Scritti scolastici e sociali – Anno 2015

Nelle scuole della Nazione, in molti casi il tema fu messo assai poco gentilmente  e poco gentilianamente alla porta.

Come tutte le cose, quando teorie e metodi vengono applicati bene, con buon senso, con ragione, funzionano. Quando la loro applicazione è invece improvvisata, si verificano anche vere e proprie perversioni. Anche i nuovi modelli della didattica della lingua italiana ne hanno provocate. Forse non meno di quelle provocate dall’antico tema.  Ne riferisco soltanto una a titolo puramente esemplificativo: l’uso abbondante e trasversale delle schede o tracce o griglie di lettura. Tanto il fanciullo dell’elementare quanto il giovane  della superiore devono barrare una casella in cui si chiede, fra l’altro, se un’affermazione contenuta in un testo poetico sia vera o falsa. Come sarebbe a dire? Ma la letteratura non è quella cosa che impasta vero e falso fino al punto da non farli distinguere più? Anche a quel tempo c’erano coloro che si accorgevano delle esagerazioni e delle esasperazioni. Cito soltanto “Insegnare la letteratura”, edito da Pratiche nel 1979, con particolare riferimento al saggio di Cesare Cases intitolato “Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio”.

Dunque, l’esempio proposto qualche riga sopra (anche  banale perché se ne potrebbero proporre moltissimi altri meno banali) potrebbe indurre a pensare che, alla fine, è meglio una cosa antichissima fatta bene che una modernissima fatta male. Quindi: meglio un tema tradizionale svolto con stile e cognizione di quello di cui si parla che un’analisi testuale condotta senza criterio e in mancanza di strumenti adeguati alla bisogna. Dopo gli anni Settanta sono venuti tempi di riflessioni distaccate dagli schemi ideologici. Adesso forse si può valutare senza assumere posizioni a priori.  Adesso, per esempio, si può anche dire che imparare le poesie a memoria fa bene alla mente e un poco anche al cuore. Fino a qualche tempo fa non si poteva dire perché si veniva accusati di nozionismo e di riduzionismo. Adesso si può dire che il tema non costituisce la negazione della “scientificità”.

Per cui diventa veramente ozioso starsene a rigirare i soliti discorsi. Un tema, in fondo, non è altro che l’esposizione di conoscenze acquisite, un’argomentazione logica. Lo si può chiamare in un altro modo, ma quello resta. Se il tema è pensato come un’amplificazione retorica, come un esercizio di raffinatezza fine a se stesso, mescolanza di idee di seconda e terza mano, combinazione di frasi fatte, pratica di scrittura conformista oppure esito di un approssimativo concetto di creatività, esperienza di linguaggio  autocelebrativo e autoreferenziale, non solo non serve a niente ma può essere anche pericoloso. Come può essere inutile o pericoloso  qualsiasi altro  tipo di testo con le caratteristiche alle quali sommariamente si accennava. Se invece è struttura con una concreta motivazione comunicativa, progettata e realizzata con metodo, rappresentazione di un processo di costruzione logica, traduzione del rapporto tra l’oggetto e il soggetto  della scrittura, dimostrazione di conoscenze e di tecniche espositive, allora vale nella stessa misura di qualsiasi altro testo.

Nelle faccende che riguardano l’insegnare e l’apprendere, come in quasi tutte le faccende della vita,  la differenza sostanziale non  è data dai nomi che si attribuiscono alle cose ma dal modo in cui vengono fatte.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 7 gennaio 2015]

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Laurea inutile se il lavoro poi non si trova

I dati riportati da questo giornale sul numero dei laureati in Puglia, sintetizzano una situazione drammatica. Non c’è nessuna esagerazione nell’aggettivo. E’ la regione che conta meno laureati. Con il 13,2% viene dopo la Sicilia, la Sardegna, la Calabria, la Basilicata. Il dramma, poi, non si esprime tanto nel numero, quanto  nel fenomeno del calo delle immatricolazioni che nel 2013-14 sono state 17.879, e cioè 14,5% in meno. Per cui ci si chiede dove sono tutti gli altri. Ci si chiede se fanno parte dell’esercito dei dispersi, di quelli che abbandonano dopo un anno o due. Poi  ci si chiede perché si disperdono, perché abbandonano. Forse un orientamento sbagliato, forse una strada sbagliata. Forse la crisi che attanaglia, le famiglie che non arrivano a metà del mese e non si possono permettere di mantenere un figlio, più di uno, all’università.

Non si può negare, non si può neanche discutere la verità che la cultura, il benessere, lo sviluppo, il progresso, la qualità della vita, l’economia di una terra, la sua civiltà, dipendano quasi esclusivamente dal grado e dalla consistenza della formazione di chi la abita, dalla capacità di produrre pensiero nuovo, nuove occasioni, di stabilire relazioni, di reggere competizioni, di progettare, di stare tra i banchi del mercato del lavoro, di scambiare esperienza.

Tutto questo non si nega, non si discute. Si sa.

Come si sa che se anche una sola parte di un intero Paese rimane indietro, nessun altra parte può pensarsi avanti.

Quando si leggono questi dati, viene ovviamente spontaneo domandarsi quali possano essere i motivi che li determinano. E’ una domanda oziosa, perché i motivi li conosciamo tutti. Anzi, il motivo lo conosciamo tutti. In fondo il motivo è uno solo. Questo: la mancanza di un nodo tra il grado e la qualità della formazione e il lavoro. Nessuno garantisce che dopo essersi spaccata la schiena sui libri, poi si abbia la possibilità di fare quello per cui si è studiato. Si ha invece la certezza che è dal giorno dopo il conseguimento di una laurea che comincia il calvario. Uno frequenta corsi, master, stage, consegue abilitazioni, specializzazioni. Ma senza esito alcuno.  La cosa fa rabbia, indignazione. Ma più di ogni altro sentimento suscita, o dovrebbe suscitare un rammarico: in chiunque abbia avuto la minima possibilità di aprire varchi tra la formazione e il lavoro e non lo ha fatto: per incapacità, per indolenza, per indifferenza.

Certo, risulta indispensabile un raccordo tra scuola superiore e università: lo rilevava qui in un  articolo Stefano Cristante, qualche tempo fa. Occorre un progetto e un processo di orientamento graduale, sistematico, costante, in modo che lo studente abbia la possibilità di scegliere con consapevolezza, comparando, verificando se ha veramente l’intenzione di confrontarsi con la specificità di quegli studi. Ma soprattutto è urgente potenziare la sfera della motivazione, e la motivazione che assume più senso, più efficacia e più valore consiste nella probabilità – se non nella certezza- che dopo l’università si possa trovare un lavoro. Allora è indispensabile stringere il nodo fra università e mondo del lavoro; adesso si tratta soltanto di un tessuto sfilacciato. Liberare i giovani dall’umiliazione del precariato, della disoccupazione, della sottoccupazione. E’ l’unica condizione che può consentire la sopravvivenza di questa società.

Esiste una coincidenza pericolosa. Questo Sud che ha bisogno di una ripresa più forte, di più consistenti occasioni di sviluppo, si ritrova con un livello di formazione inadeguato rispetto non solo all’Europa ma al resto d’Italia. Non si può perseverare ad attribuire colpe alla Storia, benché la Storia abbia le sue colpe. Le colpe sono da attribuire al più recente passato, che non è ancora Storia ma cronaca che brucia,  perché non si è capito, non si è voluto capire, che gli ultimi vent’anni erano il tempo giusto per saltare il fossato del castello di una cultura talvolta autocelebrativa, autoreferenziale, e in qualche caso perfino folcloristica, per avventurarsi verso una cultura del confronto, del dialogo, della sperimentazione: del nuovo che si sviluppa dalla radice. Si potrà dire che ci sono le eccezioni. E’ vero: ci sono. Ma noi si vorrebbe che le eccezioni diventassero regola: che fosse regola l’eccellenza, la formazione per tutti e per ciascuno, che questa formazione garantisse un lavoro e che questo lavoro producesse altro lavoro e quindi pensiero, progetto, benessere, sviluppo, progresso. Il processo è circolare.

Viene da pensare che se siamo gli ultimi come numero di laureati è per il fatto che siamo i primi a soffrire per la mancanza di un ponte  tra l’università e il lavoro. Gettiamo questo ponte e saremo certamente i primi. Abbiamo ragazzi e ragazze con personalità e  intelligenze e maturità che non hanno nulla da invidiare a nessuno. Non lo si dice per amore della piccola patria, ma per una convinzione quotidianamente confermata.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 22 gennaio 2015]

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Ricordare il male perché non prevalga

Vengono tempi in cui il bisogno di memoria si fa più forte. Quando si ha l’impressione o la certezza che la Storia non sia riuscita ad insegnare nulla o quasi nulla, che le civiltà si lascino deturpare il volto dai morsi di una violenza assurda, che la convivenza sia squartata dall’insensatezza dell’odio, allora il bisogno di memoria si fa più forte. La memoria del Bene e del Male. Perché l’uno e l’altro si possono comprendere soltanto attraverso il confronto dei loro effetti. Forse si vive in uno di quei tempi, adesso: si avverte un più forte bisogno di memoria, che non sia episodica, non sia occasionale, non circoscritta all’evento che emoziona. Si ha bisogno di una memoria come ragione e come sentimento  ai quali fare riferimento nelle scelte individuali e collettive, nelle azioni che si compiono, nei significati che si attribuiscono ai fatti, nel valore che si riconosce alle idee, nella riflessione che si fa sui concetti fondamentali, essenziali.

Può servire anche a questo il “Giorno della memoria”, che la  legge 211 del 2000 istituisce per il  27 gennaio, e “Il Giorno del ricordo” che la legge 92 del 2004 istituisce per il 10 di febbraio.

La memoria è una condizione che sta fra natura  e cultura: appartiene alla nostra dimensione interiore, ad una sfera intima, profonda, essenziale.

E’ un territorio dell’esistenza che attraversiamo in continuazione, uno spazio dentro il quale cerchiamo di rintracciare le storie che ci riguardano, quelle in cui ci riconosciamo, che danno un senso – o a volte anche solo una giustificazione – al nostro essere come siamo.

Tutto quello che siamo e che conosciamo, le forme e le espressioni con cui esprimiamo il nostro essere e il nostro conoscere, sono una proiezione – consapevole o inconsapevole- della nostra memoria. La memoria è un archivio dinamico di esperienze. Consente di riconoscere e valutare quello che è stato fatto o non è stato fatto, che è stato bene o che è stato male, che è stato giusto o è stato sbagliato, le coerenze, le incoerenze, le contraddizioni, i sogni e le utopie che hanno spinto gli uomini verso orizzonti sfolgoranti e le perversioni che li hanno oscurati.

Però un uomo ricorda finché può ricordare. E’ nel punto, nell’istante in cui la capacità di memoria individuale si indebolisce o si azzera, che si entra negli spazi e nei tempi della Storia. La relazione con la Storia comincia quando si commisura la propria conoscenza con quella determinata dalla correlazione, strutturata in modo organico e coeso, di innumerevoli memorie personali.

E’ a questo punto che si genera la necessità di una educazione alla memoria. L’educazione alla memoria avviene necessariamente attraverso un’esperienza di conoscenza. Non c’è scienza che non sia memoria. E’ memoria la fisica, la medicina, la chimica, l’astronomia, la tecnica, la tecnologia. E’ memoria  una lingua. Ogni parola viene da lontano: porta concetti che sono l’esito di azzardi di pensiero, di prudenze e riflessioni, di una scoperta attraverso il caso, forse, e poi di una sistematizzazione del caso. Si educa alla memoria ogni volta che si pronuncia una parola, che si disegna una figura geometrica, si apprende una regola grammaticale, si ascolta una musica, si guarda un dipinto. Si educa alla memoria quando si insegna a non fare lo stesso errore, a non fare confusione fra i verbi, perché i verbi sono rappresentazioni del tempo e il tempo è memoria. Si educa alla memoria ogni volta che si nominano le cose, che si individua e si stabilisce una reciprocità tra i nomi e le funzioni dei fatti e delle creature.

L’identità non è altro che un esito della memoria. Ci si potrebbe domandare se il progetto e l’oggetto comune non siano quelli della scoperta e della riscoperta dell’identità. Ci si potrebbe chiedere se non sia questo il progetto specifico della fisica, della biologia, delle religione, della letteratura, della chimica, della filosofia, della psicologia, di ogni scienza, di ogni ragione e passione di conoscenza.  E’ la comprensione delle radici dell’identità che può sviluppare il sentimento e la ragione della solidarietà, della giustizia, della libertà, dell’essere tra gli altri, con gli altri, soprattutto per gli altri.

Diceva Paul Ricoeur che è nella misura in cui torniamo alle nostre origini e in cui ravviviamo il nostro passato che possiamo essere, senza scontentezza, gli uomini del progetto. Ma in questa tensione verso il progetto, il passato ci interpella continuamente.

Non c’è disciplina di insegnamento che non sia memoria. Senza memoria non esisterebbe una disciplina da insegnare. Una disciplina è memoria elaborata, sperimentata, verificata, codificata, trasmessa.

Allora ogni volta che si insegna qualcosa a qualcuno, ogni volta che qualcuno apprende qualcosa, riaccende, riattiva una memoria.

Riaccendere, riattivare la memoria, è dovere di tutti e di ciascuno,

indipendentemente da qualsiasi connotazione generazionale. Ma sono soprattutto i giovani che hanno il privilegio della responsabilità della memoria.  Perché sono loro che hanno bisogno di conoscenza e di coscienza del passato per poterne potenziare le virtù e neutralizzarne i vizi. Perché sono loro  che si ritrovano a dover scegliere se mantenere o cambiare il modo di essere, di vivere, di pensare, di agire, di valorizzare gli altri e se stessi. Perché sono i giovani che devono decidere quali storie far correre per il mondo, con quali personaggi, quali trame, quali intrecci, in quale modo debbano cominciare, con quale debbano finire.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 26 gennaio 2015]

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L’arte dell’innesto. Il sapere residuo per dirsi maestri

Nella storia dell’uomo e nel suo immaginario c’è un adulto che insegna a un bambino: un padre, una madre, un maestro di scuola, un maestro artigiano, qualcuno che indica una strada, che mostra come si fa. In quell’atto di insegnamento c’è il disvelamento di un mistero. Perché, nella profondità del senso, insegnare vuol dire sciogliere i misteri. Qualcosa che sappiamo che esiste ma di cui non ne conosciamo la natura e il funzionamento, all’improvviso o gradualmente  si dischiude, si apre, mostra le sue regole, i suoi meccanismi, e noi ci confrontiamo con questo oggetto della conoscenza, ne facciamo esperienza.

Le lettere, i numeri, celano misteri. Poi si compongono le lettere, si combinano i numeri, e i misteri si sciolgono.

Ci sono pagine straordinarie sul miracolo che è l’imparare a leggere, per esempio: tra queste ce ne sono alcune di Jean-Paul Sartre, ne “Les mots” che Luigi De Nardis tradusse per Il Saggiatore nel 1982 con il titolo “Le parole”. In una Sartre esprimeva una certezza che in parte poteva essere soltanto un’aspirazione, una speranza: “Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la finirò: tra i libri”. Finire la vita in un certo modo non è altro che una speranza.

C’è sempre stato un adulto che ha insegnato a un bambino, dunque. Le cose che si dovevano insegnare cambiavano di poco, in fondo, e i metodi, gli strumenti fondamentali erano sempre quelli. Così sono andate le cose nello sviluppo della cultura; così è avvenuto il processo di formazione, da generazione a generazione. Fino a un certo punto: fino a questa epoca. In quest’epoca, per la prima volta, la relazione tra chi insegna e chi apprende per molti aspetti ha invertito le posizioni. Ora, per la prima volta, è  il nuovo venuto che svela i misteri a chi c’era prima di lui. Michel Serres, il filosofo ed epistemologo francese – di cui ricordo un saggio affascinante intitolato “Il mantello di Arlecchino” – ha scritto che, senza rendercene conto, nel tempo che va dagli anni Settanta ad oggi, è nato un nuovo essere umano.

Il nuovo essere umano ha occhi, braccia, gambe, che sono esattamente come gli occhi, le braccia, le gambe del vecchio essere umano. Però ha un altro pensiero. Conosce cose che colui che c’era prima di lui non conosce; ha una modalità di apprendimento che molto spesso si rivela incompatibile con le modalità di chi deve insegnare; usa linguaggi e strumenti con una naturalezza che gli consente di governarli e di adattarli alle sue intenzioni, ai suoi progetti. Certo, anche chi deve insegnare può imparare l’uso di quei linguaggi e di quegli strumenti, ma può apprenderli da quel “nuovo essere umano” che già li conosce. Ecco, dunque, l’inversione delle posizioni tra chi insegna e chi apprende.

Allora  si potrebbe anche dire che l’adulto non ha più nulla da insegnare. Si potrebbe anche dire così, ma sarebbe del tutto sbagliato perché un’affermazione del genere non terrebbe in considerazione quella che è la dinamica fondamentale del processo di costruzione  del sapere, che consiste sostanzialmente in una costante integrazione del vecchio e del nuovo, ad ogni livello: pensiero, codici, strumenti, processi, esperienze.

A questo punto, in quest’epoca, l’adulto ha da insegnare l’arte dell’innesto.

E’ difficile l’arte dell’innesto: ha bisogno di una visione complessiva e particolare, di intuizione e di sapienza, di mano ferma e di una precisa cognizione di quello che con l’innesto si vuole ottenere.

La cultura che abitiamo è già l’esito di questo innesto: mette insieme codici diversi, è polimorfa, ramificata, ibrida; la cultura dei tempi che verranno lo sarà ancora di più. Forse è questa condizione, questo continuo movimento in divenire, l’interconnessione di più dimensioni, la frammentarietà e la discontinuità dei processi, che determinano la complessità.

Ecco, dunque, che l’adulto si ritrova un altro impegno, un’altra responsabilità di insegnamento, che consiste nel fornire i metodi di interpretazione della complessità. E’ l’interpretazione che effettivamente introduce nei linguaggi del mondo, che consente di rendersi partecipe e di intervenire, di riflettere sui significati e di agire in funzione delle loro motivazioni e delle loro finalità. Le generazioni che arrivano hanno un rapporto con la complessità del tutto naturale. Di conseguenza possono ritrovarsi nella situazione di non riuscire a distinguere l’elemento logico da quello intuitivo, la sfera del reale da quella del virtuale, il particolare dall’insieme, il falso dal vero, la natura dalla cultura. Possono anche non riuscire a portare la loro visione delle cose oltre gli schemi e gli schermi che le forme e le espressioni della cultura propongono.

L’insegnare ad andare oltre, a guardare sul fondo e a non fermarsi in superficie, a scoprire i sensi nascosti delle storie e delle cose, è l’insegnamento essenziale che spetta all’adulto.

Per insegnare questo, probabilmente, c’è bisogno di tramare la cultura nuova di significati antichi: di quei significati che per secoli e secoli si sono riverberati nella cultura di ogni epoca, rigenerandosi. Probabilmente c’è bisogno di considerare la cultura per quello che è, con le sue stratificazioni, le contraddizioni, le antinomie, con il suo intreccio di conoscenze e di esperienze. Allora, probabilmente, non se ne potrà fare a meno: ci sarà sempre un adulto che insegnerà qualcosa ad un bambino, a un ragazzo, con tutta l’umiltà che deve avere chiunque pensi di poter insegnare qualcosa.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 4 febbraio 2015]

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Dal Classico allo Scientifico: la formazione che serve

Non si possono avere dubbi di nessun genere sul fatto che la formazione debba essere funzionale, se si vuole che debba anche “servire”. Il problema consiste solo nel definire a che cosa debba essere funzionale, a che cosa debba servire. Di tanto in tanto ricorrono occasioni che sviluppano dibattiti, alcuni dei quali davvero anacronistici e pedanti, altri certamente interessanti e coinvolgenti come quello tra Giorgio Israel e Ferdinando Boero, ospitato alcuni giorni fa sulle pagine di questo giornale.

A cosa deve servire la formazione, dunque, il conoscere, il sapere.

