Gli scrittori italiani e la grande guerra

Molti di essi credevano che la cultura potesse svolgere un ruolo-guida in quella vicenda, ma la lunga durata del conflitto e la complessità della macchina bellica li ridussero ad avere un ruolo affatto marginale.

            Solo pochi furono coloro che assunsero una posizione non interventista. All’interno di questo schieramento si possono distinguere tre tendenze: i cattolici, i socialisti e i filo germanici. Sulla scelta dei cattolici contava ovviamente «la posizione del Papato, di opposizione al conflitto, e la difficoltà di identificare quella che stava per scoppiare come la “guerra giusta” della dottrina tradizionale»[2]. Nell’ambito socialista vi furono quelli a favore e quelli contro l’intervento. Nelle argomentazioni di questi ultimi prevalgono i riferimenti all’internazionalismo operaio e alla lotta anticapitalista, che doveva unire i popoli, mentre negli altri quelli in favore di richiami alle esigenze nazionali. Infine c’erano gli oppositori per motivi culturali, quelli che ammiravano la cultura tedesca, come Benedetto Croce, il quale non nascondeva la sua simpatia verso i sistemi monarchici degli Imperi centrali e la sua diffidenza nei confronti di ogni rinnovamento radicale.

            Ma passiamo ora ad esaminare lo schieramento, assai più numeroso, degli interventisti. E anche qui bisogna distinguere tre tendenze: i nazionalisti, i democratici e i rivoluzionari. Partiamo dai primi, gli interventisti nazionalisti. Essi riconoscono alla nazione il pieno diritto ad espandersi a spese di altre nazioni, concludendo nell’imperialismo militare la parabola già iniziata dall’espansionismo economico. Il loro leader è Enrico Corradini, il fondatore della rivista «Il Regno» (1903-1906), secondo il quale la nazione è «il vero organismo medio d’arricchimento, il vero massimo istrumento industriale, fra l’internazionalismo e la classe…»[3] e insieme «il maggior fattore di civiltà». In questa tendenza rientrano personaggi assai differenti tra di loro come Gabriele d’Annunzio e i futuristi guidati da F. T. Marinetti, nonché i futuristi “fiorentini” o “lacerbiani” come Papini e Soffici.

            Gli interventisti democratici, che erano guidati da Gaetano Salvemini, si aspettavano dalla guerra un rinnovamento dell’Europa e l’instaurazione di rapporti diversi fra le singole nazioni. Nell’abbattimento degli Imperi centrali di Germania e Austria essi vedevano una necessità per la diffusione della democrazia e la creazione di una lega di nazioni autonome legate da vincoli di reciproco rispetto e collaborazione che avrebbe fatto rifiorire l’Europa. Per l’Italia sia auspicava un posto di giusto rilievo, non di predominio (si rifiuta infatti l’espansione territoriale al di là delle zone irridente di Trento e Trieste). A questo filone appartengono scrittori come Piero Jahier, Emilio Lussu e Carlo Emilio Gadda.

            Un terzo schieramento era rappresentato dagli interventisti rivoluzionari, di cui facevano parte i socialisti, sindacalisti che avevano in Filippo Corridoni il loro leader, e i repubblicani. Varie erano le motivazioni che li univano. Per alcuni, un’esigua minoranza, quella era un’occasione per armare il proletario; per altri la guerra era vista necessaria per indebolire lo stato borghese e renderlo più vulnerabile; secondo altri, la vittoria sulla Germania e sull’Austria avrebbe permesso il mantenimento di certe conquiste civili già ottenute, indispensabili per un successivo avanzamento, così come avrebbe favorito lo sviluppo economico di un’Italia ancora in fase precapitalista. Il neutralismo infine avrebbe rischiato di togliere i socialisti dalla scena politica dopo la conclusione di un conflitto che era in genere visto brevissimo.

