Profilo di Rocco  Scotellaro (Parte prima): Gli scritti giovanili – Le raccolte poetiche

2. Gli scritti giovanili:  Uno si distrae al bivio  e i tentativi teatrali.

Uno si distrae al bivio rappresenta, senza dubbio, la prova più significativa del periodo giovanile di Scotellaro. Questo racconto lungo, che è stato pubblicato soltanto nel 1974, risale agli anni 1942-’43, allorché “farsi una vita” incominciava a diventare la preoccupazione principale dell’aspirante scrittore, che aveva appena terminato il corso di studi liceali a Trento. Quel periodo, che era stato funestato dalla morte del padre, coincideva con un momento di crisi profonda per lui, attratto da molteplici possibilità, ma indeciso ancora sulla scelta definitiva da compiere:

Numerose strade mi chiamano. Io resto al bivio ostinato a non mettermi per nessuna di quelle strade, se il ciclo della mia gioventù prima non si conclude e non resta documentato,  glorificato[1].

Da qui la necessità di ripensare al proprio recente passato, liberandosi, attraverso il racconto, da certi fantasmi che lo perseguitavano, in modo da poter affrontare il futuro con maggiore forza e consapevolezza. Ci troviamo di fronte, dunque, a un racconto di tipo autobiografico, in cui  però le vicende appena trascorse dall’autore non sono narrate in maniera realistica, ma facendo ricorso a simboli e archetipi, il primo dei quali è appunto il bivio, “simbolo fondamentale dell’adolescenza”[2]. Questa precisa volontà viene espressa, all’inizio, anche sotto forma di dichiarazione di poetica, allorché si sostiene che in un romanzo “non c’entrano trame e personaggi e ambienti e costumi”, perché “la commozione è un fluido” e “basta che scorra tra noi e le cose”[3].

            L’intenzione simbolica si rivela già nel prologo, in cui l’io narrante si sdoppia in quella sorta di alter ego  che è il personaggio di Giorgi Ramorra, il quale “vuole un romanzo tutto per sé”[4]. Questo fatto si riflette sulla struttura narrativa del racconto, che non si sviluppa lungo un asse causale-temporale, ma procede “a sbalzi e ritorni, come per continue divagazioni”[5], secondo il  modello della narrativa vittoriniana. A mettere in crisi la struttura tradizionale della narrazione concorrono anche gli altri elementi simbolici presenti nelle prime pagine: il fiume, l’osso di cavallo, la giubba, l’uomo a cavallo, il vecchio. E tutta la prima parte consiste nel ripercorrere alcuni momenti del viaggio di ritorno di Ramorra a casa dal collegio, dopo la fine dell’ultimo anno di liceo, alternando il ricordo al sogno e alla riflessione.

            Centrale diventa la figura del padre, che dal giorno della sua morte sembra essere ancora più presente nella vita del protagonista. La figura dell’ “uomo coricato per terra”[6] ritorna insistentemente  nei suoi sogni fino a dar vita a una sequenza surreale, di vago sapore chagalliano, con il padre e il figlio che volano alti sul paese:

Come a teatro così nel sonno le cose procedono per scherzo e per finzione e fu così che per la strada maestra del paese, volando insieme il padre e Ramorra, si affacciavano le donne scapigliate e si lasciavano andare a terra i loro pupi in fasce e correvano in casa e sbarravano porte e finestre. Ramorra e babbo volavano e tutto era curioso e inspiegabile. Un calzolaio salutò suo padre che scese. Ramorra pure scese, parlarono[7].

            Più tradizionale, dal lato narrativo, è la seconda parte, dedicata alla storia “degli amorucci,  incominciati bene e finiti male”[8], cioè agli effimeri rapporti con le donne vissuti in città, dove “le conoscenze duravano quanto le interviste, brevi e compendiose”[9]. E qui balza già in primo piano un motivo ricorrente nell’opera scotellariana, quello della città forestiera, che diventa sinonimo di vita inautentica, di solitudine, perché nella città “nessuno ti conosce”[10]  e gli uomini “non si abbracciavano come fratelli e non si dicevano parolacce per affetto”[11]. Questa condizione si ripercuote pure sui rapporti con le donne, tutti superficiali e di breve durata, che lasciano nel protagonista insoddisfazione e sensi di colpa.

