Su L’Oratorio della Peste di Raffaele Gorgoni

            Questi due avvenimenti sono legati quindi dalla figura del vescovo, sicuramente uno dei più importanti nella storia della città, ma anche da un luogo particolare nell’invenzione narrativa di Gorgoni, e cioè dall’Oratorio che dà il titolo al romanzo, dove appunto essi si svolgono. Di che si tratta? Ecco, questo termine che compare anche nel Prologo del libro ha un duplice significato e serve a spiegare un po’ tutta la struttura del romanzo, è un po’ la chiave del libro insomma. Innanzitutto è, come ho accennato prima, un edificio, posto al centro della città, tra la Porta di Rudiae e la cattedrale, anzi all’interno di una vera e propria insula, l’Isola di San Crisostomo. In origine ― spiega l’autore ― questo edificio era una chiesetta di rito greco, ormai abbandonata dalla morte dell’igumeno Basilio, e che ormai si poteva raggiungere soltanto  dai palazzi circostanti abitati da famiglie aristocratiche legate tutte da stretti rapporti, se non di parentela, d’amicizia. Quindi un luogo praticamente inaccessibile se non da pochissimi. Proprio lì avevano preso l’abitudine di riunirsi alcuni nobili e civili della città “quando avevano voglia di parlare lontano dalle orecchie delle mogli, dei figli e soprattutto dei servi. Piano piano il giro si era allargato e si erano pure stabilite delle date fisse. Era stato il marchese Del Prato a inventarsele per certe sue cabale: nelle notti degli equinozi e dei solstizi e pure aveva voluto vincolare tutti al giuramento del segreto. Dall’Oratorio niente doveva uscire, pure se erano chiacchiere innocenti ma soprattutto mugugni” (p. 96). Lì improvvisamente la sera del 21 giugno 1647, durante una riunione dunque, fa irruzione monsignor Pappacoda per mettere al corrente i notabili della città del suo piano per reprimere la rivolta antispagnola. E proprio la sera del solstizio d’estate del 1656, lo stesso Pappacoda stavolta convoca una riunione presso l’Oratorio per annunciare l’intenzione di proclamare Sant’Oronzo patrono della città di Lecce. Questo quindi è un primo significato del termine oratorio che allude già a qualcosa di misterioso, di segreto appunto, per non dire di esoterico.

            Ma c’è un altro significato che emerge, come ho già detto, dal Prologo e che fa riferimento invece alla struttura del romanzo. Qui Gorgoni, ricorrendo a un espediente narrativo ben noto, scrive appunto che nella cripta dell’Oratorio, “ben protetta nella sacca di una sella di fattura inglese ma di cuoio spagnolo, ha dormito per tre secoli e mezzo uno scartafaccio. Parrebbe ― continua ― una sorta di cronaca se un singolare andamento dello scritto non alludesse più a qualcosa da ascoltare sulle piazze e nei teatri. Voci che si rincorrono in forma d’oratorio con parole tutte vergate da una stessa mano che si direbbe femminile” (p. 14). Romanzo quindi “in forma d’oratorio”. Che significa? Questa espressione, com’è noto, allude alla rappresentazione di una composizione musicale, spesso di argomento sacro, senza allestimento scenico, con le sole voci e i cori. E il romanzo di Gorgoni infatti è articolato proprio come una composizione musicale “in forma d’oratorio”. Infatti è diviso in tre “atti” preceduti da un prologo e gli atti, a loro volta, sono suddivisi in vari “quadri”, dove sono narrate le vicende di singoli personaggi, con un “corale” alla fine del primo e ben cinque “corali” nel terzo atto, dove invece prevalgono le vicende “corali” appunto, collettive.