            Ma se queste erano le posizioni principali nei confronti dell’intervento italiano in guerra, vediamo ora di esaminare concretamente alcuni scritti (articoli, manifesti, testi creativi in versi e in prosa) di letterati italiani, cercando di coprire un po’ tutto l’arco degli schieramenti, dall’interventismo nazionalista estremo a quello democratico fino ad arrivare alle voci più alte, a quelle che possiamo definire le coscienze critiche della guerra. Sbarazziamoci subito di d’Annunzio, il quale, come nota Isnenghi, nei suoi scritti ispirati alla guerra (Canti della guerra latina, 1914-1918, Libro V delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, Milano, Mondadori, 1933), «mobilita tutto un repertorio di immagini, di allusioni e termini di origine religiosa per elevare la guerra su un piedistallo di sacralità che la sottragga al giudizio politico dei cittadini, chiamati all’unità disciplinare e gregaria nel corpo mistico della nazione-chiesa»[4].  E anche Cortellessa, nella sua antologia lo inserisce nella sezione intitolata, non a caso, La guerra-cerimonia.

Per incominciare, vorrei partire invece dalla posizione dei futuristi. Ebbene, proprio nel manifesto di fondazione, apparso il 20 febbraio del 1909 su «Le Figaro» ma qualche settimana prima, come si è scoperto recentemente, anche su vari giornali italiani, c’era una famosa (e famigerata) definizione della guerra, che veniva glorificata e definita appunto «sola igiene del mondo», che poi sarà anche il titolo di un libro di Marinetti del 1915. Ma che significa esattamente questa definizione? Significa esaltazione dello “slancio vitale”, dell’evoluzione creatrice,  significa vittoria del movimento sulla stasi, sull’immobilismo che è sintomo di morte, la guerra è la «sintesi culminante e perfetta del progresso». Cioè per capire, non per giustificare, questa posizione, occorre rifarsi anche alla filosofia dell’epoca, a Bergson, a Sorel, ecc.

            Non meraviglia perciò, date queste premesse, che i futuristi si schierino subito a favore dell’intervento, organizzino manifestazioni interventiste a Milano, scrivano infuocate dichiarazioni e proclami a favore della guerra. Il 20 settembre 1914 Marinetti lancia il volantino Sintesi futurista della guerra[5], in cui è raffigurato un grande cuneo. Al suo interno vengono collocati i nomi delle nazioni alleate (Serbia, Belgio, Francia, Russia, Inghilterra, Montenegro, Giappone, Italia), caratterizzate da alcune qualità positive. Fuori dal cuneo e colpite da esso Austria e Germania, con la Turchia, con le loro caratteristiche negative. Ovviamente al vertice di questo fronte di sfondamento c’è il futurismo che si contrappone al passatismo e infatti sotto è scritto «8 popoli-poeti contro i loro critici pedanti».

 Il 29 novembre 1914 Marinetti dedica agli studenti italiani il manifesto 1915. In quest’anno futurista  in cui la guerra è vista come «rottura totale con un passato culturale e storico […], esaltazione vitalistica da celebrare con richiami apertamente erotici fino a vedere la vittoria come un possesso carnale;  festa con le sue caratteristiche di sfrenatezza, di interruzione dell’ordine abituale, di consumo e dissipazione»[6]. Il 9 dicembre 1914, ad esempio, si svolge una manifestazione interventista all’Università di Roma, durante la quale il poeta futurista napoletano Francesco Cangiullo indossa il vestito antineutrale disegnato da Giacomo Balla. Tra il maggio e il dicembre 1915 alcuni futuristi, tra i quali Marinetti, Boccioni, Russolo,  Sant’Elia e altri si arruolano nel Battaglione lombardo volontari ciclisti, che dopo un periodo a Gallarate, raggiungono la prima linea nella zona del Lago di Garda.

            Il primo periodo di guerra è vissuto dai futuristi con grande entusiasmo, quasi come una festa appunto o una sorta di gara sportiva,  poi giunge il tragico momento della prima linea in cui, tra il 1916 e il ’17, moriranno alcuni di essi come Sant’Elia e Boccioni, mentre Marinetti e Russolo saranno feriti. A questo proposito, bisogna precisare che non solo tra le fila dei futuristi ci furono vittime, ma furono tanti gli scrittori che persero la vita in guerra. Nel 1929 uscì presso Vallecchi di Firenze l’Antologia degli scrittori morti in guerra, a cura di C. Padovani, che comprendeva testi di ben ventisei autori scomparsi durante il conflitto bellico.  Nel 1915 esce anche Guerrapittura di Carlo Carrà, che contiene disegni, tavole parolibere, dichiarazioni di poetica, scritti su arte e politica, ma anche una rivista fiorentina, come «L’Italia futurista», è ricca di scritti  e di tavole parolibere ispirate alla guerra. Lo stesso Marinetti ne compone alcune, come Corvée d’acqua sotto i forti Austriaci e Con Boccioni a Dosso Casina [7], che sono tra i risultati più alti in questo campo. Ma per finire questo discorso sui futuristi vorrei citare il titolo di un’opera, precisamente un arazzo, di uno dei maggiori e più eclettici artisti futuristi, Fortunato Depero, di Rovereto, che può riassumere l’atteggiamento generale dei futuristi nei confronti della guerra. L’arazzo, uno dei suoi più belli, è intitolato Guerra-festa.