Forse ci si dovrebbe chiedere, preliminarmente, quale sia il sapere che non serve, se esista questa forma di sapere, se sia mai esistita nella storia dell’uomo e della civiltà. Così, ad impatto, verrebbe da rispondere che l’espressione sapere che non serve costituisca una contraddizione sostanziale. Non riesco ad individuare una sola situazione, condizione, circostanza, in cui qualcosa che si è appreso non risulti utile ad esprimere un pensiero, a risolvere un problema, a dare e soprattutto a darsi una risposta. Non riesco ad individuare una sola dimensione dell’esistere nella quale una conoscenza non si riveli utile, funzionale. Si sa che quando si pronuncia il termine esistenza, diventa problematico scomporla in settori e stabilire che cosa serva ad essa e che cosa no, perché, probabilmente, c’è un istante in cui serve tutto quello che si è appreso e ce n’è un altro in cui  serve soltanto una cosa precisa, e poi ce n’è un altro ancora in cui serve quello che si è dimenticato o di cui si ricorda qualcosa molto approssimativamente.

C’è un istante in cui si ha bisogno di spiegarsi un fenomeno del cielo attraverso le leggi dell’astronomia e un altro che richiama la suggestione di un verso di Leopardi, e basta quella suggestione per comprendere. Allora forse si potrebbe accennare una risposta dicendo che la conoscenza serve o non serve in relazione all’istante che si vive.

In questo senso potrebbe rivelarsi azzardato operare una distinzione tra conoscenze inattuali, inattive, ed altre attuali ed attive. Si potrebbe, casomai, operare questa distinzione per i contenuti, ma non per la struttura sulla quale si innestano i saperi.

Tutto il nuovo che viene, tutta la ricerca, tutta la tecnica e la tecnologia, l’interpretazione dei fenomeni della contemporaneità e la delineazione degli orizzonti di futuro, trovano la loro origine proprio nella struttura. Quanto questa è più solida tanto più produce e sviluppa  conoscenze nuove. Per cui nella realizzazione della struttura non si dovrebbe aprioristicamente stabilire quello che serve o che non serve. Alla struttura cognitiva è necessaria ogni disciplina, il greco e la chimica, la fisica e la filosofia, la storia dell’arte e la geografia. Ogni disciplina, senza distinzione, considerando che  ciascuna per sé e l’integrazione equilibrata e flessibile  di tutte  contribuisce a determinare la conoscenza e quindi anche i comportamenti. Probabilmente l’hooligan non avrebbe sfregiato la fontana della Barcaccia se oltre che barbaro e ubriaco non fosse stato anche ignorante, se avesse avuto cognizione del senso e del valore dell’opera.

Poi, esiste certamente una formazione che dev’essere orientata al lavoro, che  ha necessità di un particolare approfondimento, di una specializzazione, ma anche in questo caso gli apporti di conoscenze diverse, provenienti da altri ambiti disciplinari, si rivelano opportuni e  virtuosi. Dice Howard Gardner in “Sapere per comprendere” che le questioni non si fermano mai ai confini di una disciplina. Spesso è necessario andare oltre le discipline e cercare una sintesi. “La scienziato che studia la teoria di Darwin, lo storico dell’Olocausto e chi analizza la musica di Mozart, sono ugualmente impegnati a cercare di risolvere problemi concernenti delle verità, anche se si tratta di verità che possiedono un diverso status epistemologico”. Se è indispensabile che una disciplina conduca l’indagine nell’ambito dei suoi territori, forse è necessario anche che ad un certo punto sconfini in altri territori, perché l’oggetto culturale è polimorfo, multidimensionale, eterogeneo, fatto ad incastri, combinazioni, stratificato, soggetto a mutamenti e trasformazioni. Forse per comprenderlo  si devono adottare anche procedure oblique, laterali, trasversali, che spesso fanno ritornare sui passi, ripercorrere le strade; quando si ripercorrono le strade spesso ci si accorge di qualcosa che prima era sfuggito.

Anche in questo senso l’esperienza del conoscere è annodata all’esistenza, con quello che di essa si manifesta e con quello che resta dentro, con l’esplicito e con l’implicito. Non può essere diversamente. Non è possibile trascurare, neppure minimamente, la condizione dell’umano nella sua dimensione storica, nella sua esperienza del qui e dell’ora, nell’autorappresentarsi in un futuro. Allora diventa difficile, forse impossibile, stabilire quale sia il sapere che serve e quello che non serve; diventa arbitrario escludere perché quello che sembra non servire oggi potrebbe risultare utile o indispensabile domani, domani l’altro.

Certo, chi studia ha bisogno di comprendere l’immediata applicabilità  alla sua esistenza degli apprendimenti scolastici.  Ma non è eliminando o potenziando una o un’altra disciplina che si può rispondere a questo bisogno.  Probabilmente si può fare attraverso la tessitura  di una rete curriculare che privilegi gli aspetti problematici: nella matematica come nella letteratura o nella scienza. Si deve creare una nuova coscienza dell’essenzialità del sapere, attraverso metodologie che riescano a far sentire appartenente a ciascuno ogni contenuto  di apprendimento. Si deve riuscire a spalancare le porte – talvolta sbarrate – dei palazzi di ogni disciplina per far entrare il vento di quell’umanità da cui ogni sapere nasce ed alla quale è destinato.

Senza questo vento diventerà sempre più forte il ristagno delle conoscenze e la distanza che le separerà dalle  generazioni che verranno si farà sempre più difficile da colmare. Così avremmo una società  di ideali pratici, interessi pragmatici, orizzonti utilitaristici. Ma senza storia. Senza passione. Senza memoria. Forse  più ricca, chissà. Certamente più grigia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 23 febbraio 2015]

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Lavoratori poveri oggi, pensionati poveri domani

Quelli che hanno un’età dai venticinque ai trentacinque, che fanno un lavoro da mille euro al mese, e che ad avercelo, un lavoro, sono comunque fortunati, saranno i pensionati poveri di domani, tristemente, straordinariamente somiglianti ai pensionati poveri di oggi. Una delle grandi costanti speranze di qualsiasi generazione è quella che la generazione che viene dopo si trovi in una migliore condizione. Ma erano anni che si sospettava che la speranza sarebbe andata delusa, per una serie di circostanze: il fatto che si cominci a lavorare tardi, che il lavoro sia così e così, che le riforme pensionistiche tendano a stringere la borsa. Adesso il sospetto viene confermato da una ricerca condotta dal Censis e dalla Fondazione Generali. Dice la ricerca che il 65% dei giovani occupati dipendenti con quell’età che si diceva sopra avranno una pensione sotto i mille euro. Con questo gruzzolo dovranno affrontare tutto quello che affrontano i pensionati di oggi, probabilmente anche qualcosa di più, probabilmente anche incognite più dure. Conteranno poco e forse niente gli eventuali avanzamenti di carriera. Non si sa nemmeno se la norma consentirà loro di lavorare più a lungo e quanto l’eventuale lavorare più a lungo inciderà sulla pensione.

E’ evidente che il circolo è vizioso. Si lavora tardi, si guadagna poco, sono pochi i contributi che si versano, per cui la pensione è leggera leggera.

Ma la realtà ancora più drammatica è che non esistono segnali d’inversione di tendenza né esistono soluzioni tra cui scegliere. Perché l’unica soluzione sarebbe quella di creare condizioni perché s’inizi a lavorare prima. La cosa risolverebbe i problemi di occupazione, di contribuzione, di pensione. Significherebbe investire sulle risorse umane, sulle intelligenze, sulla competizione che determina innovazione, crescita, sviluppo.

Viene da pensare che un’esistenza dal salario risicato con la conseguenza di una pensione risicata, si ripiega su se stessa, si accartoccia. L’orizzonte di benessere è fondamentale per l’entusiasmo che si mette nelle cose che si fanno, o quantomeno per l’impegno.

Accade non di rado che la mancanza di certezze nel presente e di prospettive di futuro frastornino, disorientino, deconcentrino.

Ma probabilmente è proprio nell’età che va dai venticinque ai trentacinque che ci si sente addosso un’energia straordinaria. È quella l’età in cui si osa con più facilità, in cui si guarda più lontano. Quando quello che si vede guardando lontano è offuscato dalla nebbia dell’incertezza, si avverte una sorta di timore dell’osare. L’incertezza provoca una limitazione della liberta: ci si muove nei contesti dell’acquisito, degli obiettivi che altri hanno già raggiunto, perché questo garantisce un risultato. L’andare oltre, lo sperimentare, richiede coraggio, e, umanamente, nelle faccende di ogni giorno, per uomini e donne comuni, che non si sentono, non sono e non vogliono essere eroi, il coraggio ha bisogno di un conforto. Come si dice, bisogna sentirsi le spalle coperte.

Quelli che hanno tra i venticinque e i trentacinque anni, le spalle coperte non ce l’hanno adesso e non ce l’avranno nemmeno domani. Così si avventurano poco. Ma un Paese non può fare a meno dell’avventura creativa dei giovani; non può fare a meno della loro intraprendenza, della loro creatività, del loro pensiero diverso, della loro visione ulteriore, del loro entusiasmo. Altrimenti s’impaluda, non si sviluppa, non si rinnova in nessun settore.

Accade, alle volte, quando si ha un’età che va dai venticinque ai trentacinque, accade, anche per un istante solo, che si pensi ad una maturità serena: ad una stagione da pensionati senza orari, senza scadenze, senza agende da tenere sotto gli occhi continuamente; accade che si pensi a mattine pacate, senza affanni, a camminate solitarie in riva al mare, a viaggi verso luoghi sconosciuti. Accade che si pensi a starsene in buona salute con una tranquillità economica, per il fatto che a quel punto si sarà già dato: tutto quello che si doveva, tutto quello che si poteva. Spesso con passione, senza risparmiarsi, senza fare il conto mai delle ore lavorate in ciascun giorno. Non si pensa, non è naturale pensare, che si dovrà risparmiare al mercato della frutta, che si dovrà rivoltare il bavero del cappotto, evitare di comprarsi un altro paio di scarpe. Però pare che così sarà, per quelli che adesso hanno un’età che va dai venticinque ai trentacinque. Pare che sarà esattamente com’è per quelli che adesso ne hanno settanta e di più. La Storia molto spesso si ripete. Offensivamente.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 3 marzo 2015]

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Dal latino all’inglese: come parla il falso colto

Una volta c’erano quelli che per palesare il proprio essere colti, dotti, eruditi, per testimoniare l’aver frequentato scuole alte, o per raggirare un qualsiasi povero Renzo che per un caso o per l’altro  gli capitava davanti, come Don Abbondio infiocchettavano il loro parlare con espressioni latine con le quali intendevano un poco stupire e un poco intimidire, per cui dicevano: ignorantia legis non excusat; vulpes pilum mutat, non mores; sic stantibus rebus;  in dubio pro reo; in primis et ante omnia; e cose di questo genere insomma.

Una volta. Ma i tempi cambiano, e cambiano le lingue, e cambiano anche le modalità dell’esibizione lessicale, per cui nei discorsi non s’intercala più il latino, ma l’inglese. Per cui parliamo  in itanglese o  itangliano.

Così  si dice  leasing, franchising,  reading,  mailing list, abstract, all inclusive, austerity e authority, badge e benchmark, benefit, best pratices, business, location, mission, vision, workschop, il mio target, faccio il ticket.  Facciamo un briefing con lo staff del manager e al break  andiamo al self service. Si può dire ugualmente e anche meglio in italiano. Si può dire –  e  sopportare- in italiano la spending reviewL’unica eccezione ammissibile sarebbe la chewing gum nella  traduzione dialettale in cigomma che si faceva da bambini.

Certo, chi non conosce l’inglese avverte quasi un senso di colpa per non poter leggere in lingua “La terra desolata” di Eliot, o “La ballata del vecchio marinaio” di Coleridge, o “L’antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masterssente sulla propria pelle la precarietà del doversi accontentare delle traduzioni – in verità eccellenti-  rispettivamente di Roberto Sanesi, di Mario Luzi, di Fernanda Pivano. Però si deve pur ammettere che questa è tutta un’altra storia rispetto all’uso ingiustificato  che si fa di termini e locuzioni inglesi quando esiste un corrispettivo italiano.  La pratica ormai ha fatto la muffa del provincialismo.

Sarà stato anche  questo lezzo di muffa che si spande il motivo per il quale la pubblicitaria Annamaria Testa ha lanciato una petizione per invitare governo, amministrazioni pubbliche, media, imprese, cittadini, ad usare l’italiano quando  un’altra lingua non è affatto necessaria.

E’ vero che una lingua si sviluppa anche  attraverso l’infiltrazione di forestierismi. L’integrazione, la contaminazione, la trasformazione, sono le condizioni che consentono ad una lingua di rigenerarsi continuamente, di aderire alle mutazioni sociali, ai nuovi bisogni di comunicazione, di risultare coerente con il tempo di cui costituisce l’espressione. Uno dei fenomeni sociali più affascinanti è il divenire della lingua, la varietà delle sue forme, la diversità della parola tra generazioni, i gerghi che connotano un’appartenenza, i neologismi, i tecnicismi necessari, talvolta indispensabili,  che raccontano l’arrivo di cose nuove, di una scienza che scopre. Una lingua cambia col tempo perché appartiene al tempo. È  il tempo che determina il suo lessico, le sue strutture. La lingua rappresenta il tempo, lo esprime sotto forma di documento, di poesia, di narrazione, di filosofia, di canto, di proverbio, di preghiera.

Ci sono concetti che devono essere compresi da tutti e l’inglese è una lingua planetaria.

Ma la comprensione ha una relazione con i contesti. In un convegno internazionale di genetica, biologia, fisica, medicina, economia, sarebbe probabilmente inopportuno che non si parlasse in inglese.

Non è certamente questo il problema, dunque. Il problema sta nell’uso inutile, nella parola posticcia, nell’interferenza fastidiosa, nell’intromissione indebita, nell’arbitrio lessicale, nella presunzione dell’internazionale quando non è altro che qualunquismo provinciale.

Se il  purismo linguistico è anacronistico e noioso, l’esterofilia fa ridere finché è innocua, fa rabbia quando inquina, come fa rabbia l’inquinamento dell’aria e del mare. Per cui a qualcuno può anche far rabbia se durante il telegiornale della televisione italiana per la quale ha pagato  tempestivamente il canone facendo la fila all’ufficio postale italiano, dicono che lo spread è in discesa o in salita, con triplo salto mortale nella pronuncia. Perché magari il regolare abbonato  non ha imparato l’inglese in quanto impegnato a imparare l’italiano, e ha il diritto di capire di che si tratta, soprattutto se quello di cui si tratta in qualche modo riguarda i quattro soldi che risparmia per pagare le tasse in Italia fra cui quelle relative alla radiotelevisione italiana.

In fondo è una semplicissima questione di democrazia. La democrazia comincia dalla lingua di tutti, per tutti, dalla comprensione dei significati che consente la possibilità del consenso o del dissenso.

Una lingua è democratica se non alza polvere  che offusca la pista del discorso,  la visione dei fatti e il nitore del pensiero. Una lingua è democratica se non è ambigua,  non frastorna, non confonde. E’ democratica se è onesta, se si offre al dialogo, se si apre al confronto. Se rispetta l’identità di ciascuno. Lingua e identità culturale sono concetti sempre interdipendenti, molto spesso speculari. Esprimono e connotano realtà esistenziali e modi di pensare, visioni del mondo, sfere dell’immaginario collettivo e individuale, credenze, superstizioni, miti, riti, fedi, territori del razionale e dell’irrazionale. Una lingua esprime e rappresenta una provenienza, una condizione filiale, un’origine. Si può parlare e scrivere in inglese, in arabo, in latino, in greco e in dialetto, a condizione, però, che ci sia la certezza che colui che ascolta o che legge sia in grado di capire. Quando una lingua non è democratica, molto spesso nasconde un imbroglio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 17 marzo 2015]

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In occasione della giornata mondiale della poesia (21 marzo)


Tempo e profondità, misure della poesia

In questo tempo che talvolta pare così superficiale e vacuo, così attratto dall’effimero, dall’apparenza, dalla ridondanza, dal pragmatismo, dal fine pratico,  dall’utile immediato, che senso può avere una poesia. Che senso può avere durante le giornate che sembrano una giostra, mettersi un piccolo libro di poesia nella tasca, tirarlo fuori all’ora della pausa pranzo, tenersene uno in macchina sul sedile accanto, ed aprirlo a caso mentre si fa la fila, al rosso del semaforo, e leggere qualche verso, come capita. Che senso può avere quando tutto e tutti intorno chiedono, pretendono,  rapidità, efficacia, efficienza, dare al proprio pensiero un respiro più lungo, più profondo, sottrarlo per qualche istante all’ideologia dell’usa e getta. Che senso può avere, ancora, in un’aula di scuola insegnare non come si legga una poesia ma come alla poesia ci si appassioni, e far capire perché è necessaria, oggi più di ieri, più che in ogni altro tempo, forse.  Una poesia, una letteratura.

Per il 21 marzo la XXX Sessione della Conferenza Generale Unesco ha istituito la Giornata mondiale della poesia, riconoscendo a questa espressione del linguaggio dell’uomo un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comprensione, della diversità linguistica e culturale, della comunicazione e della pace.

In una conferenza sugli esuli tenuta a Vienna nel dicembre del 1987,  il Nobel  Josif Brodski disse che la letteratura “è un dizionario, un compendio di significati per questo o quel destino umano, per questa o quella esperienza. E’ un dizionario della lingua nella quale la vita parla all’uomo. La sua funzione è quella di salvare il prossimo uomo, un nuovo venuto, dal pericolo di cadere in una vecchia trappola, o di aiutarlo a capire, se mai dovesse cadere comunque in quella trappola, che è stato colpito da una tautologia. Così sarà meno allarmato – sarà in qualche modo più libero”.

Interrogarsi sul senso dell’insegnamento della poesia, della letteratura, significa, dunque, interrogarsi sul senso  dell’insegnamento in generale, sui suoi orizzonti, sulle sue funzioni, sulle necessità ( forse anche le urgenze), sulle finalità e gli obiettivi, i concetti di sfondo e di fondo; significa capire se l’insegnare abbia in modo connaturato o debba stabilire in modo pedagogicamente elaborato una relazione con i destini umani – individuali e collettivi – , con le esperienze del sapere maturate nel tempo e nello spazio. Perché insegnare una poesia, una letteratura,  significa esplicitare la sua relazione con la realtà, con la vita, con le forme del mondo, le rappresentazioni del tempo, con i dolori e gli stupori degli uomini, con le loro ragioni  e le loro passioni. Senza questo archivio sconfinato di fenomeni e di storie la sua esistenza non sarebbe possibile, e se fosse possibile non avrebbe alcun senso.

Tra la vita e la letteratura il rapporto è  sostanziale; l’una e l’altra si scambiano e contemperano orizzonti e funzioni.

E’ la letteratura che restituisce, attraverso la finzione che è la sua natura, il senso del tempo, delle storie, dei fatti, la possibile trasferibilità dei loro significati, che concede a chi la frequenta di entrare e di uscire da un tempo che non gli appartiene, di incontrare esistenze mai conosciute, di comprendere da testimone diretto quali sono quegli elementi che decidono sommosse e ribellioni, la guerra e la pace, gli amori e i disamori, piccole situazioni private e grandi scelte che incidono sulle sorti di tutti e di ciascuno.

La letteratura è quel luogo della cultura dove tutto quello che può avvenire e già avvenuto.

Insegnare la letteratura significa insegnare a dislocarsi: ad essere in ogni luogo ed a porsi nelle condizioni di comprendere il luogo, di sentirne la natura essenziale, di confrontarlo con altri luoghi, di abitarlo con consapevolezza per quanto dura una descrizione, una pagina, un solo verso.

Significa insegnare a ripensare la descrizione, la pagina, il verso, e quindi a ritornare, ad esplorare la propria memoria, a percepire la relatività della lontananza e la possibilità di abolirla attraverso la presenza della parola.

Insegnare la letteratura significa insegnare a vivere ogni tempo, a pensarsi nella condizione di esistere in una realtà simulata, in un territorio governato dal reale e dall’immaginario, a sentire la Storia come l’esito degli intrecci di innumerevoli storie vere o inventate, oppure – come spesso accade – un po’ vere e un po’ inventate.

Ma soprattutto: insegnare la letteratura significa insegnare ad incontrare ed a comprendere l’altro,  storie di esistenze che si cercano o che si rifiutano, che si rincorrono o che si allontanano, che si contemperano o che si dilacerano.

Ecco. Forse è questo il senso  di una poesia in questo tempo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 20 marzo 2015]

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Digitali o di carta? L’importante è che ci siano i libri

Li immaginiamo con i loro libri digitali, con le dita che scorrono sul display, forse a disagio con un dizionario, un vecchio atlante, un romanzo di carta. E’ anche così, ma non soltanto così. Anzi è così soltanto in parte, in minima parte. Hanno dieci, quindici, vent’anni, per loro il digitale è un universo naturale, però usano ancora i libri di carta. Fanno le orecchie alle pagine, ne evidenziano le parti con diversi colori, li sottolineano a penna, a matita, appuntano note ai margini, lasciano le impronte delle dita sudate, qualche briciola di crackers  che si annida tra una pagina e l’altra. Studiano su quelle pagine, leggono racconti su quelle pagine, come si è fatto per secoli.