            Nella terza parte lo sguardo è rivolto al futuro, ma a prevalere è ancora un senso di incertezza, di coscienza del tempo che scorre senza riuscire a far niente (“Un giorno perduto, annotava quotidianamente Ramorra”[12]). Ramorra “non sapeva che volere”, “voleva l’impossibile”, “s’era messo in testa di vedere il suo nome o gridato come quello d’un calciatore o scritto grande sui libri”[13]. Il protagonista vive ora un intimo dissidio tra essere e voler essere. L’imperativo morale è rappresentato dal ricordo della figura del padre che lo stimolava a impegnarsi e a diventare qualcuno:

Fatti quello che vuoi: avvocato, medico, prete, ma un uomo con i fiocchi. Io per me non vorrò niente. Sulla lapide una bella espressione, o se farai l’avvocato, vorrò venire a sentirti[14].

Ramorra, invece, che “al cieco avvenire preferisce la piacevole rotta dei giorni”[15], è portato  a dissipare la sua vita nel gioco con gli amici e nell’ozio, al punto che incomincia a pensare al suicidio e si salva dalla morte proprio “con il ricordo eterno di una parte di se stesso già sprecata”[16], cioè raccontando e rimuovendo, in tal modo, angosce e ossessioni.

            Nell’epilogo, Ramorra o, per meglio dire, l’immagine di Ramorra, come era comparso all’improvviso, così scompare, nello stesso istante in cui lo specchio va in frantumi. Ciò è un sintomo, forse, della ricomposizione di questo dissidio interiore, che costituisce anche però, come s’è visto, un espediente  per evitare un tipo di narrazione realistica, in prima persona.

            La produzione giovanile di Scotellaro comprende anche tre drammi, rimasti a lungo inediti e pubblicati soltanto nel 1984 nel volume intitolato, dal primo di essi, Giovani soli. Contemporanei, o di poco precedenti, a Uno si distrae al bivio, anche questi tentativi teatrali riflettono lo stato di inquietudine esistenziale, di smarrimento, di incertezza del futuro, attraversato dallo scrittore in quegli anni. Non a caso in essi si ritrovano diversi motivi in comune con quel racconto. Soprattutto in Giovani soli, attraverso i dialoghi dei protagonisti (alcuni studenti che alloggiano in una pensione),  emergono i problemi che tormentavano Scotellaro in quel periodo: il rimpianto per “i giorni completamente perduti”[17] (il “vedersi scorrere la vita senza possibilità d’aggrapparvisi”[18]); un malessere indefinito (“la malinconia […] una tristezza sospesa”[19], dovute a una “crisi di giovinezza”[20]); un senso di solitudine (“Sentirsi soli è come essere a faccia a faccia con la morte”[21]); il bisogno d’amore (“Il vero è che l’amore è la nostra stessa esistenza”[22]; “Io credo che solo amando ed essendo amati ci si sente meno tristi, più disposti ad affrontare i sacrifici della vita”[23]); il problema religioso (“Dio è l’ultimo punto fermo che l’uomo cerca di oltrepassare!”[24]).

            Riflessioni sulla vita e sulla morte, sul rapporto con gli altri, sul bisogno d’amicizia e d’affetto emergono pure negli altri due drammi, La morte al suggeritore  e Il ritratto, al centro dei quali c’è, non a caso, la scomparsa d’una persona cara: la moglie e madre dei protagonisti nel primo, il figlio nel secondo. In quest’ultimo compare anche, per la prima volta nell’opera scotellariana, il mondo contadino meridionale, attraverso la descrizione dell’interno di una modesta casa di campagna, nella quale spiccano il focolare, le foto dei morti, il lume a petrolio. Ma qui il tema principale è che chi muore continua a vivere per coloro che vogliono credere. E’ quanto accade al Cieco, uno dei personaggi, amico dello scomparso, il quale  preferisce credere ai “suoi” occhi e non a quelli degli altri, riuscendo a convincere così anche i genitori del giovane (“Sì, Vito, convinciti anche tu che vive, per me, per te, per lui uniti per sempre”[25]).