            Ecco, questa concezione dell’evento bellico come festa, come spettacolo, è presente anche in un libro di uno scrittore peraltro lontano dal futurismo, Giovanni Comisso. Il suo libro di memorie della prima guerra mondiale, Giorni di guerra (I° ed., Milano, Mondadori, 1930), è giudicato da Cortellessa «l’assoluto capolavoro della letteratura italiana di guerra (in prosa narrativa)»[8]. Con esso – ha scritto ancora Isnenghi, che ha curato una riedizione del libro presso Mondadori nel 1980 – si tocca «probabilmente il grado zero della partecipazione alla guerra come evento storico-politico, e, per converso, uno dei gradi più alti di partecipazione e coinvolgimento in essa come individuale avventura dei sensi»[9]. La concezione della guerra come “vacanza”, “avventura”, “spettacolo” emerge, ad esempio, in un celebre brano nel quale l’autore narra il momento in cui sorvola il campo di battaglia sospeso su una  teleferica diretta a un osservatorio in cima a un monte ed è  fatto bersaglio dai colpi nemici[10].

         Una posizione ancora più decisa e virulenta a favore dell’intervento italiano in guerra assunsero  i “lacerbiani”, cioè i collaboratori della rivista «Lacerba», soprattutto Giovanni Papini, che in vari articoli espresse prima la sua totale sfiducia nella democrazia  e nel parlamentarismo giolittiano e poi dichiarazioni di violento interventismo con molti punti di somiglianza con quello dei nazionalisti, quando il governo italiano dichiarò invece la neutralità una volta scoppiata la guerra. Nel numero 20 del 1° ottobre 1914, ad esempio, c’è prima un Appello, firmato dalla Redazione, in favore dell’annullamento del trattato della Triplice alleanza e verso invece un accordo con le nazioni della triplice intesa (Inghilterra, Francia e Russia), e poi, subito dopo, un articolo di Papini dal titolo eloquente Amiamo la guerra!, nel quale si possono leggere agghiaccianti affermazioni come le seguenti:

Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra (cioè gli uomini forniscono il loro tributo di vite per rendere più pulito e più sano il mondo). Ci voleva alla fine un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne;

Siamo troppi. La guerra è un’operazione maltusiana (cioè la guerra, secondo Papini, con le sue enormi stragi, servirebbe a ristabilire l’equilibrio naturale e a scongiurare il pericolo della sovrappopolazione e quindi della fame) C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola;

La guerra, infine, giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio…; e così conclude questo crescendo inarrestabile di cinismo e delirio verbale: Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è amarla con tutto il nostro cuore di maschi[11].

Altri scritti di Papini dello stesso tenore sono Le cinque guerre, in cui distingue appunto cinque tipi di guerra (ideale, irredentista, imperialista, rivoluzionaria, finta) e sostiene che la loro è una guerra essenzialmente “ideale”, contro la Germania, mentre per la maggior parte degli italiani era, nel migliore dei casi, una guerra irredentista. Ma perché una guerra ideale contro la Germania? Ecco cosa dice Papini al riguardo:

La guerra ideale è quella che si dovrebbe fare per ragioni, diciamo così, di civiltà – ragioni europee. Guerra essenzialmente antitedesca. La Germania è un pericolo per la pace, per la cultura, per la libertà dello spirito, per la concezione della vita, per tutto quello che noi – italiani intelligenti – vogliamo ed amiamo. L’egemonia tedesca – cioè il sopravvento del militarismo, mercantilismo, pedantismo, religiosismo ecc. – sarebbe un disastro per i nostri valori. Perciò l’Italia deve cooperare colle altre nazioni più vicine al suo spirito – Francia geniale, Inghilterra liberale, Russia pazza – alla domatura della prepotente e odiosa Germania. Questa guerra è dunque guerra di spirito contro spirito, d’ideale contro ideale, di filosofia contro filosofia. Una guerra per la liberazione e salvezza dell’Europa. Una guerra per l’onore, per la dignità della razza nostra in quanto incarnazione d’un proprio genio. Se portasse ad acquisti di terre nuove, italiane o no, sarebbe un bene ma non dovrebbe esser questo il movente primo e massimo dell’azione italiana[12].