Ho preso alcuni appunti sull’argomento negli ultimi giorni.

Secondo una ricerca condotta dal “Washington Post”, soltanto il 9 per cento degli studenti universitari americani usa gli ebook. Gli altri comprano i libri di carta, magari anche usati, se li portano sulle  spalle negli zaini. Come facevano quelli che adesso di anni ne contano cinquanta e di più, che per la verità non avevano nemmeno gli zaini ma un elastico che stringeva i libri e il panino, e la carta assorbiva un giorno l’odore della melanzana e l’altro quello della mortadella.

Naomi S. Baron, linguista alla American University, ha pubblicato recentemente un libro – che non ho ancora letto – intitolato “Words Onscreen: the Fate of Reading in a Digital World”. Ho letto, però, in alcune recensioni che Baron sostiene la necessità di  riflettere con molta attenzione sul fatto che sia in atto un crescente rifiuto degli studenti per le letture lunghe. In America il sistema scolastico compra milioni di tablet e computer per le classi, promettendo libri di testo più facili da aggiornare, costi più bassi, meno problemi alla schiena dovuti al peso dei libri e più interattività. Ma i potenziali danni non sono stati considerati. “Cosa sta succedendo all’istruzione in America? Questa è la cosa che mi preoccupa. Cosa sta accadendo alle menti degli americani?, si chiede Naomi Baron.

Altri appunti. Paolo Di Stefano sul “Corriere della sera” scrive che forse spingere gli studenti, fin dalle prime classi, verso l’ebook è una delle tante forme di irresponsabilità adolescenziale degli adulti.

Forse questo è il tempo di mettersi a riflettere, allora: di mettersi a riflettere seriamente.

Lo sanno tutti che gli strumenti della conoscenza incidono in modo significativo sulla sua qualità. Si sa anche che il libro di carta ha garantito una certa qualità del sapere. Certo, si può discutere se in alcuni casi quella qualità sia risultata adeguata, se sia  stata coerente con i bisogni e le richieste; resta comunque il fatto, indiscutibile, che con il sapere ricavato dai libri si è prodotta scienza eccellente, eccellente letteratura, e diritto e filosofia e ogni altra disciplina in maniera eccellente.

Non si può dire che questo non possa accadere anche con i libri digitali. Ma non si può neanche sostenere che accadrà certamente.

Probabilmente la virtù sta nel mezzo, come sempre. Se non si può e non si deve rifiutare l’opportunità ulteriore che offre un nuovo strumento di informazione o di formazione, non si può e non si deve nemmeno aderire al nuovo che avanza incondizionatamente, senza adottare il metodo del dubbio, senza sottoporre le forme e gli strumenti della conoscenza a verifica, a valutazione  culturale degli esiti e, prima ancora, dei processi.

In fondo si tratta dell’antico insegnamento di Platone.

Non ha ragione il re Thamous quando nel “Fedro” dice al dio Theuth che quelle lettere che lui aveva inventato avrebbero generato la dimenticanza nelle anime di chi le impara, per incuria della memoria, in quanto fidando sulla scrittura avrebbero imparato dal di fuori, per segni estranei, non di dentro, da se stessi, e sarebbero stati uditori di molte cose senza impararle, sarebbero diventati saccenti invece di saggi.

Probabilmente la storia non esisterebbe senza i libri che la raccontano: esisterebbero fatti che cominciano e finiscono, vite che nascono e che muoiono, incontri che accadono e si dimenticano, episodi isolati, senza nesso,  circostanze che provengono dal vuoto e nel vuoto precipitano.

Forse si potrebbe dire: basta che ci siano libri; di che materia siano fatti non importa: di carta, di pietra, di righe che scorrono sopra  una superficie luminosa; non importa. Basta che ci siano libri. La pluralità delle forme dei libri è l’espressione coerente della pluralità dei saperi. L’importante è che si usi la forma adeguata alla finalità ed alla situazione. Non saprei dire se con un ebook si possa studiare, ma ho l’impressione che sia difficile, che la pagina tenda a sfuggire. Per studiare occorre che tra gli occhi, la mente e la pagina si stabilisca una relazione d’intensità; per studiare si deve scavare fino al fondo di una sola parola, a volte, elaborare il suo significato, collegarlo a quello di altre parole. C’è bisogno della profondità della riflessione. Se con un ebook è possibile fare questo, allora va bene, benissimo. Se non è possibile, allora si devono usare ancora i vecchi libri di carta. Mi pare che molti abbiano sostenuto che l’ebook non consente l’approfondimento. Non si può escludere che non giungano smentite sulla base di ulteriori osservazioni e verifiche. Ma nel frattempo forse  sarebbe necessario stabilire che tipo di cultura vogliamo per il tempo presente e per quello a venire tra breve. Che tipo di conoscenze e competenze s’intendono formare. Gli strumenti del sapere cui siamo abituati consentono certezze tanto delle possibilità quanto dei limiti. Quelli per i quali non c’è stato ancora tempo e modo di verificare, garanzie ovviamente non ne possono dare. Certo, si può rischiare, ma con la consapevolezza che se  ci dovesse essere un prezzo da pagare sarebbe alto: troppo alto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 2 aprile 2015]

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Continuità. Il filo perduto della cultura

In una intervista al Messaggero, alla domanda su che cosa bisogna recuperare prima di tutto, Claudio Magris risponde: “Il senso di continuità che, quando esisteva la memoria, la cultura possedeva. Abolirei l’attuale, esasperata  frammentazione”.

Probabilmente è vero: la frammentazione del sapere, la parcellizzazione, l’iperspecialismo, la settorializzazione che, in alcuni casi e per fortuna non sempre, non consente la comunicazione della ricerca tra i settori, la microdisciplinarità, impediscono le conoscenze complessive, la delineazione degli orizzonti di cui si ha bisogno per l’orientamento del proprio percorso esistenziale e culturale, che poi spesso sono la stessa cosa.

Ancora: la discontinuità, la frattura, la rimozione di parti, elementi, forme, espressioni, contenuti consistenti del sapere che questo tempo fa nei confronti di altri tempi, spesso producono una perdita o un deperimento  della memoria, per cui non si sa su cosa sia fondato quello che si conosce, da quale intelligenza ed esperienza precedenti derivi, da quali forme del sapere provenga, quale sia il nucleo semantico che lo ha generato. Riferisce  Magris, che in un’occasione si è sentito dire che non era possibile citare “Il richiamo della foresta” di Jack London, semplicemente perché gli uditori erano troppo giovani per conoscerlo. Questo significa, dunque, che qualcuno deve conoscere esclusivamente quello che rientra nella propria sfera dell’esperienza, nel perimetro del tempo che abita, nel presente più prossimo. Questo significa che il classico, la Storia, la filosofia, l’arte, il pensiero precedente non debbano appartenere alla conoscenza, che il sapere deve avere  a che fare  soltanto con l’immediato,  si deve  limitare  al contingente. Ma questo non è il sapere; è un’altra cosa che non saprei dire come si chiama. Questo significa che la conoscenza di qualcosa da parte di qualcuno è sospesa nel vuoto, non ha struttura né stratificazione, non può avere connessioni, relazioni, nessi. Significa che si può senza rimorso ignorare l’esistenza di Dante e di Michelangelo, di Kant e di Einstein, dell’Olocausto e di Vivaldi. Certo, si può, si potrebbe, anche se poi con molta probabilità non si saprebbe che cosa farsene dei pochi zecchini di informazione che ci si ritrova nella tasca. Ha ragione Magris. Si assiste da tempo, forse da trent’anni a questa parte, ad una rimozione della continuità del sapere che costituisce il risultato della svalutazione della memoria e che conseguentemente produce una precarietà della conoscenza, una sua pressoché immediata deperibilità, uno sfilacciamento, una instabilità, una provvisorietà e quindi una difficoltà di applicazione e di trasferibilità in situazioni diverse. Ma la conoscenza si carica di senso se può riprodursi, rigenerarsi, se può combinarsi con altre conoscenze, se si fa esperienza alla quale riferirsi e nella quale riconoscersi.

Intorno a noi esistono e si sviluppano rapidamente modelli e strumenti che ci illudono di poter fare a meno della continuità e della memoria nel processo di costruzione del sapere.

Soltanto la scuola cerca di salvarci da questa illusione continuando a proporre un sapere strutturato sulla continuità della  memoria e proiettato nella dimensione del futuro: un sapere unitario e coerente, epistemologicamente fondato, con uno sguardo orientato alla metacognizione, ad un apprendimento che risulti, ad un tempo, etico e funzionale. Perché il sapere ha bisogno della coesistenza  delle due condizioni: l’etica e la funzionalità. Non ci dovrebbe essere una prevalenza dell’uno o dell’altro termine, ma una loro complementarità organica e sistematica, una reciprocità virtuosa, una interdipendenza costruttiva. Il sapere etico è quello che agisce sulla dimensione dell’impegno, della responsabilità; si protende verso la trasformazione positiva dei contesti sociali e della condizione umana. La funzionalità del sapere consiste proprio nella tensione alla trasformazione del pensiero e dell’agire dell’uomo nel tempo e nello spazio che vive.  Non c’è disciplina che possa considerarsi lontana e tanto meno estranea a questa tensione.

Il tempo e lo spazio che viviamo domandano un pensare e un agire che possano recuperare i sensi essenziali, che possano rifondare i valori dell’umano soggettivo e collettivo. La memoria è un senso essenziale, un valore dell’umano. Allora si ha necessità di una continuità della memoria che soltanto il processo formativo realizzato dalla scuola può garantire in quanto consente di conferire all’ esperienza del  conoscere una compattezza ed una unitarietà, sottraendola alla condizione occasionale, disorganica, scoordinata. Quando si dice continuità della memoria si vuole intendere anche (o forse soprattutto) il riconoscimento di un senso di appartenenza ad una cultura che si è sviluppata con un costante processo di integrazione dei suoi significanti e dei suoi significati. Senza la continuità della memoria, l’inappartenenza si porta dietro lo sradicamento da qualsiasi terreno culturale e l’abbandono all’estemporaneità e all’inconsistenza del conoscere.

Nessuno vuole questa condizione. Nessuno può permettersi questo naufragio esistenziale, civile, culturale.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 14 aprile 2015]

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Troviamo il modo di far lavorare i giovani laureati

Secondo quanto riferisce il XVII rapporto di Almalaurea, in Italia si lavora dopo cinque anni dal conseguimento della laurea. Oggettivamente troppo tardi. Questo tempo che passa tra la conclusione degli studi universitari e l’inizio dell’attività lavorativa, costituisce la dimostrazione – nel caso ce ne fosse bisogno di una ulteriore –  che c’è un sistema che non funziona. Perché si sarebbe anche in ritardo se si cominciasse a lavorare  il giorno dopo: sarebbe giusto  cominciare il giorno prima. Vale a dire che tra  università e mondo del lavoro si dovrebbe determinare una condizione di progettualità, di raccordo, di integrazione, interazione, reciprocità, tali da consentire un inserimento graduale e sistematico nei diversi settori,  coerentemente con il tipo di formazione. Una condizione di questo genere produrrebbe (almeno) due vantaggi: uno per lo studente che acquisirebbe conoscenza delle procedure e delle relazioni,  competenze, tecniche, abilità; un altro per il contesto di lavoro che da quell’acquisizione ricaverebbe entusiasmo, energie, proposte, risorse, qualità.

Ma c’è un problema: si sa che c’è un problema: il solito. Mancano le risorse economiche, non ci sono i denari.

Però l’uomo della strada pensa, semplicemente, semplicisticamente, banalmente (proprio per questo è uomo della strada, un praticone senza teoria). La prima cosa che pensa è che quando si vogliono trovare, i denari si trovano: basta prenderli da un’altra parte, magari da quella parte dove ce ne sono di più e ne servirebbero di meno. L’uomo della strada in quanto tale non sa dov’è la parte in cui  i denari sono di più e ne servirebbero di meno ma ha l’impressione che possa essercene una, forse anche più di una. Non sta a lui individuare quale sia, quali siano. Spetta ad altri che di queste cose hanno conoscenza e competenza, individuare la parte o le parti, e poi razionalizzare, distinguere il superfluo dall’essenziale e di conseguenza destinare le risorse ricavate dall’eccesso alla retribuzione del lavoro dei giovani che studiano.

La seconda cosa che pensa l’uomo della strada che ha figli, nipoti, studenti,  o semplicemente conoscenti con cui gli capita talune volte di fare certi discorsi, la seconda cosa che pensa è che i  giovani ai denari ci pensano poco. Ci pensano davvero poco. Loro vogliono avere un impegno, sentirsi utili, poter fare quello che vogliono, quello per cui hanno interesse, passione. Quando gli accade di parlare con figli, nipoti, studenti, conoscenti in genere, si sente dire, sinceramente, che uno farebbe l’ingegnere, l’altro farebbe l’avvocato, l’altro farebbe l’insegnante, così, anche gratis, anche rimettendoci le spese. L’importante è avere l’impegno, potersi dire servo a qualcosa, soprattutto a qualcuno, quello che ho studiato, quello che ho imparato, posso  metterlo a disposizione degli altri, le idee nuove che mi sembra di avere posso confrontarle con quelle degli altri, magari anche per scoprire che poi non sono veramente così nuove, voglio lavorare innanzitutto per imparare come si lavora. L’uomo della strada si sente dire questo, e allora capisce che per i giovani il valore del lavoro non sta nel denaro ma nel sentimento nei confronti di se stessi, che si potrebbe chiamare desiderio di realizzazione, necessità di autostima, che si potrebbe chiamare in tanti altri modi. Per esempio: partecipazione attiva al processo di sviluppo e di progresso. Questo processo ha bisogno indispensabile, essenziale, del contributo dei pensieri nuovi.

L’uomo della strada non si spiega com’è che queste cose – semplici, semplicistiche, banali- lui riesce a pensarle e quelli che stanno nei palazzi invece no.

La sola giustificazione che sa darsi è che quelli che stanno nei palazzi hanno cose più importanti a cui pensare. Ma non capisce quali possano essere le cose che hanno più importanza del lavoro: di tutti, in generale.

Oltretutto, in Italia, non è che i laureati siano proprio tanti. Tra quelli che hanno tra i 25 e i 34 anni, sono il 22 per cento, contro il 37 per cento dei paesi europei e il 39 per cento della media Ocse.   Di questo 22 per cento, una parte per niente trascurabile se ne va all’estero. Il che equivale a dire che abbiamo melagrane risplendenti sugli alberi ma se le raccolgono i vicini. Infatti, quando i nostri laureati se ne vanno all’estero, da lì ci mandano a dire che sono i migliori.

L’uomo della strada ragiona molto spesso come i contadini. Ma è stato il modo di ragionare dei contadini, dei piccoli e medi artigiani, degli operai, dei salariati, degli impiegati statali da un paio di scarpe  per l’estate e uno per l’inverno ogni tre anni, è stata la loro filosofia a produrre il benessere economico di questo Paese.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 24 aprile 2015]

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Quell’inutile distinzione tra scienza e letteratura

Presentando una nuova edizione dell’iPad, Steve Jobs disse che nel Dna della Apple è inscritta  la consapevolezza che per produrre  risultati entusiasmanti la tecnologia dev’essere necessariamente coniugata alle scienze umane.

Mark Zuckerberg, l’inventore di facebook, il trentenne con un patrimonio che si aggira intorno ai 25 miliardi di dollari, era uno studente di materie umanistiche, tra cui il greco antico, con una grande passione per l’informatica.

Anche questi esempi di personalità che hanno determinato trasformazioni epocali nell’universo della comunicazione, servono a dimostrare l’assoluta infondatezza di quelle opinioni  secondo le quali la cultura umanistica risulta inadeguata ai tempi, ai bisogni, alle prospettive. Già la distinzione tra culture è un’operazione  anacronistica e arbitraria, costituita da codificazioni prodotte attraverso astrazioni e, frequentemente, attraverso pregiudizi. Non a caso Ezio Raimondi cominciava il suo saggio su “Scienza e letteratura”  ricordando quel che sosteneva   Francesco De Sanctis:   chimica, storia naturale, anatomia, fisiologia, patologia non sono più studi speciali ma fanno parte della cultura generale e si avverte la loro influenza nella letteratura, nell’arte, e persino nella vita comune. Da quando De Sanctis diceva queste cose è passato poco meno di un secolo e mezzo.  Esiste una conoscenza, un sapere di ciascuno, dunque,  e in questa conoscenza il pensiero si orienta in base ai problemi che deve risolvere, alle situazioni con cui deve confrontarsi, e i problemi, le situazioni sono di ogni tipo, appartengono alla ragione o al sentimento, al conoscibile e all’inconoscibile, alla concretezza e alla riflessione sui destini che ci toccano, alle cose dell’origine e alle cose ultime. Per cui talvolta è necessario un orientamento di pensiero verso una conoscenza di fisica, di biologia, altre volte è necessario un orientamento verso la scena di un romanzo, di un film, verso una poesia; è necessario avere la possibilità culturale di interpretare un fenomeno del cielo, della terra, del mare, ma è altrettanto necessario saper interpretare l’affresco screpolato in una cripta bizantina, il senso di un canto popolare, un’Operetta morale.

E’ necessario essere in grado di dare una risposta all’interrogativo pratico che attraversa l’istante di ogni giorno, ma anche a quello che viene da dentro, che potremmo chiamare emozione, che ti sorprende in un’ora del giorno o della notte, per il quale  non serve nessun tipo di scienza ma semplicemente una fiaba d’infanzia. In questo caso, a questo punto, la distinzione fra culture rivela i caratteri non solo dell’improprietà ma anche della banalità. Domandarsi se serva una o l’altra è come domandarsi se serva il pane o l’acqua.

Cultura umanistica, cultura scientifica. Non so dire, per esempio, a quale delle due appartenga la storia. Se dovesse appartenere alla prima, affermare che la cultura umanistica non serve significa affermare che non serve conoscere la storia. (Ma si sa che la mancata conoscenza della storia può produrre effetti anche gravi.)

Quando si dice che la cultura umanistica non serve – non serve più- si dice che non serve più comprendere la sostanza della relazione degli esseri umani con gli altri esseri e con se stessi; si dice che non serve più la conoscenza di rappresentazioni di fortune e di sfortune, di ricchezze e di miserie, di passioni e fatalità, di condizioni dell’essere. Si dice che non ci riguarda l’irripetibilità o la comunione, la singolarità o l’universalità delle storie o dei destini. Eppure in una sola tragedia greca c’è già scritto tutto quello che ci è  dato o ci è negato. Tutte le cause e gli effetti delle guerre sono stati già analizzati nei poemi. Non c’è una sola esperienza che si vive che non sia stata vissuta nella pagina di un romanzo. Forse non esiste nessuna condizione dell’umano che non sia stata contemplata nel catalogo dei destini che Dante ha compilato. Se tutto questo non serve – non serve più- dopo che per secoli e secoli è servito, ne prendiamo atto. Però bisogna assumersi la responsabilità del giudizio e stabilire se hanno sbagliato i secoli passati oppure se è questo secolo a sbagliare: se questo secolo stia sbagliando a rinunciare alla memoria. Perché rinunciare alla cultura umanistica, significa rinunciare alla memoria, ad ogni insegnamento che la memoria può impartire, a tutte le strade che ci può mostrare per farci capire da dove veniamo, per quale stratificazione di situazioni culturali abbiamo un certo pensiero, perché costruiamo le case in un certo modo, usiamo certe parole e non altre, perché abbiamo una certa visione del mondo, un immaginario collettivo diverso da quello di altri.

Cultura umanistica, cultura scientifica. Se separarle costituisce un errore,  integrarle diventa una virtù. Semplicemente per il fatto che l’una e l’altra si occupano del mondo e delle creature che lo abitano; l’una e l’altra si (pre)occupano di darci dei riferimenti per non farci disperdere nel corso del nostro girovagare da queste parti; l’una e l’altra in fondo non fanno altro che cercare di attribuire  un senso al nostro essere qui adesso. Indagano la condizione umana, l’una e l’altra, tentando di svelare i suoi misteri. Sono un modo per raccontare il mondo, con parole diverse. Se fosse solo l’arte, per esempio, a raccontare il mondo, ci mancherebbero le parole della scienza,  come ci mancherebbero quelle dell’arte se avessimo solo le  parole della scienza. La scienza ci racconta il tempo e lo spazio con il lessico e la sintassi che le appartengono; Eliot ci racconta la stessa cosa con  quei versi che dicono: “se spazio e tempo, come i saggi dicono, / sono cose che mai potranno essere,/ la mosca che è vissuta un solo giorno/ vissuta è a lungo proprio come noi”.