            Pirandello e, ancora una volta, Vittorini sono i principali modelli per il giovane Scotellaro. Del primo, nel dramma La morte al suggeritore, viene ripreso l’espediente del “teatro nel teatro”, con la figura del Suggeritore che interviene nel dialogo. Così pure, in Giovani soli, uno dei protagonisti, Sergio, sembra svolgere la funzione di certi personaggi del teatro pirandelliano, che smascherano le ipocrisie, le convenzioni della società. A Vittorini rimanda invece il ricorso a figure simboliche, come la Voce, l’Uomo, il Cieco, presenti anche, come s’è visto, in Uno si distrae al bivio.

3. Le raccolte poetiche: È fatto giorno e  Margherite e rosolacci

 La produzione poetica di Scotellaro è interamente compresa in due libri: È fatto giorno e Margherite e rosolacci. Il primo però costituisce la raccolta preparata direttamente dall’autore in vita; il secondo riunisce composizioni disperse o rimaste inedite. La prima idea di raccogliere in volume le sue poesie venne allo scrittore lucano già nel 1948. L’anno seguente infatti presentò a Carlo Muscetta, presso gli uffici Einaudi di Roma, un manoscritto pronto per la stampa, ma, nonostante le assicurazioni del critico, ragioni editoriali e d’altro genere ne impedirono la pubblicazione. Nel 1952 Scotellaro riprovò con Mondadori, che, grazie anche all’interessamento di Montale, gli fece una regolare proposta fino ad arrivare alla firma del contratto, avvenuto il 25 novembre 1953. Venti giorni dopo però lo scrittore morì improvvisamente e il libro uscì postumo l’anno seguente, a cura di Carlo Levi, il quale ne alterò notevolmente  la fisionomia, aggiungendovi alcune poesie, eliminandone altre ed intervenendo, a volte, anche sulle singole composizioni. Soltanto nel 1982 si è potuta avere un’ edizione filologicamente attendibile della raccolta, grazie alla revisione testuale operata da Franco Vitelli, che ha riproposto il testo originario approntato dall’autore per la stampa, collocando in appendice le poesie aggiunte arbitrariamente da Levi.

            Il libro, così come è stato strutturato da Scotellaro, è diviso in due parti (la prima comprende poesie composte dal 1940 al ‘49; la seconda, dal 1949 al ‘52) ed è articolato in dodici sezioni distinte per affinità tematiche e di ispirazione. Non si tratta quindi di una semplice raccolta di componimenti, ma di un’opera organicamente strutturata, con una sua “architettura”, “a imitazione di molti canzonieri moderni”[26]. È fatto giorno, dunque, è il libro di tutta una vita e permette di seguire l’intero svolgimento dell’esperienza poetica di Scotellaro, individuandone le caratteristiche e i rapporti con movimenti letterari  e altri autori.

            Indubbi, ad esempio, soprattutto all’inizio, sono gli influssi dell’ermetismo, anche se, accanto a quella letteraria, sempre presente nella sua poesia è la componente popolare e dialettale, in una “duplicità di registro lessicale e stilistico”[27], che ne costituisce il tratto distintivo. In particolare, egli sembra guardare con interesse ai cosiddetti ermetici meridionali, cioè a poeti come Quasimodo, Sinisgalli e Gatto, i quali, nell’immediato dopoguerra, erano stati i protagonisti di una svolta, che li aveva portati a prestare maggiore attenzione alla realtà del Sud, con una sensibile novità di contenuto e di linguaggio.