E non si può non osservare a questo punto che la cultura che dovrebbe essere un fattore di unione tra i popoli qui diventa invece una causa di scontro e di opposizione. Sull’ultimo numero di «Lacerba» esce infine un articolo di Papini dal titolo Abbiamo vinto, il 23 maggio del 1915, a due giorni quindi dall’entrata di guerra dell’Italia, nel quale lo scrittore fiorentino faceva notare, con evidente compiacimento, che il programma perseguito coerentemente dai lacerbiani era stato fatto proprio dal governo con la dichiarazione di guerra all’Austria e alla Germania.

L’unico, all’interno di «Lacerba», che assunse una posizione più pacata e umana di fronte alla guerra fu Aldo Palazzeschi, il quale nell’articolo Neutrale si contrappone non solo per il tono ma anche per il contenuto a quelli di Papini. Leggo solo il brano iniziale:

I francesi odiano i tedeschi, i tedeschi odiano i francesi. Questo accade da quattro lunghi mesi ed accadrà per molti altri ancora. Mi pare si cominci ad esagerare. Noi possiamo odiare i tedeschi e amare i francesi, odiare i francesi e amare i tedeschi, amarli tutti e due, mandarli tutti e due al diavolo. Quattro possibilità invece di una sola. Perché gridate che il nostro non è un governo intelligente? Viva la neutralità![13].

Al di là del tono del discorso, ironico e volutamente ambiguo, non si può affatto escludere che l’autore sia davvero favorevole alla neutralità, anche se era difficile dichiararlo apertamente sulle pagine di una rivista interventista come «Lacerba». Ma basta leggere il brano conclusivo per avere conferma della posizione neutralista di Palazzeschi, il quale si dichiara esplicitamente «pacifista»: «Ma no, io oggi sono pacifista. Mi offrite una guerra che à per mezzo la morte e per fine la vita, io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte»[14].

 D’altra parte Palazzeschi, nel suo libro Due imperi… mancati, prende netta posizione contro la guerra e critica, in generale, gli artisti e i poeti che si erano schierati a favore e, in particolare, i suoi compagni “lacerbiani”. Fra l’altro scrive così: «C’era una persona dalla quale questa guerra doveva venire subito condannata e respinta: l’artista, e su tutti il poeta»[15]. E, a proposito dei “lacerbiani”:

Erano gli uomini lucidi, gli uomini di grande ingegno, i raffinati, i geniali. Parevano divenuti degli ossessi, delle creature primitive. Si poteva ragionare più? Quelli che stimavo ed amavo, coi quali avevo avuto dimestichezza fino al dì prima, e avevamo respirato insieme tanto al di sopra della eterna pozzanghera, avevamo sorriso di compassione del circolo vizioso dal quale i nostri poveri simili non sarebbero mai usciti, erano proprio quelli che ci si volevano tuffare fino in fondo, impantanarcisi bene, inzaccherarsi fino ai capelli, come per una fatalità[16].

Ecco, penso che non si possa  esprimere un giudizio sui “lacerbiani” più preciso di questo di Palazzeschi, il quale era stato tra i fondatori della rivista e aveva favorito l’alleanza tra il gruppo fiorentino di Papini e Soffici e quello milanese di Marinetti.