Sono due racconti diversi; come si fa a dire che uno serva a qualcosa, a qualcuno,  e l’altro non serva a nulla e a nessuno.

Personalmente, il sentimento che provo nei confronti di coloro che hanno una cultura prevalentemente scientifica è quello dell’invidia: un’invidia buona, onesta, generata dall’ammirazione.

Invidio un pensiero che tende a violare l’arcano, a decifrare i codici di Dio, ad approssimarsi ai confini del conoscibile, del mirabile, dello spaventoso; cerco di immaginare che mente straordinaria è quella che spera di stringere in una formula l’infinito e l’eterno, di rappresentare con figure l’infigurabile.

Quella formazione che ha distinto la cultura umanistica da quella scientifica, ora mi costringe ad ascoltare rapito, anche senza capire, chi mi racconta storie con le parole di una scienza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 11 maggio 2015]

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Le briciole per giudicare tra i banchi

È accaduto a qualcuno, o probabilmente a tanti; accadrà ancora a qualcuno, o ancora a tanti:  un insegnante può segnare la strada per un destino. Può mettere le ali. Se si volesse un riferimento letterario, si potrebbe rimandare a “La lingua salvata” di Elias Canetti. Se si volesse un riferimento reale si potrebbe raccontare la storia di Gigliola Staffilani, 49 anni,  professore ordinario di matematica pura al Mit di Boston.  Sua madre la voleva parrucchiera, per necessità, lì, a Villa Rosa di Martinsicuro in provincia di Teramo. Ma al liceo scientifico di San Benedetto del Tronto, un insegnante di matematica capisce che la ragazzina ha talento, che va oltre. Allora fa di tutto per convincerla a continuare gli studi, a combattere contro le complicazioni economiche che la morte improvvisa del padre ha creato nella sua famiglia. Quello che è adesso  Gigliola Staffilani lo deve a quel professore di matematica che si chiama Mario Illuminati. ( Alle volte davvero nomina sunt consequentia rerum: illuminato). Gigliola Staffilani non sa nemmeno dove sia, ora, quel professore; dice che lo vorrebbe incontrare.

Sì, ci sono insegnanti che cambiano una vita. Ma a volte bisogna attendere anni, a volte bisogna attendere anche tutta una vita, per poterlo comprendere, per poterlo dire.

I tempi con cui maturano le consapevolezze dell’importanza che hanno certi insegnanti e certi insegnamenti sono quasi sempre lunghi, semplicemente perché si ha bisogno di lunghi tempi per individuare e riconoscere i nuclei che hanno generato gli accadimenti.

Qualsiasi mestiere che incide sull’esistenza si può valutare soltanto in base al modo in cui si sviluppa quell’esistenza. I tempi predefiniti, con scadenze da tassametro, non possono dare riscontro attendibile, non funzionano. Se è vero che tutto quello che si impara a scuola non serve nella scuola ma quando si intraprendono le strade che si aprono fuori dalla scuola, allora è necessario aspettare di vedere dove portano le strade che ciascuno intraprende. Mi capita frequentemente, e penso che capiti anche a molti di voi, che ad un certo punto, inaspettatamente, in una circostanza che apparentemente non ha nessuna relazione, mi torni alla mente una frase, un ammonimento, un consiglio, oppure uno sguardo compiaciuto o severo, oppure soltanto un silenzio del mio maestro di scuola elementare. Un suo comportamento. C’era una volta. Come una fiaba. C’era una volta in un piccolo paese un maestro di scuola elementare che quando si faceva ricreazione diceva ai suoi alunni con il grembiule azzurro e il fiocchetto bianco rosicchiato di lasciar cadere le briciole sulla carta che avvolgeva il panino e poi di mettere la carta sul davanzale. Passava appena un minuto, e piccole nuvole di passeri  e pettirossi, quand’era il tempo dei pettirossi, picchettavano il davanzale, e qualche volta entravano nell’aula, e volteggiavano, e poi volavano via. Nessuno di quella classe è diventato cacciatore. Ecco. Ci vuole tempo, a volte, spesso ci vuole molto tempo, per verificare  gli effetti che produce un insegnamento. Ci vuole tutto il tempo della crescita, della consapevolezza, della riflessione sulle ragioni che hanno fatto qualcuno nel modo in cui è, che hanno delineato la sua personalità, la sensibilità, la relazione con gli esseri, con le storie, con le cose.

La cultura, la formazione, sono una condizione che risulta dall’integrazione e dall’interazione di una molteplicità di elementi e di interventi.

E’ come quando si fa il pane: se viene bene o male, dipende certamente dalle mani del fornaio, ma anche dalla farina, dall’impasto, dalla cottura dei mattoni del forno; dipende anche se è tramontana o se è scirocco. Insomma, dipende anche da tutto quello che gira intorno. Dalla cultura del contesto. Se è vero che l’insegnante bravo è comunque bravo quale che sia  il  luogo in cui si trovi, è altrettanto vero che il luogo in cui si trova incide sul  livello dei risultati; se è vero che all’insegnante bravo basta soltanto la voce, un gesso e una lavagna, è altrettanto vero che con un laboratorio ha più possibilità di dimostrare la sua bravura. Come l’insegnante nel valutare uno studente deve tener conto necessariamente di tutte le situazioni che possono condizionare positivamente o negativamente l’apprendimento, chiunque si ritrovi a valutare un insegnante, necessariamente deve tenere in conto  tutte le situazioni che possono condizionare positivamente o negativamente l’insegnamento. Qualsiasi valutazione che non consideri il contesto, i presupposti, l’implicito, la sfera della soggettività, la dimensione dell’identità,  risulta inevitabilmente viziata per eccesso o per difetto.

Appartiene alla vulgata docimologica la convinzione che la modalità più efficace di valutazione sia costituita dall’autovalutazione. Allora bisogna fornire agli insegnanti gli strumenti adeguati per poter valutare se stessi: per migliorare, potenziare, calibrare, ripensare, riformulare metodi e processi.

Certo, un’alternativa ci sarebbe: farli valutare da altri ma a condizione che subito dopo gli altri che hanno valutato si mettano ad insegnare per dimostrare che sanno fare meglio.

La stessa cosa può valere per i presidi. Farli valutare da altri ma poi mettere i valutatori al posto dei valutati per una settimana, un mese, un anno, per vedere che cosa sanno fare. Qualche volta lo spettacolo potrebbe essere anche divertente.

[“Nuovo Quotidiano  di Puglia” di lunedì 18 maggio 2015]

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La creatività dei giovani per il futuro di questo Sud

Si dice che i giovani devono imparare ad inventarsi il lavoro,  che devono sapersi riorientare, riorganizzare, riconvertire, che devono essere flessibili, disponibili ai cambiamenti, che devono sapersi adattare alle trasformazioni  degli scenari culturali, economici, sociali, devono decodificarli, interpretarli, governarli. Si dice che devono essere creativi. Probabilmente quello che si dice è assolutamente vero; certe volte è anche drammaticamente vero: per esempio quando tutte quelle capacità che si pretendono da loro devono applicarsi in contesti di un mercato che ha chiuso i banchi, quando le loro esistenze devono camminare sul filo dell’incertezza senza nessuna rete sotto, quando davanti alle strade che intraprendono si aprono orizzonti nebulosi oppure non se ne aprono affatto. Ma le cose stanno così, e per adesso – con il più profondo augurio che ci si possa sbagliare – svolte radicali e positive non se ne intravedono, o quelle che s’intravedono sono limitate e settoriali.

Allora è vero che i giovani devono essere creativi. Per essere creativi devono conoscere. La creatività è opzione all’interno della conoscenza, per definizione.

Allora, e ancora per esempio, non è possibile più tollerare l’abbandono scolastico, la dispersione negli studi, a qualsiasi livello. Chi si disperde non può essere creativo, non può inventarsi niente. Non più. In altri tempi chi lasciava la scuola poteva mettersi in qualche modo in proprio: inventarsi un’attività, un lavoro: in fondo gli bastavano poche conoscenze, tanta buona volontà, una scaglia di fortuna. Ognuno di noi ne ha conosciuto almeno uno: un compagno di scuola che a un certo punto ha detto basta con i conati di vomito ogni volta che gli appariva un libro anche in lontananza. Dopo qualche anno ci passava davanti col mercedes mentre noi si andava ancora con i libri sottobraccio, a piedi.

Forse ora non può accadere più. C’è bisogno di conoscenza strutturata per qualsiasi attività. Allora probabilmente occorre ripensare i percorsi formativi. Probabilmente occorre rinunciare alla riproposta di modelli e formare un pensiero che va oltre, che si tende verso una costante innovazione. Nessuno può più permettersi una formazione superficiale.

La creatività diventa una necessità, per cui si deve necessariamente liberare il concetto dai residui di un alone di idealistica  spontaneità.

Se tutto questo può essere vero, allora è di conseguenza anche vero che bisogna dare ai giovani opportunità di creatività. Senza opportunità, qualsiasi teoria e qualsiasi metodo, qualsiasi conoscenza e qualsiasi formazione, non trovano possibilità di tradursi in esperienza, in contributo ai processi di crescita soggettivi e collettivi.

Bisogna dar loro le occasioni per mettersi alla prova, per dimostrare che cosa sanno fare di diverso, di nuovo, di migliore. Oppure, se non si possono fornire le condizioni, consentirgli di potersele creare.

E’ un’urgenza sociale, civile. Senza la creatività dei giovani, una società deperisce, una civiltà invecchia e muore. Quello che dirò fra poche parole potrebbe anche sembrare egoismo, ma non lo è; semmai è amor di patria. Per cui mi permetto di dire che è il Sud – questo Sud- ad avere più bisogno di creatività, di innovazione, di pensiero nuovo. Perché è dal Sud – da questo Sud- che i giovani vanno via, sono costretti ad andare via, quasi per una inesorabile  maledizione della Storia. Perché è in questo Sud che quelli che rimangono si sfiancano nell’attesa.

Esistenze, intelligenze, conoscenze, competenze, esperienze che si perdono. Progresso che non matura, sviluppo che non si realizza, innovazione che si frena, si blocca. Ora, forse più che in ogni altro tempo, questo Sud ha bisogno di una creatività collettiva, data dall’integrazione e dall’organizzazione delle creatività individuali.

La creatività dei singoli non basta più; serve una creatività trasversale che produca energia diffusa; serve un progetto che coinvolga i contesti  della formazione e del lavoro; serve una politica che agevoli i processi di rinnovamento; serve anche una rifondazione dei significati del termine tradizione; serve anche una fiducia concreta nelle potenzialità delle generazioni che vengono. Una fiducia concreta richiede – pretende –  una disponibilità non solo all’ascolto ma anche alla condivisione delle proposte dei giovani e ad un impegno sostanziale per la loro realizzazione.

E’ soltanto il lavoro dei giovani, la loro creatività, il loro pensiero nuovo,  che possono permettere al Sud – a questo Sud- la bellezza di un pensiero di futuro.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 26 maggio 2015]

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Questo nostro tempo che non conosce la meraviglia

A volte si ha l’impressione che non ci si meravigli più di niente, né del male né del bene, né del brutto né del bello; non ci meravigliano le storie che ci accadono intorno, né quelle che ci giungono da lontano, non ci meravigliano i sentimenti che proviamo, né quello che pensiamo. E’ come se avessimo già visto tutto, sentito tutto, provato tutto, come se ogni scoperta nuova fosse qualcosa che appartiene al passato, come se  avessimo fatto ogni esperienza possibile, ogni conoscenza  possibile di ogni fenomeno della natura e della storia.  Sembra che nei fatti della natura e della cultura sia scomparsa la condizione dell’imprevisto, dell’inatteso, del sorprendente. Al tempo delle incertezze esistenziali, dello smottamento dei riferimenti, coltiviamo più o meno consapevolmente l’illusione di una certezza del sapere. Probabilmente è una conseguenza della possibilità di avere quasi immediatamente qualsiasi informazione, senza dover ricercare o, nei casi più complessi, con una ricerca brevissima, senza dover aspettare. Si digita una parola e quello che si vuole sapere appare, rapidamente. Non ci si meraviglia perché si tratta di una conoscenza già determinata, che non ci siamo costruiti, che spesso non ci è costata niente. Di quella conoscenza noi entriamo in possesso, in modo completo e spesso definivo. Quello che apprendiamo da una pagina che si apre nella Rete, non si modifica più, non si elabora, non si mette in relazione al divenire dell’esistenza. Quindi tra esistenza e conoscenza non c’è interazione, meno che mai compenetrazione. Sono due cose diverse e separate. Allora viene da domandarsi quale senso possa avere una conoscenza che in qualche modo non si impasta con l’esistenza, quale senso possa avere se resta esclusivamente una nozione, una maglia sfilacciata. Se si ha bisogno di rintracciare il passo di un saggio pubblicato in rete, non è necessario nemmeno sguardare velocemente tutto il testo; basta digitare una parola contenuta in quel passo, cliccare su “trova” e il passo si rivela, magicamente. Non si legge quello che viene prima, quello che viene dopo, e quindi non si sa se quello che viene prima o dopo non sia per caso più interessante di quello che si cercava.

Non ci meraviglia più neanche l’effetto speciale, perché la tecnologia ci ha abituati ad esso, sappiamo che ci sarà per cui quando accade non ci sorprende, e se non ci sorprende non è più speciale. Siamo spettatori dallo sguardo assuefatto. Le immagini non ci affascinano, non ci richiamano, non esercitano su di noi nessuna seduzione. Non c’è nessuna nostalgia dietro questa considerazione. È  la semplice presa d’atto della scomparsa della meraviglia della conoscenza, dello stupore provocato dalla scoperta. Si tratta di una condizione culturale con la quale ci si confronta e si fanno i conti. Sappiamo già che cosa troveremo nella calza della befana, in qualche caso abbiamo perfino commissionato il dono,  per cui aprendola non proveremo né felicità né delusione, non ci meraviglierà la forma o il contenuto, e probabilmente lo  metteremo da parte quasi subito.

Forse è questo il pericolo che si nasconde nella conoscenza senza ricerca, nell’apprendimento senza meraviglia: la rapida rimozione o archiviazione di quello che si conosce senza che ad esso sia stato attribuito un valore, in quanto il valore della conoscenza è determinato dalla sua resistenza nel tempo.

Nella cultura che abitiamo, gli apprendimenti che resistono nel tempo sono pochi, sono sempre di meno, perché finalizzati a qualcosa che serve in un determinato giorno, in una determinata ora, per una situazione, per un’occasione, una contingenza, ed è possibile conoscere quello che serve in un minuto, soltanto quello, trascurando ogni relazione, ogni connessione con il resto e il contesto. Spesso, nella ricerca, la meraviglia è provocata dalla scoperta di qualcosa che non si cerca, per il fatto che in qualche caso se ne ignora anche l’esistenza.

La storia della scienza è attraversata dalla meraviglia e dalla casualità. Molto di quello di cui si ha conoscenza viene appreso per caso. Cercando altro.

Come quando si cerca un libro in una biblioteca. Più che a trovare quel libro, il senso del cercare consiste nello scoprire quali altri libri ci sono.

La ricerca nelle biblioteche  è  una metafora della meraviglia causata dalla scoperta casuale. Perché una biblioteca contiene il mondo: quello reale e quello immaginario, e l’uno e l’altro frequentemente si scoprono per caso.

Abbiamo perso la meraviglia e non possiamo farci niente. È troppo tardi. L’abbiamo persa forse per innumerevoli ragioni. Una di queste consiste nel progressivo, e inarrestabile, insinuarsi della tecnologia in ogni spazio della vita quotidiana. Ma non si insinua autonomamente: siamo noi che la facciamo penetrare in ogni situazione, anche quando non serve o si può rivelare addirittura controproducente. Alla tecnologia che serve si devono alzare altari. Se non altro perché ci rende sopportabili molte faccende che non sopporteremmo. Ma ho visto con i miei occhi qualcuno che metteva in funzione il navigatore per trovare il palazzo ducale di un paesino del basso Salento. Mentre era concentrato a seguire le indicazioni, è passato davanti alla meraviglia di un’edicola votiva circondata dai colori sfavillanti di un glicine, e non se n’è accorto.

Ma tanto, se avesse  visto quel volto di Madonna screpolato e bellissimo, se avesse visto il trionfo di quel glicine, li avrebbe immediatamente fotografati con il rampollo dell’ultima generazione di smartphone. Senza guardarli.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 10 giugno 2015]

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Le tracce della maturità. Una prateria per i ragazzi

Quelli che s’aspettavano – che sospettavano-  per la prima prova dell’esame di Stato argomenti come montagne da scalare a piedi nudi, si sono ritrovati felicemente delusi da una tranquilla pianura che era possibile attraversare senza un’ansia particolare, ma solo con quella consueta, normale, con quel batticuore del principio di ogni cosa che, ad un tempo, rappresenta la conclusione di un percorso e il cominciamento di quello che viene dopo.

S’inizia con l’analisi di un brano de Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino: un classico. Quello che dice di un ragazzo dalla personalità disintegrata, dalle storie escluse, da un’esistenza che non trova posto nel mondo della sua età né in quello dei grandi, cresciuto troppo in fretta e quindi inappartenente ad ogni dimensione dello sviluppo. Un’esperienza di formazione bruciante, vissuta nella “nebbia di solitudine”, affacciata sul baratro di una rassegnata disperazione.

Poi la letteratura come esperienza di vita. Semplicemente così. D’altra parte, che cosa può essere la letteratura se non esperienza che dall’esistenza prende la materia restituendola in forma di linguaggio fatto di respiro e di memoria, di sogni, di visioni, di dolori, di sentimento, di ragione, di felicità, anche, qualche volta (qualche rara volta), di fantasie e di passioni, di un corpo a corpo con se stesso e con la propria storia e con la storia di coloro che ti sono accanto, intorno, dentro, ce ci sono stati e che ci sono. Che cosa può essere la letteratura se non l’elaborazione di un universo da abitare portandosi dietro il bagaglio – pesante o leggero- di quello che si è stati e che si è, di quello che si sarebbe voluto essere, di quello che si è fatto e non si è fatto, di tutte le occasioni prese e perse, di tutti i volti, di tutte le voci che ti fanno compagnia durante la strada o che ti richiamano come sirene affettuose, dall’infinito. Se esiste l’infinito. O dalla nostra meschina finitezza.

Per l’ambito socio-economico si propone l’argomento delle sfide del XXI secolo e le competenze del cittadino nella vita economica e sociale.

Vorrei accennare, in questo caso, ai nuclei semantici che sostanziano un passo di Martha C. Nussbaum in cui si rileva la necessità degli studi umanistici e artistici quali condizioni indispensabili per lo sviluppo di un pensiero critico, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo, nella dimensione che Edgar Morin chiama identità terrestre, e poi la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro, e poi – aggiungerei – la maturazione di una sensibilità per comprendere la bellezza che non sappiamo più comprendere, per distinguere la giustizia dall’ingiustizia, l’altruismo dall’egoismo.

La rappresentazione esistenziale dell’altro costituisce la categoria che fa da fondo e da sfondo all’argomento dell’ambito storico- politico: il Mediterraneo: atlante geopolitico dell’Europa e specchio di civiltà.

La storia dell’Europa si è fatta su questo mare. Questo mare ha inciso e continua a incidere sul suo destino, e il destino degli uomini è legato a quello dei luoghi e delle idee, a nodo stretto.

La Storia e la cronaca drammatica del Mediterraneo, che si ripete come una maledizione, riguardano l’Europa, inevitabilmente. Ci sono millenni di storia che annodano il Mediterraneo all’Europa, per cui la dimensione nella quale diventa indispensabile agire dev’essere necessariamente quella culturale: si deve penetrare nel sistema  che mette in relazione lingue, diritti, doveri, religioni, tradizioni, politiche, economie, mercati,  identità, espressioni di pensiero, visioni del mondo, immaginari collettivi, processi formativi, riconoscendo le potenzialità sia delle loro   specificità che della loro integrazione. Una cultura dell’Europa, per l’ Europa, non può che  configurarsi come la sintesi virtuosa di una integrazione di connotazioni culturali.