            Non  a caso, il primo motivo che si ritrova nella raccolta è quello del Sud, a cui tutti gli altri devono essere ricondotti. In Scotellaro, in particolare, il tema del Sud si specifica ulteriormente con la propria terra, la Lucania ed ecco allora apparire, fin dalla prima sezione, Saluto, il paesaggio, la gente  lucana, i giochi dei ragazzi, le tradizioni popolari, osservati con un senso di profonda partecipazione. Nel suo paese il poeta vive in sintonia con gli altri e in pace con se stesso  (“siamo tutti fratelli e stiamo in pace / e abbiamo tempo per il riso e per il pianto”, Tarantella [28]), mentre affiora un sentimento di estraneità e di alienazione, quando è lontano da esso (“Io sono meno di niente / in questa folla di stracci / presa nel gorgo dei propri affanni”, Il primo addio a Napoli [29]).

            Sempre legate alla realtà ambientale della sua terra sono le esperienze amorose, descritte nella sezione È così calda la malva, le quali però non sono mai vissute in pienezza di sentimenti, ma spesso anzi sono motivo di infelicità, sia a causa di situazioni avverse, sia a causa di diversità psicologiche. E qui emerge il motivo della donna forestiera, conosciuta e amata di solito dal poeta per un breve periodo, la quale ha la funzione anche di mettere in rilievo l’incolmabile divario, la differenza di condizioni, costumi, mentalità esistenti tra i due. Ciò che rende, in definitiva, impossibile l’amore e inevitabili la separazione e l’abbandono (“Ce ne dovevamo andare / perché nascemmo altrove / sotto le mura di cinta lontane / di due sante cittadelle. / Il suo carcere spettava ad ognuno”, Ce ne dovevamo andare [30]).

            Un altro motivo presente nel libro è quello degli affetti familiari, a cui è dedicata la sezione Neve, dove spiccano le poesie dedicate ai genitori. Questo motivo, che ha grande rilievo nella poesia degli ermetici meridionali, ha una evidente matrice antropologica, perché richiama una concezione arcaica, tradizionale della famiglia, tipica anch’essa di una società patriarcale e contadina. In Scotellaro esiste una vera e propria mitologia del padre, che per il poeta resta, anche dopo la sua morte, un modello insostituibile, una guida perennemente valida. Questa figura è rievocata quasi in una dimensione rituale, se non addirittura sacrale (“Padre mio, che sei nel fuoco, / che brulica al focolare”, Padre mio [31]), ma, a volte, anche  con un  tono più confidenziale, forse proprio perché si tratta  di uno scomparso (“papà mio bello / che stai di casa oltre la murata”, Per il camposanto [32]). Per il poeta, il padre è colui che ha saputo dargli grandi e piccole lezioni di vita (“mi rimandavi indietro sulla porta, / avevi ospiti e forestieri, / perché imparassi a dire buona sera”, Per il camposanto [33]);  che lo ha messo in guardia dai pericoli del mondo (“Attento, dicesti figlio mio, / in questo mondo maledetto”, La benedizione del padre [34]); che ha offerto esempi inimitabili di abilità, di forza, di coraggio:

Mio padre misurava il piede destro

vendeva le scarpe fatte da maestro

nelle fiere piene di polvere.

   Tagliava con la roncella

   la suola come il pane

   una volta fece fuori le budella

   a un figlio di cane.

               (Mio padre [35]). 

            Se la figura del padre è inserita in una dimensione rituale, quella della madre è vista apparentemente in una luce più intima, più familiare.  Essa è descritta quasi sempre da Scotellaro accanto al focolare, intenta a un’occupazione umile e domestica: quella di tenere acceso il fuoco o di coprire la brace con un po’ di cenere. Con la madre esiste una somiglianza fisica e psicologica, un rapporto di odio-amore, che risale all’infanzia  (“Tu ora vorresti  da me / amore che non ti so dare. / Siamo due inquilini nella casa / che ci teniamo in dispetto / ti vedo sempre tesa / a rubarmi un po’ d’affetto. / Tu che a moine non mi hai avvezzato”, A una madre [36]), ma, fino alla fine, essa resta un punto di riferimento, una certezza ineludibile.