Tra i “lacerbiani”, è necessario citare anche Ardengo Soffici che ha scritto due opere in prosa, oltre a varie poesie, ispirate alla guerra: Kobilek, sottointitolato Giornale di battaglia, pubblicato presso Vallecchi di Firenze nel 1918, e La ritirata del Friuli, apparso sempre presso Vallecchi nel 1919. Nel primo racconta la presa del monte Kobilek appunto, nell’agosto del 1917, da parte delle truppe italiane, dal suo primo giorno di guerra fino a quando fu ferito a un occhio e avviò, a quanto si dice, la stesura dell’opera nel lettino dell’ospedale da campo di Cormons, in Friuli. In questo libro, da un lato, c’è un certo populismo, che si rivela nella esaltazione della bontà e del valore delle masse dei soldati (di qui le invettive contro chi non sa conoscerle e guidarle bene ai propri fini), dall’altro invece un forte individualismo, per cui  la guerra viene vista  come bella avventura personale in cui l’individuo può trovare spazio per una propria affascinante realizzazione. A questo proposito rinviamo a un brano del libro in cui  si trova un’opposizione tra “moltitudine” e “protagonisti”[17].

Ne La ritirata del Friuli la posizione dell’autore appare un poco mutata rispetto a quella che si rivelava in Kobilek. Il disorientamento seguito alla disfatta di Caporetto, il contatto con una realtà più dolorosa e avvilente paiono infondergli  maggiore umanità nel considerare fatti e persone e insinuargli una capacità di dubitare dei propri entusiasmi e delle proprie certezze. Da qui il tono stilistico più semplice e immediato. Qui balza in primo piano, in particolare, la disorganizzazione da parte dei responsabili della ritirata e traspare il senso di pena che l’autore prova per questa gente abbandonata a se stessa. Soffici mette in rilievo soprattutto gli errori e l’insufficienza dei comandi, di cui civili e truppe sono le vittime principali.

Una posizione che assomiglia a quella di Palazzeschi è quella di Piero Jahier, altro collaboratore della «Voce» e di «Lacerba», il quale rientra nel filone dell’interventismo democratico e ha dato col libro Con me e con gli alpini una delle testimonianze letterarie più alte di questo tragico avvenimento. Ma, per esaminare la posizione di Jahier, vorrei partire proprio da un articolo apparso su «La Voce», Ma la patria….,  che scrisse in risposta a quello citato di Papini, Amiamo la guerra!, nel quale, fra l’altro si legge:

Questo popolo la guerra non la voleva. Accettava la vita e qualunque condizione […]. E come ogni popolo, anche questo aveva il suo governo giusto – neutrale. Mi domando, noi quattro intellettuali di dove aspettavamo tirasse fuori eroismo questo popolo. Non siamo arrivati mai né al suo odio né al suo amore, noi […]. Abbiamo combattuto anche per lui, sulla carta –  voglio sperarlo. Ma il Popolo non sa leggere: bisognava parlargli […]. Questo popolo l’abbiamo lasciato invigliacchire […]. Ora gli diciamo: Amiamo   la guerra. Ma se non abbiamo amato abbastanza la vita. No, Papini, dobbiamo cominciar dalla vita. Quelli che son morti amavano la vita, non la guerra. Hanno amato la vita fino alla guerra […]. Amiamo la vita, Papini[18].

Ecco, già da questo brano si rivelano le caratteristiche dell’interventismo democratico di Jahier, alimentato di populismo. Esso produce una serie di opere: innanzitutto la raccolta di prose e poesie (osmosi tipicamente vociana), Con me e con gli alpini (apparso nel 1918 sulla «Riviera Ligure» e nel 1919, in volume, nelle Edizioni della «Voce»); la direzione di un giornale al fronte «L’Astico. Giornale delle trincee» (1918); la raccolta di materiali popolari e folklorici Canti di soldati (1918); la direzione di un altro giornale, «Il Nuovo Contadino» (1919). Ma passiamo ora a Con me e con gli alpini, uno dei risultati più alti della letteratura vociana e in genere della letteratura italiana primo novecentesca. Quest’opera è una specie di diario collettivo di guerra, nel quale l’autore, che era un tenente degli alpini, si rivolge alla truppa dei suoi soldati, uomini del popolo, di modestissima estrazione sociale, chiamati alla guerra senza capirne veramente le ragioni. Ad essi egli si sente vicino, non ritenendoli subalterni o inferiori, ma dai quali anzi cerca di imparare una lezione di vita. Nel libro c’è un tono corale che si contrappone, ad esempio, alla guerra “privata” di d’Annunzio, dove c’è sempre la prima persona singolare. Qui invece il coro è composto dagli umili soldati ai quali si rivolge Jahier per il quale la guerra è una dolorosa necessità, finalizzata alla sopravvivenza di una nazione povera e deve essere vissuta con spirito quasi religioso e con una profonda solidarietà tra le classi sociali. Il protagonista principale della guerra, secondo Jahier, è proprio il popolo contadino e montanaro, abituato all’obbedienza e alla disciplina, che va in guerra e «non sa perché va a morire», cioè ne ignora le ragioni. Il popolo, ad esempio, è protagonista di Dichiarazione[19] (in  Le notti chiare…, pp. 180-181), dove emergono i motivi dell’inconsapevolezza delle reali ragioni della guerra, dell’affetto e della solidarietà reciproci, tra il tenente e la sua truppa, e della miseria del popolo privo di una guida. Il testo è composto da cinque strofe, le quali a loro volta sono formate da versi dall’andatura volutamente prosastica, il più delle volte composti da due elementi (del tipo senario + endecasillabo, settenario + novenario, ecc.). Le prime quattro strofe sono seguite da una specie di congedo, una strofa di sei versi di misure regolari, ricca di rime e assonanze di genere popolaresco. Ognuno delle prime quattro strofe ha un esordio costante, di tipo anaforico («Altri morirà…»).