Dice Predrag Matvejevic che non si costruisce l’Europa senza riferimenti al Mediterraneo. Un’Europa separata dalla culla dell’Europa. E’ come se si volesse formare una persona privandola della sua infanzia e adolescenza.

Per l’ambito tecnico-scientifico, l’argomento riguarda lo sviluppo scientifico e tecnologico dell’elettronica e dell’informatica che ha trasformato il mondo della comunicazione, che oggi è dominato dalla connettività. Questi rapidi e profondi mutamenti offrono vaste opportunità, ma suscitano anche riflessioni critiche.

Nessuno può dire meglio dei ragazzi che si approssimano alla soglia dei vent’anni quali siano  le opportunità e i rischi; nessuno possiede la loro conoscenza complessiva, la competenza particolare, l’esperienza costante, il confronto continuo con gli strumenti, con il rapidissimo trasformarsi dei sistemi e delle modalità del comunicare.

Non è un caso che li si chiami nativi digitali. Da loro abbiamo  tutto da imparare.

Il tema di argomento storico interessa le fasi salienti della Resistenza, anche tenendo conto della testimonianza di un condannato a morte.

Si chiude con una riflessione di Malala Yousafzai sul diritto all’istruzione, alla cultura. Quel diritto che, oggi, a noi che abitiamo Paesi sviluppati, sembra acquisito al punto tale da non sembrarci, in qualche caso, essenziale, ha richiesto, preteso, battaglie di uomini e donne, appena l’altro ieri; ancora richiede, pretende battaglie di uomini e donne e ragazzine che per rivendicarlo sono disposti a mettere in gioco la vita. Come Malala.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 18 giugno 2015]

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Estate, se avessi vent’anni di meno ecco cosa leggerei

D’estate si ha l’impressione che il tempo sia lungo, che si dilati, sconfini da se stesso. Albeggia presto, scurisce tardi. Si pensa che si possa fare quello che nelle altre stagioni non si riesce, che si possa dare tregua alla fretta, rallentare il passo, mettersi a leggere le pagine dei giornali strappate e conservate quando è stato autunno, inverno, primavera, i libri messi a pila ad aspettare. Si pensa di potersi concedere addirittura il privilegio di rileggere quel libro attraversato anni fa e che si vorrebbe riattraversare per ritrovare i luoghi, i personaggi, per rientrare negli intrecci.

Forse, probabilmente, l’estate è così: l’estate è così fino ai vent’anni. Poi dopo comincia la giostra che non  rallenta in nessuna stagione, ed è giusto, anche bello che la giostra non rallenti, e allora si legge sempre con frenesia, mordendo le pagine appena si può, con il rammarico per quello che non si riesce a leggere. Si legge veramente fino a vent’anni. Poi basta.

Se avessi fino a vent’anni leggerei Orcynus Orca: lo leggerei tutto, fino in fondo, per sentire lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli, il loro respiro rotto e il dolidoli, lo leggerei fino all’ultima riga, lo leggerei fino ad arrivare “dentro, più dentro, dove il mare è mare”. Forse ci metterei un mese, forse anche di più. Per scriverlo Stefano D’Arrigo ci ha messo vent’anni: una stesura nella seconda metà degli anni Cinquanta, un lavorio stremante di correzioni e varianti  per tutti gli anni Sessanta, la pubblicazione nella metà degli anni Settanta.

Se avessi vent’anni in questa estate leggerei Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo, Nottetempo casa per casa. Mi disse una sera, a Lecce, che le parole erano la sua felicità e la sua disperazione.

C’erano volte in cui per una parola si dannava per settimane intere, perché doveva essere esattamente quella e non un’altra, non poteva essere un’altra, perché il pensiero, il suono, il ritmo pretendevano quella parola, insostituibile, assoluta. Consolo ha sempre avuto pochi lettori, eppure è tra i più grandi scrittori che il Novecento ha generato.

Se avessi vent’anni, o giù di lì, e avessi finito la maturità, certo me ne andrei mattina e sera al mare, e poi  me ne andrei anche a ballare, ma Cent’anni di solitudine lo leggerei, comunque.

Poi leggerei l’Antologia di Spoon River, tutte le poesie una per una, tutto quel catalogo dei destini umani. Leggerei un po’ di Proust (che tutto in una estate sola non si può), un po’ di Virginia Woolf, un po’ di Joyce (non l’Ulisse, però: i Dubliners), tutte le poesie di Giorgio Caproni, I quaderni di Malte L. Brigge di Rainer Maria Rilke, Il giovane Olden di Salinger, non fosse altro che per imparare che non bisogna raccontare mai niente a nessuno perché va a finire che si sente la mancanza di tutti. Leggerei Il fabbricante di armonia di Antonio Verri.

Leggerei Peter Hoeg, se avessi vent’anni: Il senso di Smilla per la neve, certamente; ma soprattutto leggerei I quasi adatti. Poi lo rileggerei.

Se avessi vent’anni, o trenta, o quaranta, se ne avessi più di questi o anche meno, leggerei Mister Butterfly di Howard Buten.

È  la storia di Hoover Sears, clown inventore del naso con bip- bip incorporato, ridotto alla miseria dall’avvento dei videogiochi.

Durante uno spettacolo nel reparto dei malati di mente all’Ospedale dei bambini, viene a sapere che lo Stato offre settecentocinquanta dollari al mese a chi adotta uno di quei bambini. Fa i conti. Ne prende quattro: Mickey, undici anni, schizofrenico, con una competenza linguistica che si esprime nella pronuncia  di una sola parola: crepa; Ralph, sindrome di Down, disintegrazione della personalità. Harold, dodici anni. Suo padre lo legava al letto e lo picchiava con i tubi di gomma. Tina: nata con le gambe al contrario, abbandonata dai genitori,  adottata da due alcolizzati.

Hoover ha un obiettivo preciso che consiste nella ricerca di elementi che consentano la dimostrazione di un principio  sintetizzabile in una frase: solo il cuore segreto sopravvive.

Il clown che conosce l’arte e l’artificio della trasformazione, sa  che per raggiungere questo obiettivo risulta indispensabile l’applicazione del metodo dell’essere l’altro:  penetrare nella sua esistenza, assorbire la sua storia, la sua memoria, il suo pensiero, avvertire lo stesso tremore, l’estraniamento, il desiderio, baciare la scarpe di Ralph sporche di cacca, respirare con lo stesso ritmo del respiro di Harold, scendere, sprofondare fino al senso del loro patire, fino a raggiungere il cuore segreto che sopravvive.

Se avessi vent’anni leggerei Tex Willer per tutto il pomeriggio. Tex è fondamentale per comprendere la solitudine dell’eroe moderno. Perché Tex è solo. Nonostante i suoi pards, Kit Carson, Kit Willer – il figlio di Tex e di Lilyth -, Tiger Jack, guerriero Navajo e fratello di sangue, Tex è solo. Nella notte, vicino  al fuoco del bivacco, la sua solitudine ha l’aridità del paesaggio, la sconfinata tristezza della prateria.

Se avessi vent’anni adesso che è  estate, leggerei questo e altro.

Ma, come cantava Juliette Gréco,  non Monsieur je n’ai pas vingt ans, come credo molti dei gentili lettori che hanno appena finito di leggere questo articolo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 2 luglio 2015]

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La formazione che serve ai giovani

Su “La lettura”, l’inserto domenicale del “Corriere della Sera”, lo scrittore Paolo Giordano riprende e conclude alcune sue riflessioni sulla scuola, e lo fa con una lucidità appassionata.

Quanto sia profondo il suo interesse nei confronti della formazione, ebbi modo di constatarlo presentando a Martignano quel  bel romanzo che è La solitudine dei numeri primi.

Giordano si pone e ci pone alcune domande, alle quali si deve indispensabilmente tentare di dare delle risposte, se si vuole considerare il processo di formazione nella sua natura di  condizione strutturale dei tempi e della temperie culturale, se si vuole che risulti adeguato alle richieste del mercato e del lavoro, ai mutamenti vertiginosi, ai nuovi alfabeti e alle nuove forme di sapere (di saperi), alle modalità con cui i saperi si manifestano, si combinano, si trasmettono, si elaborano o si rielaborano.

E’ indispensabile rispondere alle domande per poter calibrare un progetto formativo per una persona e per un Paese, per una persona che è in relazione con altre persone, per un Paese in relazione con altri Paesi, per poter attribuire una significanza sostanziale al pensare e all’agire un processo di insegnamento e di acquisizione delle conoscenze, delle competenze.

Le domande che si pone Paolo Giordano sono quelle stesse che chiunque abbia a che fare con l’insegnamento si pone costantemente, frequentemente, forse quotidianamente, talvolta ad alta voce, talvolta silenziosamente.

Ma non sono facili le risposte. Anzi, sono complesse, complicate, perché coinvolgono molte sfere, perché implicano problematiche antropologiche, pedagogiche, psicologiche, sociali, di conoscenza e quindi di esistenza, perché riguardano l’identità e il destino.

Allora Giordano si chiede – ci chiede- chi sono gli adolescenti di oggi, quali bisogni hanno, come funziona il loro apprendimento; si chiede se i programmi ministeriali e i criteri di valutazione sono sintonizzati con la realtà tecnologica, multicultulturale e priva di gerarchie standard.

Chi sono gli adolescenti di oggi. Forse la risposta a questa domanda non è poi particolarmente complicata, perché non dice come sono ma chi sono. Gli adolescenti di oggi rassomigliano a quelli di ieri. Sono spavaldi e fragili. Hanno sogni, insofferenze, valori, paure, desideri, entusiasmanti ribellioni; hanno bisogno di sentirsi considerati, ascoltati, protetti; hanno bisogno di qualcuno che gli dia consigli e bisogno di opporsi e di rifiutare i consigli, di sentirsi al centro del mondo e di scappare dal mondo. Rispetto agli adolescenti di ieri forse sono più soli. A loro manca la strada. Noi – gli adulti –  li abbiamo destinati al confino delle loro camerette virtuali.

Le difficoltà cominciano alla domanda su come funziona il loro apprendimento.

Una delle possibili risposte potrebbe essere quella che il loro apprendimento funziona in modo completamente diverso da quello degli adolescenti di ogni tempo, per il fatto che hanno storie diverse, esperienze diverse,  un immaginario individuale e collettivo diverso, un diverso sistema simbolico e culturale, differenti strumenti di acquisizione delle conoscenze e, di conseguenza, differenti modalità e tempi; hanno interessi differenti. Il loro apprendimento non funziona  in modo  consequenziale perché  si confrontano con contesti e situazioni globali e dalla globalità sono avvolti, per cui apprendono in modo globale. La condizione multimediale in cui vivono determina il loro processo di apprendimento. Conoscono cose che nessun adolescente ha mai conosciuto, che nemmeno gli adulti conoscono.  Michel Serres, il filosofo ed epistemologo francese  ha detto che, senza rendercene conto, nel tempo che va dagli anni Settanta ad oggi, è nato un nuovo essere umano. Il nuovo essere umano ha un pensiero diverso e quindi un diversa visione della realtà, una diversa immaginazione, un altro concetto di creatività e una sua diversa espressione.

Allora spesso chi insegna si chiede che cos’ha da insegnare e che cosa deve insegnare al nuovo essere umano: quali lingue, quali geografie, quali storie, quali filosofie, quali letterature, quali scienze, quali arti. Al plurale. Soprattutto si chiede come insegnare. Se lo chiede cercando risposte concrete, con la consapevolezza che ci sarà sempre qualcuno che lo accuserà di sbagliare. D’altra parte, siamo tutti bravi ad andare in rete mentre guardiamo la partita in televisione. Però si dovrebbe provare un po’ ad alzarsi dalla poltrona e a buttarsi in campo a giocare.

Poi Giordano si chiede se i programmi ministeriali e i criteri di valutazione sono sintonizzati con la realtà tecnologica, multicultulturale e priva di gerarchie standard.

Le indicazioni nazionali – come si chiamano ora i programmi ministeriali- hanno bisogno di un’applicazione progettuale di largo respiro;  non possono cambiare con la stessa rapidità con cui si trasforma la realtà.  Allora, probabilmente, il discorso andrebbe affrontato dalla prospettiva del metodo.  La parola metodo, si sa,  deriva dal greco  meta, che vuol dire seguire qualcosa, e odós che significa strada. Seguire una strada. Sceglierla tra le altre. Progettare il cammino, predisporsi al superamento degli ostacoli, sono condizioni che sono e diventeranno sempre più determinanti nei processi  di formazione.

Il metodo, dunque,  si configura anche come una (pre) visione della vita contestualizzata nello spazio sociale e culturale. E’ il metodo di indagine della realtà che consente di comprendere i fenomeni, di interpretarli storicamente e di valutarli nella prospettiva del loro sviluppo. Il metodo è, ad un tempo, forma mentis e modus operandi, capacità di pensiero e competenza dell’agire.  La formazione  che serve oggi e che servirà ancora di più domani e dopodomani non è  caratterizzata da contenuti ma tramata di competenze, con una valenza metacognitica, capace di rispondere in  modo  coerente alle richieste della società della conoscenza e del mondo del lavoro o, forse più esattamente, del mondo del lavoro in una società della conoscenza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 13 luglio 2015]

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Un pensiero nuovo per il riscatto del Sud

Quando è stato reso noto il rapporto Svimez che diceva di un Sud a rischio di sottosviluppo permanente, avevo scritto a caldo più o meno novanta righe che poi ho cancellato. Non m’interessavano perché, in fondo, commentavo l’esistente con qualche riferimento al passato o a qualche pagina di letteratura che celebrava la magnifica storia del Sud o che la lacerava. Ma volevo trovare una feritoia nella torre  per poter tentare di guardare più o meno lontano, verso un possibile orizzonte di futuro. Per qualche settimana ci ho pensato ma dentro gli occhi avevo soltanto un déjà vu, qualcosa di già visto, ma anche  già sentito,  già detto, finché non mi sono persuaso che il futuro del Sud, probabilmente, è proprio in quello che più volte e per decenni è stato detto e ridetto: cioè che il futuro del Sud è nel suo passato, nella sua storia, nella sua cultura. Ma la cultura, ogni cultura, per poter produrre risultati ha bisogno di rigenerarsi e si può rigenerare soltanto per mezzo di un pensiero nuovo, di una nuova visione della Storia e delle storie, della realtà e dell’immaginario, ha bisogno di una interpretazione che risulti coerente con quelli che sono i tempi che si vivono  e le loro espressioni. C’è bisogno, dunque,  di inserire qualsiasi forma della cultura del Sud in contesti ampi, in circuiti che attraversano territori almeno europei e mediterranei. C’è bisogno di energie intellettuali, di competenze forti,  di processi strutturati. Occorre dirselo: qualche volta abbiamo improvvisato, in alcuni casi con trovate anche geniali, senza dubbio. Ora non si può più improvvisare; ora non servono più nemmeno le trovate geniali. Quello che serve adesso è una eccellenza ordinaria. L’unico intervento straordinario di cui ha bisogno il Sud è quello finalizzato alla formazione di una eccellenza ordinaria. La ripresa ad ogni livello, lo sviluppo, dipendono da questo. Se si vuole usare ancora un termine vecchio, il riscatto del Sud dipende da questo: dall’eccellenza ordinaria.

Personalmente non riesco a vedere quale situazione, quale sistema possa formare il nuovo pensiero, la nuova visione, l’eccellenza ordinaria di cui il Sud ha necessità urgente, se non la formazione che avviene nelle aule delle scuole di ogni ordine e grado e in quelle delle università. Siccome non si può più improvvisare, ci vuole metodo e il metodo non si può inventare ma si costruisce, si verifica, si calibra, si adatta, viene regolato in base alle finalità e agli obiettivi; ci vogliono professionalità che siano in grado di impiegare i metodi, di metterli a frutto. Né si può più pensare alla formazione di una classe dirigente alla quale delegare le decisioni collettive e il governo dei diversi settori del sociale. Sono convinto che tanto il concetto quanto l’espressione “classe dirigente” risultino ampiamente e definitivamente superati. E’ sufficiente considerare che l’espressione che traduce il concetto viene usata da troppo tempo per non farsi venire il sospetto che si sia logorata. Se si condivide che il bisogno sia quello di una eccellenza ordinaria, allora si deve pensare ad una formazione diffusa  che consenta a tutti ed a ciascuno di operare in maniera costante e compatta, che fornisca a tutti ed a ciascuno gli strumenti per scrutare gli orizzonti e leggere gli scenari antropologici, culturali, sociali, politici, economici che si profilano sia in prossimità che in lontananza. Al Sud ora serve uno sguardo lungo.
Certo, possiamo aprire cantieri in ogni angolo delle nostre contrade, ma poi i cantieri ad un certo punto si devono comunque chiudere, per cui c’è bisogno di persone e personalità che abbiano prospettive e progetti, che mentre stanno lavorando in uno degli angoli contemporaneamente pensino a come aprire altri cento cantieri in altri cento angoli, e pensino in modo compatibile con l’ambiente, con il paesaggio, il contesto, la geografia e la storia, che abbiano un sentimento del progresso. Il sentimento del progresso si matura nella scuola e si fonda sul sentimento della storia.
Tutti sanno e tutti dicono che i problemi che riguardano il Sud riguardano anche l’intera nazione e riguardano anche l’Europa, che una ripresa a qualsiasi livello deve assicurare uguaglianza di opportunità per tutte le aree del Paese, che una desertificazione del Sud si estenderebbe inevitabilmente, che un sottosviluppo permanente inciderebbe sullo sviluppo complessivo.
Se qui diciamo che c’è l’urgenza di un pensiero nuovo è per il fatto che il pensiero che abbiamo avuto finora ha prodotto quello che vediamo anche quando stringiamo  gli occhi per non vedere. Allora, fra i tanti proclami che si fanno e programmi che si promettono e impegni che si assumono per il Sud, occorre metterne in conto uno, prima di qualsiasi altro: l’elaborazione di nuovi, concreti processi e percorsi di formazione, all’interno dei  quali  recepire le priorità culturali e formative che riguardano il meridione ma coinvolgono tutto il Paese, senza esclusione di nessuna delle sue regioni e di nessuno dei suoi abitanti. Un pensiero nuovo dev’essere necessariamente trasversale, deve contagiare, si deve sviluppare attraverso l’integrazione e l’interazione delle identità culturali e delle specificità territoriali. Frequentemente si dice che a questo Paese serve un progetto di sviluppo organico e sistematico. Ma un progetto di sviluppo può essere elaborato soltanto da un pensiero che riesce a pre- vedere. Se si pre-vede che un Sud culturalmente desertificato, strutturalmente sottosviluppato, determinerà una diversa fisionomia della nazione – che pertanto non sarà più una e indivisibile-  di conseguenza si devono delineare processi di formazione di un pensiero capace di impedire che la catastrofe avvenga. Perché se il Sud diventerà deserto, se sprofonderà in una condizione di sottosviluppo permanente, nessuno al di là del Sud, in Italia o in Europa, potrà illudersi di abitare una terra fertile.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 23 agosto 2015]

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I naufragi e la trappola della realtà virtuale

Quasi vent’anni fa usciva, postumo, un libro straordinario di Paul Zumthor intitolato Babele. Un testamento intellettuale appassionato e lucido, attraversato da una prefigurazione di scenari, da presentimenti, da previsioni di accadimenti culturali, da speranze fioche  e da timori espressi in modo saggiamente cauto. A un certo punto Zumthor diceva: “Eccoci già, dietro i nostri occhiali speciali, a contemplare una realtà virtuale che esaurisce le possibilità passate, presenti e future, cioè che sospende il destino e intrappola la nostra umanità. Noi, che assistiamo per primi a questa mano di gioco, sapremo, lo spero, tirarci fuori dalla trappola”. A tirarci fuori dalla trappola  non ci siamo riusciti; ci siamo caduti dentro, siamo sprofondati fino al punto da non renderci conto quasi più che si tratta di una trappola. La trappola si è fatta il nostro habitat. Allora ci sono situazioni in cui non facciamo più differenza tra realtà e realtà virtuale, perché la seconda ha divorato la prima per cui si presenta come realtà esclusiva. Anche perché è una trappola che spesso ci tiene al riparo, ci rassicura spalancando una distanza tra noi e quello che accade; tutto è lontano, tanto lontano che non può riuscire a coinvolgerci, non ci può riguardare. Così siamo lontani, per esempio, dalle tragedie che sconvolgono il Mediterraneo. La nostra è una partecipazione virtuale ad una realtà virtuale. Fa eccezione soltanto la partecipazione di quelle creature che strappano altre creature all’abisso. Gli altri, tutti gli altri, osservano. Ora, mentre scrivo, dalla tv mi arriva la notizia di circa 200 cadaveri di migranti individuati  davanti alle coste di Zuwara. Poi i particolari: i corpi di 40 persone sono stati trovati all’interno della stiva di un barcone che si è arenato su una spiaggia, mentre circa 160 galleggiavano in mare. Poi, immediatamente dopo, un’altra notizia di tutt’altro genere, mi distrae, si porta via ogni tentativo di riflessione.