            Ecco, bisogna sottolineare anche questa  articolazione interna del romanzo, questa sapiente costruzione dove tout se tien dall’inizio alla fine, anche se non si segue, come vedremo, un ordine piattamente cronologico, perché la fabula non coincide con l’intreccio, cioè la successione cronologica degli avvenimenti narrati non coincide col modo in cui l’autore li narra. Infatti si parte già dalla preparazione della festa, nell’agosto del 1656, per la proclamazione del patrono nel palazzo di don Lorenzo duca di Carliano, mentre il secondo atto, ad esempio, è tutto un lungo flash back, che rievoca invece gli avvenimenti del 1647 attraverso il viaggio a Münster del protagonista Diego, ma questo espediente narratologico  risponde a una precisa strategia dell’autore, in quanto permette al lettore di avere un’idea più chiara del senso complessivo delle vicende narrate.

            Ma ora vediamo chi sono i protagonisti del libro. Uno l’ho già nominato ed è il vescovo Luigi Pappacoda, una figura storica quindi realmente esistita, come realmente esistiti sono altri personaggi del libro, che fanno parte della storia di Lecce: ad esempio, il canonico Giovanni Camillo Palma, segretario e stretto collaboratore del vescovo,  e il sacerdote calabrese Domenico (o Antonio nella realtà) Aschinia, una figura a metà strada tra un mistico e un  ciarlatano, che per primo, quasi sicuramente sollecitato da Pappacoda, gridò al miracolo quando Lecce fu salva dalla peste. Ma anche personaggi di rilievo della storia nazionale  entrano a far parte di queste vicende. In primo luogo il cardinale Fabio Chigi, vescovo non residente di Nardò, che è il nunzio apostolico a Münster per la firma della pace in seguito alla guerra dei Trent’anni e che diventa successivamente papa con il nome di Alessandro VII. E ancora figure di primo piano della filosofia, dell’arte, dell’architettura del tempo,  da Baruch Spinoza a Borromini a Juan Caramuel, tanto per citarne qualcuno. Sullo sfondo poi emergono tanti altri nomi illustri della cultura artistica, letteraria, musicale, scientifica del Seicento, da Velásquez a Rembrandt, da Caravaggio a Guido Reni, da Góngora a Monteverdi, da Bernini a Pascal a Montaigne a Galileo a Torricelli. A questo punto è lecito chiedersi: che c’entrano tutti questi nomi con le vicende in fondo trascurabili di una cittadina  sperduta alla periferia del Reame? Ecco (e qui anticipo un’osservazione che farò più avanti), a me sembra che stia proprio qui la maggiore novità del libro di Gorgoni  che peraltro rievoca vicende  ampiamente note e studiate dagli storici.

            Ma andiamo con ordine e arriveremo a questo punto centrale del libro. Accanto alla presenza di figure realmente esistite, nel romanzo di Gorgoni vi sono anche, ovviamente, dei personaggi inventati (nobili della città, come don Lorenzo, don Ottavio, figure femminili come donna Maruzza, donna Amelia, moglie e figlia di don Lorenzo, Angelina, amante di don Ottavio, e così via) ma il principale tra questi, il protagonista in fondo del romanzo, considerando Pappacoda il deuteragonista, è Diego o, per essere più precisi, Don Diego Ramirez de Vargas, che permette a Gorgoni di stabilire questo collegamento, a prima vista inaspettato, tra microstoria locale e grande storia europea. Ma chi è Diego? La figura e la storia di Diego sono l’invenzione più originale del romanzo e forse vogliono avere un  significato simbolico. Si segua la vicenda di questo personaggio. Diego è figlio di un nobile spagnolo, Don Luis, e di una donna ebrea, morta dandolo alla luce. Il bambino viene allevato da una donna misteriosa, un tempo bellissima, che veniva forse dalla Cina, comprata giovanissima dallo stesso Don Luis, morto anch’egli quando Diego appena camminava. Questa donna che nel romanzo, ormai vecchia, è chiamata la Madre, vive insieme con altre tre più giovani, anch’esse straniere, adottate sempre da Don Luis, Fatma, Joanna e Mercedes, e abita nel cosiddetto Giardino Ramirez all’interno sempre dell’isola di San Crisostomo, quindi a due passi dall’Oratorio. Ho parlato di un valore simbolico di questo personaggio perché Diego forse rappresenta proprio questa terra, il Salento, dove il sangue dei vari popoli che l’hanno invasa e abitata si è sempre mescolato. Infatti è significativo un brano in cui la Madre risponde a Diego che si lamenta dell’incertezza del suo sangue: “Ancora con questa storia, Diego? Si è quel che si è. Sempre. Anche se si è il frutto di un seme castigliano che ha fecondato un ventre giudeo. Ancora con le sciocchezze sulla limpieza de sangre? Qui non siamo né a Toledo né a Madrid e neppure a Napoli. Qui il sangue non ha colore e anche quelli che si illudono di averlo del colore giusto avranno sempre un’ava ingravidata da un saraceno o da un rabbino” (p. 31).

