fammi dimenticare angosce ed affanni,

come se nella terra dei Lotofagi fossi io.

Sono stanco di questo sgocciolio

di piccoli dolori, mezze verità, allusioni.

nel banale quotidiano chiacchierio.

O si vive per soffrire davvero, cazzo,

oppure, in un’apoteosi di lusso e voluttà,

dammi piaceri pescati nel mazzo.

In medio stat virtus

L’allocuzione con cui si apre la poesia è a un tu ideale, al quale il poeta chiede, con la mediazione di Omero (esplicito il riferimento all’episodio di Ulisse nella terra dei Lotofagi), il fiore dell’oblio. Da me intervistato, il Satirico afferma: “la poesia vuole significare il mio odio per le mezze misure. In un ideale dialogo con una qualche divinità pagana, chiedo di evitarmi tanti piccoli dolori, fastidi, pettegolezzi, noie quotidiane, ma, se deve essere una vita di dolore, di darmi atroci sofferenze oppure, meglio, in una accorata edonistica richiesta, di farmi stare bene davvero. Insomma, tutto, ma non le vie di mezzo.” Insomma, il Satirico qui sembra aver smarrito il suo oggetto polemico (Margite, dove sei?) e si è ripiegato su sé stesso: vorrebbe soffrire davvero o godere davvero, rispettivamente come un novello Jacopone o un novello D’Annunzio. Da commentatore a consigliere: seguire la norma in medio stat virtus. E forse il fiore del loto sta proprio in medio.

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