Qualcosa di simile è accaduto anche ieri, e ieri l’altro; qualcosa di simile purtroppo accadrà domani e dopodomani. Anche il sentimento di pietà, anche l’emozione, con il ripetersi delle immagini si attenuano progressivamente fino ad azzerarsi. Ecco, dunque, la nostra umanità intrappolata di cui parlava Paul Zumthor. Ecco la lontananza: non quella fisica – casuale- ma quella psicologica, determinata da una notizia senza narrazione o da una narrazione tranciata. Eppure, probabilmente, avremmo bisogno di riflettere sulla condizione del naufragio che  più di ogni altra rappresenta questi primi quindici anni di secolo nuovo, di questo nuovo millennio,  perché è una condizione dal carattere assoluto e, nella sua assolutezza, configura l’immagine dell’irreparabile, dell’assenza di ogni possibilità di salvezza.
Ma i media funzionano così. Sullo schermo non succede mai niente, diceva Zumthor; le immagini escono da un buco nero, ci assalgono, e poi se ne vanno. O arrivano su uno dei tanti altri strumenti di cui ci riempiamo le case e le tasche, si sovrappongono, ci lasciano forse qualche sensazione a fior di pelle, senza autenticità e senza forza. Spesso abbiamo l’impressione che si tratti di una finzione. Spesso sono davvero una finzione.
Basterebbe soltanto pensare alla funzione che assumono le immagini di repertorio, che potrebbe anche costituire una metafora della finzione che avviene attraverso la riproposta del già accaduto.
Diceva Zumthor che col pretesto delle nostre tecnologie si sono snaturate le grandi idee generose della modernità, liberta, uguaglianza, tolleranza. Abitiamo un reale de-realizzato dalle immagini proiettate dai media.
Ma nei vent’anni che sono trascorsi da quando scriveva queste cose, qualcos’altro è successo. Così, qualche volta, si ha la sensazione che il dilagare dell’immagine abbia trasformato le nostre percezioni e  abbia prodotto un abbassamento della sensibilità individuale e, conseguentemente, della sensibilità collettiva.
Forse in vent’anni abbiamo perduto la capacità di stupirci per quello che ci accade intorno, ci siamo anche assuefati al tragico e percepiamo tutto come spettacolo. Certo, si può dire che davanti alle scene delle migrazioni disperate, dei naufragi spaventosi – ancora come esempio- noi ci emozioniamo. E’ vero. Però potremmo anche farci prendere dal dubbio che l’emozione sia la stessa che possiamo provare davanti a un film, ad uno spettacolo, senza nessuna differenza. E’ cambiato – o forse si è spezzato- il rapporto tra l’esperienza e l’emozione.
Non abbiamo saputo tirarci fuori dalla trappola. Tutto qui. Forse  non abbiamo voluto. In fondo la trappola ce la siamo costruita da noi stessi, e ci restiamo, e ci resteremo, anche con sempre meno consapevolezza  di vivere dentro una trappola.

Poi la stessa notizia l’ho letta sui giornali, e l’effetto è stato completamente diverso. Il racconto non viene interrotto, la parola scritta, si sa, consente l’approfondimento, la riflessione, una visione se non compiuta, se non complessiva, comunque più ampia. Leggendo si stabilisce una relazione più profonda con i fatti e con le esistenze implicate nei fatti. Semplicemente: leggendo la notizia sui giornali  si ha la possibilità di contestualizzare, di individuare connessioni, di comprendere quello che la rapidità dell’immagine non fa comprendere. Vorrei azzardare e sostenere, addirittura, che l’immagine non fa pensare perché non deve far pensare; deve ipnotizzare. L’obiezione la faccio da solo dicendo che ci sono immagini, invece, che raccontano di più e meglio di milioni di parole, che restano incise negli occhi, che scuotono coscienze. Può accadere con una foto. Il rastrellamento in un  ghetto e un bambino con un berretto a visiera, scostato di lato, le calze al ginocchio,  le mani sollevate in alto, in segno di resa davanti al disumano. Un ragazzo in camicia bianca parato davanti a una colonna di carri armati, in piazza Tienanmen a Pechino, ventisei anni fa.

Ma sono particolari, eccezioni nel contesto di un sistema.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 1 settembre 2015]

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Apriamo anche le scuole ai migranti

Il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore delle forze armate Usa, in una intervista esclusiva alla Abc ha detto che le migrazioni di massa rappresentano un’emergenza enorme, una crisi reale. Ciascuno di noi ha una lucida consapevolezza di questo, e probabilmente ciascuno di noi ha anche consapevolezza che un fenomeno di tale portata debba essere governato con interventi, processi, strategie che assumano innanzitutto una prospettiva di carattere culturale. La storia deve insegnare. I popoli che hanno affrontato culturalmente situazioni di questo genere, dalle quali la storia è attraversata, hanno avuto come effetto uno sviluppo di civiltà. Chi non ha saputo accogliere, integrare, interagire, ha soltanto generato conflitti. Un conflitto si vince o si perde. Quando si combatte contro chi ha fame, solitamente si perde.

Ma una prospettiva culturale ha bisogno di strumenti che la realizzino; gli strumenti che realizzano la cultura sono quelli della formazione: di quella linguistica, prima che di ogni altra. Perché poter parlare, poter ascoltare, significa potersi comprendere. Comprendersi significa poter mettere in comune dei significati. I significati in comune consentono di convivere. Dico cose scontate, lo so. Per cui, se quello che ho scritto nelle righe di sopra è scontato, se è scontato che alla prospettiva culturale non c’è alternativa civile, se è scontato che la cultura si configura attraverso la formazione, allora è anche scontato che ai migranti bisogna aprire le scuole attraverso un progetto adeguato alla straordinarietà del fenomeno, realizzato da tutti i soggetti interessati, ad ogni livello.

Certo, la cosa comporta difficoltà, soprattutto relative alle risorse di ogni genere e alle strutture, considerando il numero di persone. Ma le difficoltà sono inevitabili nella condizione di complessità della situazione. D’altra parte non saprei individuare nessun’ altra soluzione.

Affrontano il mare in condizioni disumane. Sfidano morti atroci. Si accalcano alle frontiere, le attraversano. Poi da qualche parte si dovranno fermare. Durerà vent’anni, dice il generale. Lo sappiamo. Forse anche di più. Possiamo chiederci cosa faranno i bambini, i ragazzi, quando si fermeranno; cosa faranno i giovani, gli adulti. Nei campi profughi possono restarci una settimana, un mese. Poi che cosa faranno. Staranno da qualche parte soltanto fra loro. Parleranno soltanto fra loro. Forse costruiranno comunità separate. Ma anche le comunità separate generano conflitti. Ecco, dunque, che bisogna aprir loro le scuole: possibilmente anche agli adulti ma prioritariamente ai bambini, mettere in relazione le generazioni e le loro civiltà e le loro storie. La scuola costruisce appartenenze, fa maturare persone e personalità capaci di sentirsi dentro una cultura, un territorio, un tempo presente che conferisce senso al passato e al futuro.

Colui che si sente per lungo tempo sradicato, estraneo ad ogni luogo e ad ogni gente, può avvertire una sofferenza annichilente di nostalgia oppure di rabbia o di disagio o di malessere, una sofferenza che prima o poi ma inevitabilmente provoca reazioni. La scuola attribuisce cittadinanza, perché è luogo aperto che non solo accoglie, inserisce, integra, ma accomuna: esistenze e idee, tradizioni, religioni, identità, immaginari, visioni del mondo, espressioni di pensiero. Peraltro, tenuto conto delle dinamiche di globalizzazione e del movimento continuo di intere popolazioni, una riconfigurazione del concetto di cittadinanza risulta inevitabile e la riconfigurazione semantica deve necessariamente fondarsi sui concetti di inclusione, pluralismo cittadinanza. Si tratta, dunque, di qualificare l’espressione “cittadino del mondo”, con il riconoscimento dei diritti, dei doveri, della partecipazione. La formazione è un diritto e un dovere di ogni cittadino.

Durerà vent’anni. Forse di più. Che cosa accadrà in tutto questo tempo. Non si può pensare esclusivamente ad una gestione delle emergenze. Occorre anche un progetto di società, di civiltà, che prenda atto della condizione di multiculturalità rapidamente – quotidianamente- crescente e sviluppi un processo di equilibrata integrazione.

I progetti di società, di civiltà, si fanno nella scuola. Allora bisogna aprirgli le scuole. Insegnargli la lingua e apprendere la loro per quanto è possibile, oppure, per quanto e quando è possibile, determinare una comunicazione attraverso una lingua comune. E’ chiaro che ci vuole tempo. Ma le integrazioni di civiltà hanno bisogno di tempo. Ci vuole tempo ma non si può perdere tempo, perché perdere tempo vuol dire consegnare il presente e il futuro al caso e al caos.

Sono decenni che facciamo filosofia, pedagogia, sociologia dell’ “Altro”. Adesso è il tempo di fare esperienza.

Adesso è venuto il tempo di togliere le virgolette e di applicare la teoria, perché l’ Altro, adesso, ci riguarda concretamente. Non ci vuole molto, in fondo: è sufficiente considerare che i nostri destini individuali e collettivi sono legati a nodo stretto a quelli di coloro che chiamiamo Altri.

Durerà vent’anni. Forse di più. In questi vent’anni, forse in meno di vent’anni, il volto dell’Europa cambierà. Probabilmente sta già cambiando. Dobbiamo fare in modo che nel volto dell’Europa ogni esistenza che la abita possa ritrovare alcuni tratti del proprio volto, possa sentire che quel volto in qualche modo le appartiene. Il senso e il sentimento di appartenenza sono quasi sempre una conseguenza di una condizione naturale o di una condizione culturale, o dell’una e dell’altra che si richiamano reciprocamente: si sente di appartenere a qualcosa, a qualcuno, oppure si comprende di appartenere. I processi di comprensione delle culture, tra culture, si realizzano dentro una scuola.

Apriamo le scuole ai migranti, dunque. Lo proponiamo da qui, da questo Sud del Sud, da questo giornale, da persone convinte che nella scuola – forse soltanto nella scuola – si disegnano i paesaggi delle civiltà.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 10 settembre 2015]

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Studiare: va’ dove ti porta l’attrazione

A cominciare dai primi anni Settanta e per tutti gli anni Novanta, i ragazzi, le ragazze che studiavano, dovevano quasi nascondersi, mentire, fingere di non farlo, come se studiare fosse una vergogna, una sorta di oltraggio alla propria libertà, una rapina che ciascuno faceva al proprio tempo. Io studio, tu studi, egli studia, noi studiamo, voi studiate, essi studiano. Che tempo è? Tempo perso. Così si diceva. Slogan goliardici trasformati in ideologia. Era uno degli effetti del sessantottismo. Il Sessantotto produsse certo cose buone; il sessantottismo rappresentò – e in qualche modo ancora rappresenta- una devastazione del sistema su cui si fonda la crescita sociale e personale. Era una delle lezioni dei cattivi maestri, perché i maestri non sono tutti uguali: ci sono quelli buoni e quelli cattivi. I cattivi maestri dicevano di non studiare, in modo tale che il potere, quel potere che pensavano di realizzare, potesse agire senza interferenze, senza confrontarsi con il pensiero critico e creativo. I buoni invece ripetevano con altre parole quei versi di Vittore Fiore, l’intellettuale meridionalista, il poeta figlio del Tommaso che scrisse “Un popolo di formiche”. (Di Vittore ho avuto l’onore di essere stato amico). Ne “Il male è dentro di noi” ammoniva: “tenete salda la bandiera/ autonoma della critica”.

Poi, lentamente, quasi impercettibilmente, le cose cominciarono a cambiare. Poi, lentamente, si cominciò a capire, si cominciò a prendere coscienza che il tempo perso era esattamente l’altro, era quello passato a non studiare, a non cercare di comprendere le storie che girano per il mondo. Perché studiare non vuol dire starsene soltanto qualche ora con i libri sotto gli occhi; vuol dire guardarsi intorno e cercare di capire quello che accade e per quale ragione accade in quel modo e non in un altro; vuol dire guardarsi dentro e dare una spiegazione ai propri pensieri, ai sentimenti, alle emozioni. Vuol dire interrogarsi e interrogare l’Altro, dare delle risposte a se stessi e dare delle risposte all’Altro.

Allora, sul finire degli anni Novanta, maturò una consapevolezza culturale che scardinò la controcultura del disimpegno e delle sue varianti, e si (ri)comprese che studiare era una condizione indispensabile, essenziale per essere, per esistere, che non c’era alternativa e che non c’erano scorciatoie, che quelle che potevano sembrare scorciatoie talune volte erano soltanto tratturi che finivano sull’orlo del dirupo della marginalità e dell’emarginazione civile, sociale.

Adesso è un tempo diverso. Adesso, a un certo punto, quando l’adolescenza comincia a declinare, l’interrogativo che diventa pressante è verso quale sfera del sapere sia opportuno orientare lo studio.

L’interrogativo è provocato dall’idea di futuro.

Ma è proprio questa idea di futuro che rende difficile, forse impossibile, una risposta. Non sarebbe giusto tenere in conto soltanto considerazioni pratiche, fare riferimento esclusivamente alla previsione relativa al tipo di conoscenze e competenze che serviranno domani, domani l’altro, anche perché i paesaggi culturali, sociali, economici, cambiano rapidamente, spesso in modo vertiginoso, e le richieste del mercato e del lavoro si adattano necessariamente a tali cambiamenti. La condizione di incertezza permanente e irresolubile di cui parla Zigmunt Bauman, provoca il continuo spostamento  di qualsiasi punto di riferimento.

Che cosa studiare, dunque. Forse ci rimane soltanto una risposta antica. Si deve studiare quello verso cui si sente un’attrazione, che non è ancora passione ma  che comunque è un sintomo fondamentale. Per quello verso cui si avverte un’attrazione si è disposti a fare sacrifici; per quello che si sceglie esclusivamente per un calcolo, non sempre o quasi mai si ha la stessa disponibilità. Oltretutto, non è detto che il calcolo sia sempre giusto. Quando si ha a che fare con le faccende determinate dagli umani, l’imprevedibile diventa una costante.

Studiare le cose che esercitano un’attrazione, allora. Innanzitutto, ma non solo. Accade, per nulla raramente, che l’attrazione nei confronti di qualcosa sia generata dalla frequentazione. E’ questa l’attrazione più matura, che poi si trasforma in sentimento, in passione.

In fondo la relazione con la conoscenza non è poi molto diversa da quella con le persone. In fondo i saperi sono esseri viventi, che ci coinvolgono, ci avvolgono.  In fondo non c’è mai, perché non ci può essere, una separazione fra i campi del sapere. La scienza ci porta sui sentieri della letteratura, per esempio, e la letteratura sui sentieri della scienza. Quello che più conta è essere curiosi, di tutto, di ogni disciplina, perché non c’è nessuna disciplina che non riguardi il mondo e le sue creature.

La risposta, dunque, è sempre quella antica: studiare tutto mettendoci il sentimento. Certo, il sentimento nei confronti del sapere non può essere sempre di un’identica natura. Come non è della stessa natura  nei confronti delle persone. Si prova sempre un diverso sentimento. Ma nessuno ci è mai indifferente.

Ecco, se dovessimo dare un consiglio a qualcuno – o più esattamente, più modestamente, un suggerimento-  diremmo di studiare tutto sforzandosi di evitare sempre l’indifferenza.

Indifferenza è una delle più brutte parole registrate nel vocabolario.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 15 settembre 2015]

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Il sogno infranto di Roland Barthes

Conoscono tutti la storia di quell’emigrante che a chiunque gli chiedesse quale fosse il luogo che più gli piaceva di Milano, rispondeva “la stazione centrale”. Quando chiunque gli chiedeva quale fosse il motivo, lui rispondeva “perché ci sono i treni che vanno giù a Lecce”.

Allora, quando la sera smetteva di lavorare, l’emigrante se ne andava alla stazione centrale, e immaginava di tornarsene giù a Lecce.

Questa storia un po’ vera e un po’ falsa, come tutte le storie, mi ha sempre fatto pensare alla pagina 309 de “Il brusio della lingua”, nella quale Roland Barthes  racconta di una sera alla stazione di Milano. Fa freddo. Piove. C’è nebbia. Su un vagone di treno in partenza c’è un cartello giallo con la scritta Milano- Lecce. Allora ho fatto un sogno, dice Roland Barthes: prendere quel treno, viaggiare tutta la notte, ritrovarmi il mattino nella luce, la dolcezza, la calma di una città del tutto diversa. A Lecce, Barthes non venne mai. Una volta arrivò a Bari, per una conferenza. Per lui, Lecce rimase solo una città sognata.

Pensavo spesso alla pagina di questo libro tradotto in Italia da Einaudi nel 1988, quando saltavo sull’intercity che partiva per Lecce. Anche a me la stazione centrale mi pareva il più bel luogo di Milano, il più affascinante di tutta la Lombardia.

Saltavo sul treno che partiva per Lecce tutti i venerdì dell’anno scolastico 1993-94, quando cominciai a fare il mestiere che faccio, a Senago, provincia di Milano, perché all’epoca il concorso direttivo era a livello nazionale.

Non stavo male, lì. Ma il venerdì mattina mi prendeva una specie d’ansia. Il venerdì mattina, non so perché, dentro gli occhi si formava l’immagine della stazione di Lecce.

Così alle 13 saltavo sul treno.  Lodi, Bologna, Ancona, Pescara, Foggia. A Bari scendeva il mio amico che lavorava a Sesto San Giovanni. Come in una poesia di Giorgio Caproni, qualcuno scendeva, qualcuno saliva. Un treno è così. In treno il viaggio è più bello. Si guarda fuori dal finestrino, si pensa, si parla con sconosciuti come se fossero amici d’infanzia. Il treno è il  luogo dei racconti che si incrociano.

A Bari arrivavo alle nove di sera, minuto più minuto meno. Il treno per Lecce partiva alle undici, forse alle undici e qualcosa. A Lecce arrivavo all’una e qualcosa. Per due ore leggevo. Devo essere grato alle ferrovie italiane per avermi dato l’opportunità di leggere per due ore. A volte leggevo un libro intero. Devo essere grato, certamente. Certi ragazzi che studiano nelle università del Nord, certi insegnanti che lavorano al Nord – di ruolo o precari- mi dicono che mentre aspettano a Bari il treno per Lecce, riescono a studiare per l’esame, a prepararsi le lezioni. Ora come allora.

Sono passati ventidue anni. La storia è rimasta esattamente com’era. Lecce è lontana. Lontanissima. Sud del Sud. Periferia infinita. Finibusterrae. Molte cose in Italia sono cambiate in ventidue anni. Ma per i treni l’Italia finisce sempre a Bari. Per i treni il Salento non c’è.

C’è una sorta di bellezza, se si vuole, in questo isolamento: la stessa bellezza che può avere un ponte crollato. Però riesce davvero difficile capire perché. Nonostante le spiegazioni che si possano dare, riesce difficile, quasi impossibile, capire perché si fa crollare il ponte che porta ad una terra  con una forte e sostanziale caratterizzazione  culturale.

Qualcuno potrebbe anche pensare e dire, motivando, che per qualche ragione l’Italia comincia a Lecce, o a Leuca. Lo sappiamo: un luogo comincia o finisce in relazione al punto da cui ci si mette per guardare. Un paese comincia sempre dalla propria casa. Se ci si mette a guardare da Sud, se si assume come prospettiva un certa idea di cultura,  l’Italia comincia  da Leuca, da Otranto, da Castro, da Badisco, da Lecce.

L’iniziativa che ha preso questo giornale per portare Frecciarossa a Lecce, ha la sua radice in una dimensione culturale. In fondo, il treno è sempre stato un simbolo di progresso. Questo Sud è terra di progresso. Come si può spezzare una  relazione tra significati.

Lo sviluppo è l’esito di una relazione tra significati.

 [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 20 settembre 2015]

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Ricominciamo dal pane per aiutare gli altri

Non c’è situazione, occasione, circostanza in cui Francesco  (chiedo scusa ma mi piace molto chiamarlo soltanto per nome) non rivolga un pensiero e una parola agli emarginati, ai marginali, ai sopraffatti dalla vita, dalla sorte, dall’ingiustizia, dall’egoismo, dall’indifferenza. Si potrebbe dire che la cosa è normale per un uomo che fa il Papa; ma si potrebbe anche dire che dovrebbe essere  normale per ogni uomo che  faccia semplicemente l’uomo.