            Proprio a Diego dunque Pappacoda, che l’ha preso nella sua protezione, affida una lettera da portare direttamente al cardinale Chigi a Münster per informarlo della rivolta antispagnola a Lecce domata dal vescovo. Siamo quindi nel luglio del 1647 quando Diego parte, ma la sua permanenza  a Münster come pure ad Amsterdam e in altre città italiane (Bologna, Milano, Venezia, durante il viaggio d’andata e Roma, durante quello di ritorno) si protrae per quasi dieci anni, l’arco di tempo, come abbiamo detto, in cui si svolgono le vicende narrate nel romanzo. Perché Diego ritorna a Lecce soltanto nella primavera del 1656 richiamato sempre da Pappacoda per partecipare alla riunione dell’Oratorio da lui convocata per informare i notabili della città della sua intenzione  di proclamare patrono Sant’Oronzo.

            In questi dieci anni vissuti all’estero Diego entra in contatto con ambienti artistici raffinati, conosce numerosi personaggi (pittori, cardinali, uomini politici, filosofi come Spinoza), e città  come Münster, Amsterdam; durante il viaggio di ritorno si ferma a Roma presso il cardinale Chigi che nel frattempo è diventato papa col nome di Alessandro VII e sta cambiando il volto della città servendosi di grandi architetti e artisti come Borromini, Bernini e Caramuel. Ma soprattutto riflette, da lontano, sulla sua città e, in particolare, sull’operato di Pappacoda nel 1647 che viene approvato anche dal cardinale Chigi. Qual era stato infatti il senso dell’intervento diretto del vescovo per fermare la rivolta antispagnola? Quello di evitare una ben più grave e cruenta repressione degli stessi spagnoli, i quali probabilmente erano stati gli stessi ispiratori di essa per mettere a ferro e fuoco la città e fare arrivare un segnale forte a Napoli. Insomma già da questo primo atto emerge la strategia di Pappacoda, che è quella di sottrarre Lecce e Terra d’Otranto alla sempre maggiore influenza e ingerenza straniera (spagnola ma anche francese) approfittando della particolare collocazione geografica della città e puntando sulla sua separatezza, sulla sua alterità per ritagliarsi uno spazio di libertà, di autonomia.

            Questa linea è ancora più evidente nell’altro avvenimento che è al centro della narrazione: il palladio di sant’Oronzo nel 1656.  È noto, come ci ricorda Gorgoni nel Prologo, che la peste che infuriava in tutta Europa e con particolare violenza nel Regno di Napoli, nella tarda primavera del 1656 si estinse proprio sul confine di Terra d’Otranto. A Lecce, in quel periodo, era in corso una vera e propria battaglia tra la Curia e i numerosi ordini religiosi, in particolare Gesuiti e Teatini, che non era solo una battaglia di idee in campo religioso ma di potere vero e proprio. E uno dei mezzi di cui entrambi gli schieramenti si servivano per combattere questa battaglia erano proprio i santi protettori. In quei decenni, come hanno ricostruito gli storici, si avvicendavano i patroni a Lecce a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro ordine religioso, da Sant’Irene a San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola a tanti altri e addirittura si giunse a proclamare patrono il gesuita padre Bernardino Realino ancora vivente. E anche la peste, l’imminenza della peste era vista da alcuni come possibilità di aumentare il proprio potere (“il buon uso della peste”).