Un altro componimento famoso di Jahier ispirato alla guerra, al lutto, alla tragedia della guerra  è Mare[20], apparso su «La Riviera Ligure» nel 1917, che racconta la vicenda di una madre che ha perso i due figli e il marito e si lascia morire dopo essersi preparata come per una festa. Il testo, diviso in quattro sezioni o lasse, composte da versi quasi tutti endecasillabi, è strutturato come un canto anonimo e popolare e presenta termini dialettali veneti veri e propri a partire dal titolo (che equivale a madre), e una sintassi dialettale in parte italianizzata, come se una persona o un coro del popolo raccontasse la storia in un italiano approssimativo ed elementare.

Un altro scrittore (e poi uomo politico) esponente dell’interventismo democratico è Emilio Lussu, cagliaritano, che subito dopo la laurea in Giurisprudenza partecipò volontario alla grande guerra con i gradi di capitano di fanteria, convinto che il conflitto avrebbe mutato qualcosa nello statu quo d’Europa e d’Italia. In Un anno sull’altipiano, un “romanzo-memoriale”, uscito clandestinamente nel 1938 a Parigi, dove Lussu era esule ed era attivo nel movimento di “Giustizia e Libertà”, l’autore rievoca un anno trascorso sulle alture di Asiago, nel 1916, denunciando la colpevole incoscienza delle autorità e degli stessi alti e medi ufficiali, che sacrificano criminalmente tanti giovani soldati. E, stando proprio al contatto con loro, si rende conto che tutto quello in cui egli crede e che lo spinge a combattere è totalmente estraneo a essi, che sono contadini e pastori, e non gli serve minimamente per comunicare con loro. E fin qui il suo cammino è comune a quello di altri, come Jahier. Solo che Lussu, al contrario di Jahier, prende coscienza politica di questa situazione, prospettando l’ipotesi di un cambiamento e inizia una lunga milizia, fondando il Partito sardo d’Azione e aderendo, dopo la Liberazione prima al PSI e poi al PSIUP. Da questo libro vorrei leggere un brano in cui è descritto con asciuttezza ed essenzialità narrativa uno di questi episodi di ottusa burocraticità militare. Si tratta del comando dato dal tenente colonnello a un giovane tenente e a un soldato di andare a fare allargare le brecce dei reticolati con le pinze tagliafili sotto il tiro dei soldati austriaci e quindi mandandoli alla morte, come essi stessi avevano capito[21].

Vicino all’interventismo democratico è anche Carlo Emilio Gadda, il quale pensava alla guerra come a una lotta d’indipendenza  per riscattare all’Italia le province ancora sotto dominio straniero. Di Gadda, che fu sottotenente e poi tenente degli alpini,  nel 1965 la casa editrice Einaudi pubblicò il Giornale di guerra e di prigionia, la sua prima opera, un diario appunto steso tra il 1915 e il ’19, nel quale l’autore annota con puntuale e accanita precisione le traversie quotidiane dell’esperienza bellica e poi dell’umiliante prigionia tedesca. Nel libro emerge soprattutto la grande delusione provata da Gadda perché il suo bisogno di ordine, di disciplina, di efficienza si scontra con l’inettitudine dei comandi, la gestione assurda, l’inadeguatezza generale. Da questa delusione, vissuta quasi come un’offesa alle proprie convinzioni e alle proprie aspettative, nascono la rabbia, l’ira, l’indignazione, che si traducono nella violenza delle invettive, nella protesta, nella denuncia di questo stato di cose[22].