Ricevendo in udienza i rappresentanti della rete di carità della Fondazione Banco Alimentare, Francesco ha detto che la fame  ha assunto le dimensioni di un vero scandalo che minaccia la vita e la dignità di tante persone, uomini, donne, anziani, bambini. Ha detto che ogni giorno dobbiamo confrontarci con questa ingiustizia.  In un mondo ricco di risorse alimentari, grazie anche agli enormi progressi tecnologici, troppi sono coloro che non hanno il necessario per sopravvivere. E questo non solo nei Paesi poveri, ma sempre più anche nelle società ricche e sviluppate. La situazione è aggravata dall’aumento dei flussi migratori, che portano in Europa migliaia di profughi, fuggiti dai loro Paesi e bisognosi di tutto.

Ciascuno di noi ripone nel progresso una fiducia incondizionata. E’ giusto. Ciascuno di noi vorrebbe riporne sempre di più. Ma alle volte sbalordisce, si disorienta, si indigna davanti alla consapevolezza che quel  progresso nel quale ripone fiducia e che costituisce un motivo di orgoglio per la civiltà, si mostra impotente di fronte ai problemi sostanziali, essenziali,  non riesce ad impedire che migliaia e migliaia di persone al giorno muoiano di fame.

Morire di fame è un’espressione che sembra incredibile, un luogo comune, un anacronismo.

Invece si tratta di una realtà che equivale a uno sputo contro il cielo. Ancora più blasfemo, ingiurioso, osceno, se si pensa che  esiste una parte di mondo ingozzata, satolla, che ogni giorno  rovescia nella spazzatura pane, pasta, carne, pesce, uova, frutta, con uno spreco sfrontato, balordo, l’esito sostanziale e simbolico di una condizione egoista, viziata, dissoluta, indifferente. Stupida.

Così la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone si trasforma in  concretezza  che spaventa, soprattutto per il fatto che l’abisso della differenza non riguarda più solo classi sociali ma intere civiltà, e quando una civiltà ha fame sovverte l’universo. Giustamente.

In un libro del filosofo spagnolo Fernando Savater, che si intitola “I sette peccati capitali”, trovo questo passo: “ la cosa peggiore è che oggi, mentre molti hanno la fortuna di poter mangiare o digiunare a piacimento, tanti altri sono privi del necessario e non possono neanche nutrire i figli con il minimo indispensabile. La gola, allora, diventa peccato quando offende i diritti e le aspettative del prossimo, quando si mangia ciò che spetta agli altri, lo si accaparra e gli si lascia poco o niente. Dimenticarsi di questo è il peccato di gola più grave del nostro tempo”.

In qualche occasione diventa quasi inevitabile domandarsi se, per caso, tutto quello che sprechiamo non lo abbiamo rubato ad altri. Viene da domandarsi se l’opulenza di una parte del mondo  in qualche maniera non sia determinata dalla povertà di altre parti del mondo. Forse non è fuor di luogo chiedersi quanto pane noi rubiamo agli altri e quanto di quel pane rubato venga destinato alle discariche.

Continuando con le domande ci si potrebbe anche chiedere che uomini siamo, che civiltà siamo, che coscienza abbiamo. Poi: qual è il rapporto che ci lega all’altro, quale senso di solidarietà abbiamo maturato.

Ha detto Francesco: “Condividendo la necessità del pane quotidiano, voi incontrate ogni giorno centinaia di persone. Non dimenticate che sono persone e non numeri, ciascuno con il suo fardello di dolore che a volte sembra impossibile da portare”. Forse ciascuno di noi ne conosce qualcuna. Forse solo una. Oppure è così fortunato da non conoscerne nessuna. Se non la conosce la può immaginare. Ogni volta che scoperchia la pattumiera e butta il pane nel sacchetto la può immaginare. Può anche immaginare che gli somigli, quanto gli somigli.

Nel passato tutto ciò di cui ci cibavamo era definito companatico – sostiene Predrag Matvejevic, autore di “Pane nostro” –  un termine che già nell’etimologia indicava la subordinazione di tutto al pane. Ma da almeno cinquant’anni  il pane è diventato secondario, un contorno. E se tra vent’anni saremo otto miliardi sulla Terra, di cui due senza pane, il pane nostro diventa una grande metafora della civiltà.

Non saprei dire in che misura la sopravvivenza di questa civiltà possa essere condizionata da una nuova etica del pane e del suo consumo ma probabilmente si rivelerà indispensabile ripensare e rifondare un sentimento dell’esistenza con gli altri e per gli altri, attraverso una più umana relazione tra il benessere e il bisogno di chi abita la Terra. Se la Storia in qualche modo insegna qualcosa, allora avremmo dovuto – da tempo – imparare che le guerre spesso, molto spesso, avvengono tra chi non ha pane e chi ce n’ha da buttare.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di sabato 10 ottobre 2015]

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Un Giovane Holden che soccorra i giovani “Neet”

Dispersi. Vaganti in una terra desolata senza strade e senza direzioni. Esistenze che si nascondono. Identità scontornate, indefinite. Profili vaghi. Personalità contratte. Fantasmi ai quali è stata attribuita la definizione di  “Neet”: Not in Education, Employment or Training. Hanno tra i 15 e i 29 anni. Non studiano. Non lavorano. Magari hanno finito stentatamente la terza media e poi basta. Si muovono tra il niente e il niente.  Forse di tanto in tanto bussano a qualche porta, che resta chiusa. Forse aspettano qualcosa ma  non sanno che cosa.

Neet. Ragazzi, ragazze, ai margini, all’abbandono. Che hanno rinunciato. La condizione che spaventa è questa: che abbiano rinunciato. Se hanno rinunciato significa che non credono che coloro che gli sono intorno, che la società in cui vivono possa fare qualcosa per loro. Se hanno rinunciato significati che non credono di poter fare qualcosa per se stessi.

Non vedono orizzonti o, se talvolta ne intravedono qualcuno, è un orizzonte di colore scuro. Un orizzonte immobile. Quanti siano con precisione non si sa.  Si presume che in Europa il numero si aggiri intorno ai 13 milioni e mezzo. 

Secondo una ricerca di We World, organizzazione non governativa italiana di cooperazione allo sviluppo, in Italia sarebbero circa due milioni e rappresentano il 24% dei cittadini tra i 15 e i 29 anni. Secondo questa ricerca  il  costo sull’economia e sulla crescita del Paese prodotto dai Neet arriva fino al 6,8% del Pil, calcolato come effetto sul reddito fruibile nell’arco della vita.

Ma senza nessun dubbio, la cosa che costa di più, è il destino di questi ragazzi. Che non sanno cosa possono fare oggi e meno ancora cosa potranno fare domani. Hanno una vita vuota, senza scopo e senza prospettive.

Fra la condizione di Neet e la dispersione scolastica  esiste un legame a stretto nodo. Quasi tutti hanno una storia di dispersione, di abbandono, e la circostanza costituisce un’ulteriore dimostrazione che fuori dalla scuola esiste solo una realtà di emarginazione. Allora  si dovrebbero necessariamente indagare in tutti i modi possibili le cause di dispersione e di abbandono. Nessun fenomeno sociale accade per caso e forse nemmeno all’improvviso. Si genera, si stratifica, si amplifica. In Italia quello dei Neet sta crescendo. E’ una situazione che contrasta con l’attenzione pedagogica, psicologica,  nei confronti del disagio e dell’inclusione.

Perché accade, dunque. Con molta probabilità la concomitanza di  cause di diversa natura rende difficile una risposta. Quello che viene da pensare, così, è che  alla situazione di disagio sociale, economico, culturale che quasi sempre costituisce il fondo del fenomeno, si aggiunge la convinzione o la percezione che la scuola non possa garantire un futuro. Che cosa si può fare quando si finisce la scuola superiore, quando si finisce l’università. E’  una domanda che si fanno tutti. Poi, ci sono quelli che una risposta riescono a trovarla da se stessi; ci sono quelli che per avere una risposta possono contare sull’aiuto di un genitore, di un maestro; ci sono quelli – i più deboli, i più soli – che una risposta non riescono a trovarla. Allora lasciano. Solitamente si disorientano sulla soglia dell’obbligo d’istruzione, oppure durante il corso degli studi universitari. Si sbandano. Non  sanno più da che parte andare. Soprattutto non sanno per quale motivo devono andare. Probabilmente è proprio la demotivazione che corrode la fiducia in se stessi e negli altri: è il non riuscire più ad attribuire un senso a  quello che fanno, soprattutto il non riuscire più a correlare quello che fanno con quello che faranno dopo.

L’assenza di senso provoca la depressione, la rinuncia ad un progetto di vita. Allora lasciano i libri. Per qualche tempo cercano saltuarie occupazioni, per tirare a campare. Poi rinunciano anche a questo. Si rifugiano nell’isolamento o cercano la solidarietà di altri dispersi. Forse è questa la situazione  peggiore: ritrovarsi con altri che vivono la stessa condizione, condividere la rinuncia, la mancanza di senso, il lasciarsi andare, contagiarsi la rassegnazione.

A volte è difficile pensare soluzioni. Personalmente sono convinto che rispetto a questo fenomeno la scuola faccia tutto quello che può e deve fare, almeno da un decennio a questa parte.

La fa perché appartiene alla sua natura. Non saprei dire, ora, se anche altri luoghi  del sociale facciano tutto quello che possono e devono fare. A volte è difficile pensare soluzioni, certo, ma in questo caso è indubitabile che esista la necessità di interventi convergenti, sistematici, costanti, di un progetto preciso, di una partecipazione sostanziale all’impresa di salvare le creature dal dirupo.

In una delle ultime pagine de Il giovane Holden, Salinger fa dire al suo personaggio: “Mi immagino sempre tutti questi ragazzini  che fanno una partita in quell’immenso campo di segale. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di martedì 13 ottobre 2015]

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Informazione e formazione: il compito dei giornali

Giorno dopo giorno stiamo imparando, o giorno dopo giorno abbiamo già imparato, che ogni sapere, ogni  conoscenza, ogni   competenza diventano obsoleti nel volgere di poco tempo, di stagioni alle volte anche molto brevi. Stiamo imparando o abbiamo imparato che ogni  sapere  ha bisogno di una costante rielaborazione, di una continua riformulazione, che deve adeguarsi  alle mutazioni, spesso anche vorticose, che si verificano nel sociale. Nemmeno i saperi specialistici costituiscono una garanzia di durata. Devono essere tramati di altri saperi, di trasversalità, devono aprirsi alla multidisciplinarietà, all’interdisciplinarietà, ai significati nuovi, all’inedito, all’imprevisto.

Stiamo imparando o abbiamo già imparato che il lavoro – ogni tipo di lavoro- richiede una capacità di adeguamento delle competenze alle esigenze insorgenti, ai nuovi strumenti, alle rinnovate richieste. 

Ogni tipo di lavoro pretende un pensiero che sia in grado di  calibrarsi al nuovo che sopraggiunge continuamente, che a volte si integra con l’esistente, che a volte lo soppianta. La seconda  condizione, quella del nuovo che sostituisce l’esistente, accade sempre più frequentemente, soprattutto a causa del rapidissimo evolversi della tecnologia. Qualcosa che avantieri risultava essenziale, che ieri sembrava utile comunque, oggi non serve più, a nessuno e per niente. Allora c’è bisogno di un pensiero capace di intercettare, di decodificare e di interpretare i significanti e i significati che provengono da ogni direzione, di un’intelligenza che sia in grado di intuire e di scegliere una strada, la giusta strada, quando quelle che si presentano davanti sono molte e sconosciute. Il tempo che viviamo ha urgenza di una formazione che si rigenera costantemente, probabilmente più di qualsiasi altro tempo, perché il tempo che viviamo determina situazioni di competitività maggiori rispetto a qualsiasi altro tempo. Stiamo imparando questo, o lo abbiamo già imparato, giorno dopo giorno. Non di rado sulla nostra pelle.

Spesso, purtroppo sempre più spesso, diciamo che i giovani devono imparare ad inventarsi il lavoro. E’ vero, anche se dentro questa frase che ha una sua fisionomia culturale a volte si nasconde la nostra incapacità sociale di garantire un lavoro. Ma dire che i giovani devono saper inventarsi un lavoro significa che si deve dar loro gli strumenti di pensiero che consentano di farlo. Non è solo la scuola che dà questi strumenti. Siamo, volenti o meno, tutti coinvolti. Quindi tutti responsabili, volenti o meno. Lo sono anche i mezzi d’informazione. Vorrei dire: d’(in) formazione.

Non molto tempo fa partecipai ad un dibattito durante il quale venne fuori la questione se i media debbano avere anche una funzione formativa. C’era chi diceva di sì e chi diceva di no. Ma mi chiedevo in quell’occasione e mi chiedo ora se il concetto di informazione non includa quello di formazione. Si potrebbero anche invertire i termini, ma il senso della domanda non muterebbe. In fondo la differenza consiste in una sillaba.

Mi permetto di proporre un esempio. Anche se forse è in via d’estinzione, esiste ancora (resiste) una specie d’uomo ( e di lettore) che si ostina a credere, e in certi casi anche ad affermare, che un giornale non abbia soltanto la funzione di informare ma anche quella  di formare. Talvolta questa specie d’uomo ( e di lettore) osa impiegare perfino un termine demodé: educare: educare persone, personalità, coscienze.

Un rappresentante nobile di questa specie d’uomo (e di lettore) è un tale Ceronetti Guido. Malinconico guitto, teatrante di strada, dice egli di sé. Gli altri dicono di lui: originalissimo intellettuale, poeta, fine traduttore.

Ricordo che anni fa il Ceronetti Guido disse che i giornali dovrebbero cercare l’anima del lettore, perché questa ricerca dell’anima era l’unica condizione che avrebbe consentito ad essi  di sopravvivere al  meteorite tecnologico. Così diceva il Ceronetti Guido.

Ma  i giornali non possono e non devono cercare l’anima del lettore. Questa ricerca è una disperazione alla quale non si possono condannare i giornalisti. Solo il grande sacerdote, o il grande poeta, può essere condannato a questa pena. Il Ceronetti Guido questo lo sa bene. Lui conosce l’ossessione che comporta il viaggio in interiore, la discesa nelle profondità oscure dell’umano. Ai giornali spetta il compito semplice, umile (e, in quanto semplice e umile, essenziale e straordinario) di raccontare storie come sono state viste o sono state udite. Niente di più e niente di meno.  Solo questo.

Ma le storie che corrono nel villaggio sono tante e sempre più diverse, sempre più intrecciate, più complesse. Non si possono raccontare tutte. Allora si sceglie quali raccontare. Ecco: nel momento in cui si fa la scelta, la si fa con un’intenzione. E’ dentro questa intenzione che sta la differenza tra la semplice informazione, quella che non si stratifica, che non lascia traccia,  e l’informazione che fa formazione, che trasforma i comportamenti.

Ritorna la domanda, dunque, se un giornale quando fa informazione fa o può fare anche formazione. Per me la risposta è sì, senza dubbio alcuno, e non voglio per nessun motivo cambiare opinione.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di martedì 27 ottobre 2015]

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Con la scuola alla ricerca del linguaggio perduto

La storia si è fatta vecchia ormai a tal punto che diventa anche noioso raccontarla. Si sa da tempo, da molto tempo,  si vede, si sente che il linguaggio che usiamo ogni giorno, in ogni situazione, in ogni circostanza, per dire qualsiasi concetto e qualsiasi esperienza anche straordinaria, si è immiserito, appiattito, rattrappito. Usiamo tutti sempre le stesse parole, le stesse frasi ridotte, striminzite, abbreviamo le espressioni, e non per una tendenza all’ apprezzabile essenziale ma forse per pigrizia, per sciatteria, per noncuranza oppure, semplicemente, per mancanza di conoscenze e competenze basilari, oppure per un conformismo linguistico che costituisce la rappresentazione di un conformismo culturale, di personalità acriticamente adattate a mode, modelli, schemi, stereotipi, convenzioni, cliché.

Si può dire che il linguaggio cambia in relazione ai cambiamenti del sociale; dev’essere aperto, mobile. E’ vero. E’ giusto. Ma a volte cambia in meglio, altre volte in peggio. I cambiamenti degli ultimi almeno cinque decenni sono stati sempre in peggio. Il linguaggio non si è aperto ma si è accartocciato, contratto. Ha subito un processo di deperimento, di eccesivo livellamento, di esagerata semplificazione, di regressione costante; si è impaludato in meccanismi automatici, piatti formulari, uniformità spersonalizzanti. La latitanza della grammatica è diventata strutturale;  tempi e modi verbali sono stati schiacciati; è scomparsa pressoché totalmente  qualsiasi espressione anche solo in apparenza  originale. Così, se per caso nella carrozza di un treno a qualcuno capita di usare il termine “elegiaco”, si ritrova addosso gli sguardi smarriti degli altri. Ma un ragazzo sveglio sa perfettamente come fare, e messo in moto all’istante il suo smartphone informa tutti gli astanti che elegiaco vuol dire proprio dell’elegia o ad essa attinente.  Distico elegiaco, coppia di versi formata da un esametro e da un pentametro. Così riferisce. A quel punto lo smarrimento negli occhi degli altri si trasforma in terrore, mentre l’incosciente che ha pronunciato quella parola che sembra risalire dal pozzo degli arcaismi,  sorride sarcastico perché voleva dire tutt’altra cosa.

Anche sulle cause che hanno portato alla tragedia si è detto tutto quello che si poteva dire. E’ stata la vecchia televisione, indubbiamente, che dopo aver fatto l’unità d’Italia ha ridotto rasoterra il livello della sua parlata; sono stati i media sempre più nuovi, e poi i social e la massificazione, la globalizzazione, è stato tutto e siamo stati tutti, nulla e nessuno escluso: nemmeno la scuola, una certa scuola,  quella che ha malinteso il Sessantotto, che ancor di più ha malinteso e strumentalizzato il concetto di educazione linguistica democratica, che non ha capito che cosa volevano dire Lorenzo Milani e Tullio De Mauro, ed ancor meno ha capito il tempo storico e la finalità delle loro idee. Ma la cosa su cui non si possono nutrire dubbi è che è stata la scuola ad insegnare la lingua agli italiani quando avevano bisogno urgente di imparare a scrivere e a parlare. Perché al servizio di leva non solo non si capivano gli analfabeti piemontesi e siciliani ma nemmeno i pugliesi di Lecce con quelli di Bari.

Ora, probabilmente, la scuola, da quella dell’infanzia all’università, deve ricominciare ad insegnare a scrivere e a parlare. Deve insegnare a scansare le trappole dell’espressione banale in quanto inappartenente. Quel  linguaggio  grigio, uniforme, abusato, consunto, vago, superficiale, inconsistente, ridotto a formule preconfezionate e frammentarie,  ci rende, più o meno inconsapevolmente, estranei a noi stessi. Forse il problema è proprio questo: usiamo un linguaggio che non ci appartiene, la parola che non viene da dentro, che non pensiamo, non elaboriamo, che non ha relazione con quello che siamo, con quello che vogliamo. Usiamo le parole a caso. Parole riciclate e false, che non hanno un senso. Hanno un significato ma non un senso: il nostro senso, quello che noi vogliamo attribuire, che traduce la nostra idea precisa, il nostro preciso o incerto sentimento, l’oscillare delle nostre sensazioni, l’emozione che ci coinvolge. Non abbiamo più parole profonde, quelle parole che dicono la nostra identità, che ci fanno diversi da ogni altro, che ci rendono riconoscibili. E’ chiaro che non c’è nessun riferimento ad una lingua d’élite che si deve storicamente e ideologicamente rifiutare; il riferimento è ad una lingua dell’autenticità,  dell’esistere, del sé irripetibile.

La scuola ha formato una coscienza ed una identità linguistica sia a livello personale che a livello di comunità; ora deve ricominciare, e forse può farlo soltanto ricominciando ad insegnare a leggere.   E’ la lettura che educa alla  riflessione sulle parole e all’uso di quelle che hanno profondità. Ma non qualsiasi lettura. Con molta probabilità le parole che hanno profondità abitano un luogo che si chiama letteratura. E’ lì che si possono trovare le parole profonde. Quelle che sanno dirci e darci   il senso  di un’esperienza, che ci offrono la possibilità di  raccontare l’esperienza che abbiamo vissuto, quella che vorremmo vivere, quella che abbiamo sognato o vorremmo sognare. In un libro che si intitola “La letteratura in pericolo”, Tzvetan Todorov dice che la conoscenza della letteratura non è fine a se stessa ma rappresenta una delle vie maestre che conducono alla realizzazione di ciascuno, che  permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di uomo.