            È significativa, nel romanzo, la figura di un gesuita, padre Leone Ranieri d’Arena, raffigurato come una sorta di rigido fondamentalista, timoroso delle novità in campo filosofico, scientifico,  il quale già pensava di “trarre il maggior profitto possibile da quell’evento luttuoso per rafforzare il prestigio e l’influenza della Compagnia tra il popolo, ma soprattutto cogliere, nel dilagare del terrore, l’occasione per ottenere l’istituzione di quello Strumento [cioè  del Tribunale dell’Inquisizione della Corona]. L’unico Strumento che può redimere, curare, prevenire” (p. 35). E quando si rende conto che non può contare più sulla peste per realizzare questo programma, pensa addirittura, sia pure per un istante, all’ipotesi di propagare il contagio pur di ottenere il suo scopo, di ripristinare l’ordine, “le assolute certezze della fede ad maiorem Dei gloriam” (p. 63).

            È  a questo punto che  Pappacoda interviene per mettere in atto la sua strategia e riaffermare definitivamente la primazia, il primato della Curia sugli ordini e al tempo stesso per dare un maggiore margine di autonomia alla città. E qui vorrei citare un brano nel quale il vescovo espone il suo disegno, il suo piano:

Amici miei, la peste ci avrebbe portato via la vita e fin qui stiamo parlando di poca cosa, ma per la sorte di questa diocesi e di questa città, della Terra d’Otranto il peggio forse sarebbe venuto dopo, quando tutti travolti dalla catastrofe saremmo finiti nelle mani di chi vede questa terra come las Indias por acá e tutti noi come poveri deboli miscredenti da redimere con la parola e con la corda e, se non fosse sufficiente, con il ferro e il fuoco. Il disegno di padre Leone, di padre Manieri e tanti altri partiva da qui, da questa terra remota per risalire fino al cuore di Santa Romana Chiesa che, come vi è ben noto, attraversa un momento di grande debolezza. Mazzarino, Luigi XIV e Filippo IV sono divisi su tutto meno che sull’avversione al nostro pontefice. Non è bastato mettere il nostro amico, allora eminentissimo cardinale Fabio Chigi, nelle condizioni di non poter sottoscrivere il trattato di pace. Non è bastato a Mazzarino tramare perché egli non potesse accedere al soglio di Pietro. Anzi, ora che il nostro amico è diventato papa, Mazzarino cova la vendetta e così il suo arrogante sovrano e persino la Spagna guarda a Sua Santità con diffidenza e disprezzo (p. 86).

Non a caso gli storici parlano di un passaggio, in questi anni, dalla Lecce alia Neapolis, e quindi in un certo senso sempre dipendente dalla capitale del Regno, alla Lecce “città-chiesa”, cioè più indipendente e quasi chiusa in se stessa con una sua specifica, peculiare fisionomia. Con tutto ciò che comporta sul piano urbanistico e architettonico, e quindi con la nuova immagine, la nuova “forma”  della città barocca come rappresentazione del potere religioso ritornato ormai saldamente nelle mani del vescovo che fa completare la cattedrale e il vescovado.