Ma ora vorrei passare ad esaminare brevemente le due coscienze più alte, letterariamente e moralmente, della prima guerra mondiale, Giuseppe Ungaretti e Clemente Rebora. Rebora, come è noto, ha dedicato numerose poesie e prose al tema della guerra, alla quale partecipò come ufficiale di fanteria in val d’Astico, poi sull’Isonzo, al Podgora. Proprio nel 2008 questi scritti, insieme alle lettere inviate dal fronte, sono stati raccolti nel volume Tra melma e sangue. Lettere e poesie di guerra, a cura di Valerio Rossi, presso la casa ed. Interlinea di Novara. La guerra, com’è noto, fu, per Rebora, un’esperienza traumatizzante interrotta drasticamente da una crisi nervosa, diagnosticata da uno psichiatra come «mania dell’eterno». In seguito ad essa il poeta fu congedato ma di questo periodo restarono fortissime tracce sulla sua vita e sulle sue scelte future. Nelle lettere  Rebora definisce la guerra «esperienza non dicibile», «mostruoso intontimento», «Calvario d’Italia», «ammazzatoio di Barbableu», usando parole come «orrore», «tanfo», «imbestiamento». Nelle sue poesie c’è una violenta denuncia della condizione tragica della guerra anche attraverso l’uso di un linguaggio di forte tensione espressionistica. Rebora esprime il più radicale rifiuto della guerra, mostra come nessun significato e nessun valore politico, storico, ideale possa nascondere o giustificare lo scempio che in essa viene fatto dei corpi e delle vite. Si tratta davvero di un grande messaggio umano e poetico, in totale contrasto con le esaltazioni della grande guerra fatta allora dalla maggior parte degli scrittori e intellettuali italiani. Porto solo due tra gli esempi maggiori delle poesie reboriane di guerra, nelle quali emerge tutto l’orrore del conflitto bellico che si riflette nella violenza     stilistica, nella tensione espressionistica del linguaggio. Il primo è Voce di vedetta morta[23], apparsa per la prima volta su “La Riviera ligure” nel 1917, in cui la brutalità della guerra trova una emblematica raffigurazione nel corpo disfatto della sentinella, che dal verso 4 parla in prima persona esprimendo tutta la sua disillusione per un mondo che si è ormai rivelato nella sua intima falsità e che solo forse il sentimento dell’amore, il rapporto d’amore con una donna, potrà riscattare, redimere.

Il secondo esempio è Viatico[24], pubblicata per la prima volta nella rivista «La Raccolta»  nel 1918, in cui sia il soldato ferito e in agonia sia i sopravvissuti sono accomunati da una condizione di sospensione del tempo e dell’essere e da un destino di morte ormai incombente su tutti.

            Diverso il caso di Giuseppe Ungaretti, che, com’è noto, parte volontario, combattendo sul Carso e nel 1917 sul fronte francese. Durante la guerra, nel 1916, pubblica il suo primo libro, Il porto sepolto, un “diario di guerra” sui generis, nel quale conduce la più radicale rivoluzione della poesia italiana del primo Novecento. Il libro, per meglio dire, venne pubblicato in uno stabilimento tipografico di Udine in soli ottanta esemplari, per l’interessamento di un amico di Ungaretti, il tenente-poeta anch’esso Ettore Serra. Ma in questa sede non è di questo che dobbiamo parlare. Vediamo piuttosto  qual è l’atteggiamento del poeta nei confronti della guerra. Ecco, egli all’orrore quotidiano, alla presenza  della morte reagisce con una reazione vitalistica e unanimistica, cioè sentendosi parte del tutto e cercando di raggiungere una identità collettiva, e trovando un rinnovato attaccamento alla vita grazie anche alla poesia. A questo proposito  così scrive Ungaretti:

Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo nuovo, in modo terribile… Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità tra gli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione, c’è esaltazione nel Porto Sepolto, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla quotidiana frequentazione della morte.