Nella speranza che la trasandatezza e l’incuria linguistica non riescano a contaminare anche il luogo della letteratura. Perché potrebbe  accadere. Solo la scuola ha la possibilità  di impedire che accada.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia di martedì 3 novembre 2015]

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L’inquietudine del sapere che (forse) rende felici

Nella lettera a Francesco Vettori, Machiavelli racconta che  dopo essersi ingaglioffato nell’osteria con l’oste stesso e un beccaio, un mugnaio e due fornaciai, giocando a cricca e a tricche trach, ritorna a casa e nello scrittoio si abbandona all’incantamento dei libri, e per  quattro ore, dice, “sdimentico” (un verbo bellissimo, che esprime concretamente il senso dell’oblio) “ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte”.

Se sdimenticare ogni affanno, non temere la povertà e nemmeno la morte, può anche significare, in qualche modo, avvertire per un tempo brevissimo una sensazione di felicità, allora Machiavelli e molti altri prima e dopo di lui, hanno anticipato quello che adesso viene  confermato da una ricerca condotta da Cesmer/Università Roma Tre su commissione del Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS).

Secondo i risultati della ricerca, i lettori sono complessivamente più felici dei non lettori, provano emozioni positive più spesso, provano emozioni negative meno spesso,  affrontano la vita in maniera più positiva rispetto ai non lettori e sanno godere del tempo libero in modo più ricco e articolato.

Probabilmente è vero. Probabilmente la condizione di felicità, o almeno la sua impressione, la sua sensazione, una percezione anche vaga di benessere, sono dovute a quella sorta di lontananza dal reale che un certo genere di lettura riesce a determinare. Ma sono dovute anche alla molteplicità dei punti di vista e delle personalità dei personaggi, all’attraversamento fantastico di luoghi sconosciuti, alla flessibilità di pensiero che la trama e l’intreccio pretendono. Raccontando della sua voracità di lettura, Olof Lagercrantz a p. 15 del suo L’arte di leggere e scrivere dice che per il tramite dei libri la sua vita a un certo punto subì una dilatazione. “Essi mi facevano vedere ciò che io non ero in grado di vedere da solo, e incontrare personaggi che vivevano più intensamente e drammaticamente di quanto facessi io. Erano creature di un mondo diverso e più elevato. Si prendevano cura di me e mi permettevano di stare presso di loro e di essere attivo, ricco, povero, buono e malvagio come loro”. Una relazione profonda con la trama e con l’intreccio assume la caratteristica di una educazione alla soluzione dei problemi. Non si tratta di un fatto di conoscenza, di acquisizione di informazioni, di contenuti, ma prevalentemente di acquisizione di un metodo di confronto con le storie che ci accadono dentro e intorno, con i destini che quelle storie profilano e offrono a noi per darci la possibilità di riconoscersi o non riconoscersi in essi.

Però forse il termine giusto per definire la differenza tra la condizione interiore di chi legge e di chi non legge non può essere quello di felicità. A volte si dice che la felicità non duri che un istante, che sia uno splendere inconsueto nel consueto grigiore, una sensazione vaga, indefinita, e così breve, così straordinariamente breve, che non si fa in tempo nemmeno ad assaporarla.

Non saprei dire quale possa essere il termine, dunque, ma la felicità e tutta un’altra cosa, assolutamente indipendente dalla lettura.

Forse chi legge riesce a darsi spiegazione delle emozioni, forse ha maggiore consapevolezza delle cause e degli effetti, forse (ma molto forse) avrà anche una visione  più positiva del mondo e della vita, ma non è più felice. Non può esserlo perché ogni esperienza di lettura genera dubbi e i dubbi non fanno la felicità. Il dubbio provoca inquietudini. Quell’allontanamento dalla realtà di cui si diceva può durare un tempo lungo o breve, ma poi alla realtà si torna, inevitabilmente e per fortuna, si smettono i panni reali e curiali e si indossa la solita veste piena di fango e di loto, come scrive Ser Niccolò  dall’Albergaccio di S. Andrea in Percussina, un villaggio sperduto a tre miglia di distanza da San Casciano in Val di Pesa. Alla realtà si torna con i dubbi, con tutte le domande che il libro che si sta leggendo, che si è appena finito di leggere, che si è letto un anno fa, dieci anni fa, ci ha scaraventato addosso, con quel macigno di domande senza neppure il frammento di una risposta, perché si sa che i libri veri, quelli che servono all’esistenza di ogni giorno, fiondano sempre domande senza risposta.

No, leggere non rende più felici, come non rende più felici il conoscere, in genere.

Però  viene da domandarsi se quel senso di benessere che può donare la lettura, al quale si sta dando impropriamente la definizione di felicità, non possa essere la conseguenza proprio dei dubbi che la lettura accende, proprio delle innumerevoli domande senza neanche una risposta, proprio delle inquietudini. Viene da domandarsi se si sta meglio con una astratta certezza o con una concreta incertezza, con un’illusione che qualcosa sia o vada in un certo modo o con una fondata ragione che non sia o non vada nel modo in cui si vorrebbe che andasse.

Allora bisogna scegliere tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra il dubbio autentico e la falsa certezza, fra l’inquietudine del sapere e il sopore  del non sapere. Bisogna scegliere, liberamente, accettando le conseguenze della scelta.

Se si sceglie la consapevolezza, l’inquietudine, il dubbio autentico, non si può fare a meno dei libri: dentro i libri si trovano tanto le figure della felicità con le quali illudersi un poco, anche  perché  le illusioni  fanno bene al cuore, quanto certi ammonimenti che fanno aprire gli occhi, come quei versi di Montale che dicono così: “Felicità raggiunta, si cammina/ per te sul fil di lana./ Agli occhi sei barlume che vacilla/ al piede, teso ghiaccio che s’incrina”.

Comunque, i risultati della ricerca sono per noi una ragione di felicità, se non altro per il fatto che ci consentono di dare ulteriore  motivo e senso ai tanti oggetti di carta che in casa ci stringono d’assedio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 19 novembre 2015]

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La guerra uccide anche la cultura

Una delle tante, probabilmente innumerevoli conseguenze di  ogni  genere di guerra, è la frantumazione, lo sfilacciamento delle storie. All’improvviso è come se nessuno avesse nulla più da raccontare, come se tutte le parole venissero risucchiate dall’angoscia. Si resta con gli occhi affondati nello schermo di un televisore a guardare le immagini nuove o quelle che si ripetono, e le storie sono tutte dentro quelle immagini, sono soltanto dentro quelle immagini che cancellano le altre, le sostituiscono.

Non c’è più niente di significativo da dire;  qualsiasi cosa che si pensa di dire si rivela immediatamente inutile, banale.

In questi giorni che la parola guerra si intromette nei nostri discorsi quotidiani, mi è tornato più volte alla mente l’Esame di coscienza di un letterato. Quando uscì sul numero del 30 aprile della “Voce” era il 1915. Il tenente di fanteria che l’aveva scritto, Renato Serra,  morì tre mesi dopo sul Monte Pogdora. Nelle prime righe Serra sosteneva che Giuseppe De Robertis aveva ragione a reclamare per sé e per tutti il diritto di fare letteratura, malgrado la guerra. La parola letteratura significa storie: in prosa, in versi, non importa.  Che si dovesse fare letteratura malgrado la guerra era giusto, probabilmente anche doveroso, allora. Poi dopo quella guerra ne è venuta un’altra, e poi altre ancora. Non saprei dire quante guerre ci sono state in cent’anni, in ogni parte del mondo. Troppe, comunque. Quali storie di  una guerra si possono raccontare, dunque. Certo, nella tragedia della guerra, questo può sembrare l’ultimo dei problemi, oppure non essere nemmeno un problema. Però l’assenza di storie comporta l’impossibilità della narrazione. L’assenza di storie è solitudine e silenzio, e quindi  paura che si aggiunge alla paura. Quali storie raccontare, come. Per esempio: subito dopo i fatti di Parigi ci si è detti che bisogna spiegare ai bambini quello che accade, perché accade. E’ giusto che si debba spiegare ai bambini. Ma come spiegare quello che accade e, soprattutto, perché accade.

Si sa che il pensiero dei bambini si sviluppa attraverso la narrazione e che la comprensione è determinata dalla carica metaforica delle storie. Ma la guerra atrofizza le storie. Allora ci limitiamo ad una sorta di informazione che non avendo metafora non genera comprensione oppure ci si abbandona al silenzio e si lascia che siano le immagini a significare. E’ vero che talune volte le immagini dicono più delle parole ma è a vero anche che i nessi tra le immagini si determinano attraverso la parola, la narrazione.

Devo confessare che sto avendo difficoltà a scrivere questo articolo; cambio continuamente le frasi, le parole; mi accorgo che non riesco a dire quello che vorrei e che in quello che dico ci sono contraddizioni. Ma forse è molto difficile oppure impossibile dire qualcosa che riguardi una guerra senza contraddizione. Probabilmente avrei bisogno di una storia, che non ho. Mi vengono soltanto storie già narrate. Soltanto letteratura. Anzi, storie che dicono di storie, letteratura che dice della letteratura. Come l’Esame di Renato Serra: metaletteratura. Serra sosteneva che la guerra non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura. Diceva che potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì.

Vorrei permettermi, umilmente, di non condividere del tutto. La guerra non provoca soltanto una interruzione, una pausa della letteratura, ma corrode quella passata, ammutolisce quella presente, perché se è vero che una guerra trasforma radicalmente le visioni del mondo e della vita, allora è anche vero che provoca un mutamento dei criteri e dei metodi di interpretazione della letteratura passata, svuota di senso quella presente imponendo la ricerca di un altro senso del fare letteratura.

D’altra parte, se una guerra cambia i processi di pensiero, non è possibile ritenere che la letteratura, in quanto sintesi e rappresentazione del pensiero,  possa restare  quello che è. Se accade, vuol dire che si tratta di artificio, di falsità, di forma insignificante.

So bene che non c’è neppure una parola scritta fino a questo punto che non si possa facilmente smentire anche solo attraverso facili esempi di storie pensate e raccontate dal fondo di una trincea o dall’inferno di un campo di sterminio. Ma vorrei tentare di giustificare quello che dico  con un riferimento al linguaggio delle immagini.

Nelle due guerre mondiali  le immagini sono state un elemento secondario e comunque non di massa. Poi, a cominciare dalla guerra del Golfo al principio degli anni  Novanta, le immagini sono diventate non solo un elemento di informazione e di documentazione, ma hanno assunto una valenza simbolica nell’immaginario collettivo.  Quindi, in qualche modo,  si sono trasformate in letteratura, imponendo alla letteratura tradizionale, quella scritta in prosa o in poesia, di cercare altre forme con cui esprimersi, altri simboli da proporre. Non è facile, per cui trovandosi compressa tra la condizione del silenzio al quale costringe ogni guerra e la presenza delle immagini che attraversano i media di massa e che informano, documentano e si caricano di valore simbolico, la parola della letteratura non sa più dire, non può più dire. Oppure può dire soltanto riproponendo storie già narrate, espressioni e simboli già definiti. Anche perché i simboli del disumano hanno sempre una drammatica attualità. Purtroppo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 1 dicembre 2015]

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Fare cultura rinunciando alla solitarietà

Non so se Renato Moro ricorda ancora il sogno che aveva Antonio Verri. Non lo so  e non glielo voglio neanche chiedere. Ma a quel sogno ho ripensato leggendo il suo editoriale di qualche giorno addietro che per titolo aveva “Produrre e proporre cultura senza dividersi”.

Ecco. Era proprio questo il sogno che aveva Antonio Verri.

Andavano, e andavano veloci, gli anni Ottanta. Verri cercava di dare concretezza al  sogno  inventando giornali e riviste con la collaborazione di pensieri di diversa tradizione e con diversa proiezione. Poi giornali e riviste chiudevano puntualmente, per la solita ragione della mancanza di soldini. Ma Antonio Verri aveva creato una rete di relazioni dalle quali poi sono maturate molte storie. Vorrei dirlo: molte delle storie che corrono oggi per questa terra, vengono da lì. Vorrei dirlo: molti fatti culturali che accadono oggi, qui, non ci sarebbero se Antonio Verri non avesse avuto il sogno.

Si verifica, da queste parti, una circostanza straordinaria che consiste nell’interazione e nell’integrazione tra la terra (preferisco questo termine con stratificazioni antropologiche a quello prevalentemente amministrativo di territorio) e la cultura. Si vive la cultura come una condizione di appartenenza. Esiste la circostanza di questa relazione, dunque, ma esiste anche una sorta di naturale inclinazione a voler fare da soli, forse non all’individualismo ma all’individualità. Potremmo dire: una predisposizione alla “solitarietà”.

Magari non c’è nulla di male. In fondo Bodini era un solitario, e lo era anche Pagano, anche Toma,  e anche molti altri lo sono stati, lo sono. Ma chi ha un sentimento per questa terra, e sono in tanti quelli che ce l’hanno, a quella “solitarietà” deve rinunciare, quale che sia il settore in cui agisce. Non si tratta di un fatto di politica culturale ma di etica culturale, oppure va bene di politica se la s’intende nella sua combinazione con l’etica. Abbiamo energie e risorse da imprestare – come in realtà facciamo da sempre –  ma non abbiamo un sistema strutturato che riesca a organizzarle. Mancano  i legami tra  i progetti, tra i soggetti, tra le azioni.  Per esempio, manca una relazione strutturale tra la cultura del territorio e gli enti locali.

A questo proposito, qualcuno  potrebbe senza dubbio mettersi  ad elencare opere benemerite di storia patria. Che le eccezioni ci sono lo sappiamo. Ma in quanto tali confermano la regola. In ogni caso le eccezioni sono poche e sono pure ampiamente riconosciute, per cui non hanno bisogno di nessuna autopromozione. Se il tale dovesse autopromuovere la propria eccezione, vorrebbe dire che non è riconosciuta e che quindi, quasi certamente, non esiste. Ma c’è una considerazione che, probabilmente, prevale su ogni altra: la funzione che assumono nelle dinamiche sociali e culturali le generazioni che arrivano. In una prospettiva di sviluppo, non si può trascurare la condizione fondamentale che è costituita dalla mutata formazione delle generazioni che di questi tempi praticano il lavoro culturale, la militanza, come si diceva nei tempi andati. I giovani mostrano una notevole capacità di aggregazione, di fare insieme. Quello di cui hanno bisogno è il punto di riferimento, indipendentemente dal fatto che sia istituzionale.

Allora bisogna avere la disponibilità pedagogica di dargli il riferimento e poi di lasciarli fare. Loro hanno idee fantastiche, hanno energie incredibili, hanno visioni nuove, hanno scritture nuove,  sanno annodare differenti forme culturali, hanno letto libri diversi, fanno un’altra musica, un altro teatro, un’altra pittura.

Dobbiamo affidarci a loro, fidarci di loro. A noi spetta il compito presuntuoso di dirgli dov’è che abbiamo sbagliato. Abbiamo sbagliato tutte le volte che ci siamo mossi in modo isolato, scoordinato, disorganico, asistematico, frammentario, estemporaneo. (Però è anche vero che ci piaceva così, ci sembrava bello così). Abbiamo sbagliato a sognare ciascuno per proprio conto, anche se il sogno molto spesso era lo stesso. Abbiamo sbagliato a non impastarlo per farne uno grande. Ancora adesso ognuno racconta il sogno che fa in qualche luogo di questa terra. Può anche andar bene così, in un certo senso, ma a condizione che non ce ne sia nemmeno uno che possa oscurare l’altro, che due sogni non si ritrovino in conflitto tra loro.

La cultura di questa terra è l’esito di diversità che si sono integrate mantenendo le loro connotazioni. Ora, in questo secolo nuovo, in questo nuovo millennio,  il Salento ha il bisogno, l’urgenza di un  progetto culturale capace di sintetizzare in  un discorso coerente e coeso la pluralità di espressioni. Non un unico discorso, certo – non sia mai-  ma molti discorsi che non abbiano interferenze.

Al sogno che aveva Antonio Verri, qualcuno ci crede  ancora. Semplicemente perché  crede in questa terra. Semplicemente perché vuole crederci ancora di più.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 13 dicembre 2015]

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Lo sguardo del Bambino su questo mondo

C’è un Bambino che nasce e guarda il mondo. Gli occhi si riempiono di luce, le forme si compongono lentamente o all’improvviso, i volti di chi gli sta intorno si aprono nel sorriso, le voci lo richiamano. Una stella grande mette in fuga il buio. In quello stesso istante c’è un bambino che muore. Una tenebra  paurosa lo sommerge, e non vede più volti e non sente più voci, e non c’è chiarore di stella da portare in paradiso. Solo l’inferno del mare.  Gli ultimi dieci bambini sono morti nel naufragio di un barcone al largo delle coste occidentali turche mentre andavano verso l’isola greca di Kalymnos. Forse ce ne sono altri di cui non abbiamo notizia. Ce ne saranno ancora. Allora il Bambino che nasce e guarda il mondo non può essere felice.  Il Bambino che nasce e guarda il mondo del mondo sa già tutto, conosce anche i numeri delle statistiche.

I numeri delle statistiche dicono che dall’inizio di quest’anno sono più di 700 i bambini che hanno perso la vita nel Mediterraneo. Poi dicono di quelli che in ogni parte del mondo muoiono di fame, polmonite, diarrea, morbillo, malaria.   Non può essere felice il Bambino che nasce e guarda il mondo. Vorrebbe che gli uomini di buona volontà trovassero un modo per fare del Natale solo una festa della vita, per restituire a questa ricorrenza il suo senso originario.

Natale è la metafora della speranza. La speranza è la condizione indispensabile per un pensiero di futuro. Ai bambini è affidata la speranza del futuro. Allora bisogna salvare i bambini da ogni possibile morte. Le grandi civiltà hanno sempre fatto questo, hanno creato sistemi di protezione dei bambini. Noi che ci consideriamo e che per molti aspetti siamo una grande civiltà non possiamo permetterci di ignorare la minaccia prevedibile. Noi che diciamo di volere un mondo migliore non possiamo permetterci di perdere nemmeno uno di quelli che hanno la possibilità di realizzarlo. Perché soltanto i bambini possono farlo. Gli altri – tutti gli altri- possono soltanto pensarlo, forse anche progettarlo, ma la costruzione spetta a loro.

Benché sappia già tutto del mondo, il Bambino che nasce inorridisce vedendo che altri bambini muoiono perché il mondo non riesce a farli vivere. Non è così che può continuare a girare il mondo, pensa il Bambino.   Certo,  ci sono anche gli adulti che muoiono per le stesse cause dei bambini ma, come dice  Ivan   nei Fratelli Karamàzov, il caso dei bambini rende tutto più evidente, consente di tacere su tutte le altre lacrime dell’umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro.

Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, dice Ivan, che c’entrano  i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l’armonia con le sofferenze. Perché anch’essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l’armonia futura di qualcun altro? Se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora  una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco.

Se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Questo dice Dostoevskij.

Non si può che cominciare dai bambini, dunque: dalla salvezza dei bambini. Dalla loro salvezza dipende quella di tutti. Dal loro futuro il futuro di tutti. Dalle loro storie le storie che ciascuno potrà raccontare. Al loro tempo è assoggettato il nostro tempo. Al loro destino il nostro destino. Se questa civiltà, se questa umanità non riuscirà a salvare i bambini, non riuscirà nemmeno a giustificare la propria fine.

Se da questo Natale al prossimo Natale il mondo riuscisse a salvare i bambini  che cercano un futuro sfidando il mare, se riuscisse a salvare tutti i bambini di ogni parte della terra, allora quel Bambino che rinasce ogni volta a Natale, davvero sarebbe felice. Se il mondo riuscisse a distinguere le cose essenziali da quelle che non lo sono, ad attribuire ad esse il giusto valore, se riuscisse a comprendere qual è il senso profondo delle storie che lo attraversano, a stabilire che cosa viene prima e che cosa viene dopo nella vita di ciascuno, se il mondo riuscisse a dare concretezza al sentimento della speranza, a trasformare le parole in gesti di salvezza, allora il Bambino che nasce davvero sarebbe felice. Se tutto questo accadesse, potremmo dirci senza nessuna velatura di tristezza: buon Natale, buon Natale.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 24 dicembre 2015]

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