            Questo, s’è detto, è l’avvenimento centrale del romanzo a cui sono dedicati l’atto primo, con la descrizione delle vicende che precedono la convocazione dell’Oratorio e l’ideazione, se così si può dire, del “miracolo”, e l’atto terzo, con la descrizione della riunione, della processione e poi della festa nel palazzo di don Lorenzo. Dal lato stilistico e linguistico, vorrei far notare l’accurata ricerca lessicale (in particolare nei campi della moda, delle armi, della gastronomia), la presenza di svariati termini ed espressioni dialettali, a volte anche nei dialoghi (p. 56), che svolgono una funzione di coloritura quasi della prosa. Cito solo qualcuno di questi termini presenti nelle prime pagine del romanzo: fiato, chianche, secare, boccacci, vastasi, celone, limmi, zenzali, mazzari, mappine, sargenischi, cupete, sìccita, massari, ucale, caruso, scarassate, ecc. Ma in qualche occasione anche l’italiano è ricalcato sul dialetto, come in questo caso: “Mo’ si devono stare, pensò. Si devono stare che non si può, per tutta la vita, pensare al Francia o Spagna purché si magna. Mo’ forse c’è il caso che cominciamo a pensare un poco di capa nostra che il Louvre e l’Escorial sono lontani, troppo lontani”(p. 192).

            Ma, come ho già detto, la novità maggiore del romanzo di Gorgoni sta nella collocazione di una vicenda in fondo limitata come la proclamazione del patrono di Lecce in uno  scenario  storico, politico, filosofico, artistico, di ampio respiro europeo. Non a caso fin dal Prologo l’autore, rivelando quasi la sua vena di cronista, accenna alla situazione europea nel 1656, di grave instabilità politica, nonostante la pace di Vestfalia (1648) con cui terminava la Guerra del Trent’anni, ma anche a certe pubblicazioni di carattere teologico, filosofico, politico che escono in quell’anno, nonché a due capolavori della pittura mondiale, Las meninas di Velásquez e Lezione di anatomia del dottor Deyman di Rembrandt e a un avvenimento, la cacciata di Spinoza dal ghetto ebreo di Amsterdam. Questi nomi poi ritornano nel corso del romanzo e Spinoza diventa addirittura un personaggio del libro. Che sta a significare tutto questo? Forse che le vicende locali narrate nel libro, per essere pienamente comprese, devono essere inserite in questo più ampio contesto europeo, e riportate a un periodo in cui si assiste a  radicali cambiamenti che mettono in crisi conoscenze acquisite in campo scientifico e culturale, e in cui si va affermando lentamente ma inesorabilmente, pur tra tante contraddizioni, una nuova visione del mondo, una nuova libertà di pensiero e di ricerca (e i nomi di Galilei, Torricelli, Pascal e altri non sono fatti a caso). E tutto ciò, così almeno mi sembra di capire, emerge già, a ben vedere – secondo Gorgoni – sia nei capolavori di Velásquez e Rembrandt che ho citato prima, sia nel pensiero filosofico di Spinoza, sia nel barocco leccese.

E a questo proposito, posso solo accennare alla ricchezza  di spunti, di osservazioni sul barocco leccese che sono sparse nel libro, nelle quali mi sembra anche di notare una certa influenza del maggiore scrittore salentino del Novecento, Vittorio Bodini, del quale Gorgoni ha sicuramente presente quella bellissima prosa che è Barocco del Sud e in particolare il concetto di horror vacui nonché nel motivo della contrapposizione luce-ombra che caratterizza questo stile architettonico, che per lui è una vera e propria categoria dello spirito. E c’è una “spia” precisa che l’autore ha inserito a un certo punto quasi a voler mettere in evidenza questo rapporto o almeno che mi sembra di aver colto. A un certo punto infatti, per definire questa sfrenata fantasia del barocco leccese, parla di “carnevale di pietra” (p. 182), che è un sintagma, un’immagine presente nella famosa poesia di Bodini dedicata a Lecce, tratta dalla Luna dei Borboni: “e come per scommessa / un carnevale di pietra / simula in mille guise l’infinito”.

            E, come ha fatto Bodini con le sue poesie e le sue prose, anche Raffaele Gorgoni in fondo, col suo avvincente e pienamente riuscito romanzo, attraverso la riflessione, sia pure da un’altra angolazione, sul barocco, ha offerto un contributo importante per la definizione dello spirito nascosto della città di Lecce, per la individuazione appunto del suo “segreto” .

[In A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]

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