Esemplare, in tal senso, è Veglia[25], dove è presente il tema, visto anche in Rebora, del cadavere di soldato massacrato, alla cui vista il poeta reagisce “attaccandosi” ancora di più alla vita.

            Ma possiamo leggere anche Soldato (poi Fratelli)[26], dove emerge questo senso di fraternità nella sofferenza e della precarietà esistenziale, o Sono una creatura [27], in cui non c’è quel rinnovato impulso alla vita, ma una spinta alla reificazione proprio per dimenticare il dolore.

            Al contrario di Ungaretti, Eugenio Montale, che pure partecipò alla grande guerra comandando un avamposto in Vallarsa, affronta il tema del conflitto una sola volta, in un osso breve della raccolta Ossi di seppia, la sua prima raccolta poetica del 1925, dal titolo Valmorbia, discorrevano il tuo fondo[28]. Qui c’è una rilettura favolosa dell’esperienza bellica, lontanissima da quella tragica di Rebora e Ungaretti, in cui esiste, nonostante la guerra, una sintonia profonda tra natura e io che poi si sarebbe rotta. D’altra parte, sappiamo che a Montale non interessava, come lui stesso dichiarò in una occasione, «questo o quell’avvenimento storico», e sia pure di enorme rilevanza, come una guerra mondiale, ma «la condizione umana in sé considerata»[29].

[In A. L. Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, edizioni Sinestesie, 2020, pp. 167-181]


[1] G. Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Einaudi scuola, Milano 1991, p. 67.

[2] D. Piccioli, G. Piccioli, L’altra guerra, Principato, Milano 1974, p. 7. A questo volume, per comodità, faremo riferimento per alcuni testi da noi citati.

[3] Citiamo da D. Piccioli, G. Piccioli, L’altra guerra cit., p. 6.

[4] M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Laterza, Bari19732, p. 101.

[5] Il volantino è riportato anche in D. Piccioli, G. Piccioli, L’altra guerra cit., pp. 36-37.

[6] D. Piccioli, G. Piccioli, L’altra guerra cit., p. 34.

[7] Le due composizioni parolibere di Marinetti si possono leggere anche in Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella prima guerra mondiale, a cura di A. Cortellessa. Prefazione di M. Isnenghi, Bruno Mondadori, Milano 1998, rispettivamente alle pp. 132-133 e 134-135. Anche a questa antologia faremo riferimento spesso per alcuni testi  da noi citati.

[8] A. Cortellessa, La guerra-festa, in Le notti chiare… cit., p. 124.

[9] M. Isnenghi, Il mito della grande guerra cit., p. 191.

[10] Il brano è riportato in Le notti chiare… cit.,p. 125).

[11] G. Papini, Amiamo la guerra!, in «Lacerba», n. 20. 1° ottobre 1914.

[12] G. Papini, Le cinque guerre, in «Lacerba», n. 12, 20 marzo 1915.

[13] A. Palazzeschi, Neutrale, in «Lacerba», n. 24, 1° dicembre 1914.

[14] Ivi.

[15] A. Palazzeschi, Due imperi… mancati , Vallecchi, Firenze 1920, p. 192

[16] Ivi, p.194.

[17] Il brano è riportato in D. Piccioli, G. Piccioli, L’altra guerra cit., pp. 105-107.

[18] P. Jahier, Ma la patria…, in «Lacerba», n.. 28 ottobre 1914.

[19] Il componimento di Jahier è riportato in  Le notti chiare… cit.,  pp. 180-181

[20] Ivi, pp. 442-443.

[21] Il brano è riportato in D. Piccioli, G. Piccioli, L’altra guerra… cit., pp. 79-84.

[22] Cfr. il brano Calzati in modo da far pietà, ivi, p. 56

[23] In Le notti chiare… cit., p. 380.

[24] Ivi, p. 190.

[25] Ivi,  p. 187.

[26] Ivi, p. 188.

[27] Ivi, p. 451.

[28] Ivi, p. 485.

[29] E. Montale, Confessioni di scrittori  (interviste con se stessi) [1951], in Id., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p, 1591.

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