Saturae XIV

***

Subductisupercilicarptores

Vai, libretto, perché a me manca proprio il cuore,

vola a Casarano, in centro, Via del Baluardo,

recati, ti prego, a casa di un vecchio professore;

ah gli esami… quanto ha ragione Eduardo.

Se risponde, e non è troppo male in arnese,

fatti leggere da quel Momo maldicente,

e alle sue rimostranze, prendi le mie difese,

è, fra tanti, il critico più severo ed esigente.

Se a leticare con gli altri condomini lo troverai,

e, prevenuto e seccato, vedendoti, arcigno,

al solito, aggrotterà le sopracciglia, tu ristai,

perché quel tipo stronca con diabolico ghigno.

A suo tempo, non visto, so già che leggerà;

ora ti cestina, piccato, ma quando cambia la luna,

dal pattume, incuriosito, vedrai, ti riprenderà,

cercando la rima traballante, l’aferesi inopportuna.

Se inveirà, concionando, contro “certa robaccia”,

dicendola più funesta di una peste mordace,

tu non sottrarti, libriccino, a quella figuraccia,

perché la sua collera è sempre alquanto fugace.

Se si scaglierà contro i versi, come un Matamor,

biasimandoli, perché più amari di un pessimo vino,

per tutta risposta, citagli il subductisupercilicarptor:

proprio quella, la parola più lunga esistente in latino.

Maldicenti

In versi alternati, il Satirico invita il suo libro di maldicenze a sottoporsi all’esame di un severo professore, un Momo maldicente anche lui. Non solo: ci fornisce il suo indirizzo, quasi a volerci iniziare ad un’indagine finalizzata a scoprirne l’identità. Ma il commentatore di questo testo, molto pigro di natura quanto poco curioso, non si cura di ciò e lascia ad altri l’onere di verificare l’intestatario dell’indirizzo. Gli interessa capire che cosa combina il Satirico in questi versi, nei quali rappresenta bene le insofferenze del critico severo, un po’ umorale, ma tutore ad oltranza della tradizione, e il proprio desiderio che i versi siano letti dal censore. Il Satirico difatti nutre evidentemente una grande fiducia nelle sue maldicenze. Al professore-Matamor (ricordiamo che Matamor, figura proveniente dalla Commedia dell’arte, è il soldato fanfarone, letteralmente “uccisore di mori” dallo spagnolo, lo sbruffone che millanta imprese che non ha mai compiuto), ritratto come uso a litigare coi condomini, quando non aggrotta le sopracciglia prima di cestinare versi non graditi, il presente libriccino contrapporrà solo una parola latina, ma lunghissima, attribuita al poeta Levio (inizio I sec. a. C.): subductisupercilicarptor, ovvero gli dirà: “Tu sei un denigratore con le sopracciglia aggrottate, un ultracensore”. Insomma, tra i due maldicenti, giudichi il lettore a chi assegnare la palma della vittoria!

***

Callimaco

Arrivato a questo punto, un grande romanzo dovrei scrivere,

per dare alla mia carriera e al mio nome quell’eterno vivere,

che è dei grandi poeti e dei maestri, a me di tanto maggiori,

quelli che sanno davvero tirare fuori anco dalla melma i fiori;

e allora ad inventar storie, mi metto con tutto l’impegno

ma non riesco mai, chissà perché, ad aguzzare l’ingegno,

infatti, quand’ecco sento che l’ispirazione sta per arrivare,

accade qualcosa, suona il telefonino e io devo andare.

Un bel romanzo blu dovrei inventare, come vuole l’editore,

 ma non ho costanza, non ho applicazione, sono senza valore.

Vorrei dire, come Callimaco, contro gli invidiosi cantori Telchini:

“smettetela di ingiuriare chi a voi è superiore, stupidi tacchini!”

Ma è difficile inventare una storia, soprattutto una originale,

nella modernità assassina e caotica del villaggio globale.

Mi piacerebbe, come Callimaco, intimare a tutti di non parlare

ma purtroppo, senza talento, finirei solo per copiare e incollare.

Penso allora che nella musica leggera la mia strada potrei trovare,

anche se è l’ozio creativo che adesso mi fa farneticare.

Forse nella musica colta ed elevata è più facile pareggiare i conti, 

ma anche in questo campo, già so, dovrò temere i confronti. 

E allora che fare, dimmi poeta, per trovare la mia vocazione vera,

senza che i critici malevoli possano stroncarmi la carriera?

Qualcosa mi suggerisce di mettermi a suonare la zampogna, 

così dai maggiori non potrò temere nessuna rampogna, 

uno strumento, forse un po’ natalizio, ma certo particolare,

che sfido chiunque, adesso, per Euterpe, a saper suonare;

e allora sì, mi farò strada fra i pastori, lemme lemme,

fino ad arrivare seguendo la stella alla grotta di Betlemme,

e nel presepe, fra l’acquaiolo e il ciabattino, troverò nel finale

il mio posto, accanto al mago guardastelle, fra i pupi del Natale.

Pupo

In versi baciati, il Satirico quando ha finito di dir male di mezzo mondo, com’è suo costume, mette a nudo il suo cuore e fa la satira di sé stesso. Il suo candore è disarmante: sogna una carriera di poeta che gli dia la gloria, vorrebbe imitare i sommi tra i poeti, ma basta una telefonata a distrarlo, pensa che abbia ragione il suo editore a suggerirgli di scrivere un romanzo blu, ma pensa anche di non esserne capace. Oh, se il Satirico fosse Callimaco, in grado con poche parole di zittire i Telchini, i suoi invidiosi detrattori (Aitia, I), ma non lo è. Potrebbe darsi alla musica, leggera o colta non fa differenza, ma teme di non essere all’altezza dei migliori. Che fare, allora, dopo aver parlato male di tante persone, per sfuggire ai critici malevoli? La satira si ritorce contro il Satirico e lui ne prende atto: suonerà la zampogna, sicuro di non aver rivali, d’essere il primo tra i rozzi pastori. Così, diventerà un pupo da presepe natalizio e farà la sua bella figura, tra gli altri pupi, davanti alla grotta di Betlemme. Finis.

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