            Le poesie di ispirazione politica e sociale, alle quali è stata legata per tanto tempo, quasi unicamente, la fama di Scotellaro, si ritrovano nelle sezioni Capostorno e Sempre nuova è l’alba. A ben guardare, però, più che poesie di esplicita denuncia e di rivendicazione, sono riflessioni sulla condizione umana dei contadini, sulla loro secolare oppressione, sulla speranza di un cambiamento, a cui  seguono momenti di delusione, come in  Pozzanghera nera il diciotto aprile. Non a caso, piuttosto che alla descrizione realistica, Scotellaro mira alla trasfigurazione mitica di certi elementi: gli abigeatari diventano, ad esempio, “spiriti pellegrini della notte”[37]  e così  i contadini,  “i padri della terra” [38].

            Un altro motivo presente nel libro è quello della fanciullezza, che dal poeta è vista come un periodo beato, in quanto allora esisteva un’intima armonia con la natura, che adesso si è spezzata (“E la campagna aveva tanti amori, tu eri l’amante che non sa parlare”, Verde nasce.[39]). Ora affiora invece un sentimento doloroso di solitudine, di esclusione, a causa delle scelte letterarie e politiche compiute dal poeta (“M’avete ridotto un tabernacolo. / Il capitano è sempre / il più solo nella battaglia”, Storiella del vicinato [40]).

            Nelle sezioni della Parte seconda ritornano i motivi consueti, ma ad essi se ne aggiungono altri, intimamente collegati tra di loro: quello del carcere, che per il poeta è un’esperienza traumatizzante, quello dell’ “esilio” e quello del “disamore”, che caratterizza l’ultima fase della poesia scotellariana. Anche nelle ultime liriche composte da Scotellaro e comprese in Appendice ritornano i temi del mondo interiore del poeta e, non a caso, il libro si conclude con una poesia, scritta  pochi giorni prima della morte, dedicata alla madre, la quale rappresenta la stabilità degli affetti, la sicurezza dell’esistenza: “Mamma, tu sola sei vera. / E non muori perché sei sicura” (Tu sola sei vera [41]).

            La raccolta Margherite e rosolacci, apparsa nel 1978, comprende oltre centosessanta liriche, inedite o disperse, composte dal 1941 al 1953, le quali contribuiscono a completare la fisionomia di Scotellaro poeta. In particolare, questo volume documenta, in maniera assai più ampia di quanto non faccia E’ fatto giorno, la prima fase della sua produzione, che arriva fino al 1945, permettendo di cogliere meglio gli stretti legami esistenti con la poesia ermetica, sia dal lato tematico,  sia da quello formale. Di evidente origine ermetica sono infatti alcuni motivi presenti nelle liriche composte in questo periodo: il “sentimento” del tempo e delle stagioni (“io mi sento l’autunno / infiltrato nelle case basse”, Io mi sento l’autunno [42]; “Sentirsi questo sole di marzo”, Motivo [43]); infausti presagi (“L’amaro tuo viso / era per questa pioggia / che sarebbe scesa”, Era per questa pioggia [44]); oscuri sensi di colpa (“sul peccato della mia notte”, Penitenza [45]; “il cuore mulinato da rimorsi”,Vento fila [46]). A questi motivi si aggiungono quelli più tipicamente scotellariani, che compaiono anche negli scritti in prosa coevi, quali l’ansia per il futuro e l’incapacità di fare delle scelte precise (“Lunga strada seppur deserta / dove puoi menarmi / non vedo punto d’arrivo”, La terra mi tiene [47]; “Più in là, più in là quel porto / dove ancora non so”, E nel cervello straripa [48]) e il bisogno di rifugio e di protezione (“e solo per un passo molesto / m’imbucavo sottoterra, / cadendo dall’orlo della luce”, Letargo [49]).  Anche qui insomma è il mondo “decimato” del poeta a venir fuori, con i  suoi dubbi, le incertezze, le angoscie, l’ “ansia di gioventù”.

            Anche dal lato formale, non è difficile accorgersi dei rapporti intercorsi tra il giovane Scotellaro e l’ermetismo. In queste liriche si ritrovano infatti alcuni dei fenomeni più caratteristici del linguaggio della poesia ermetica: l’uso del sostantivo assoluto (“quando vago stormire di vento / volge faccia alle foglie”, E nel cervello straripa [50]; “Scopri mattino / stridente cinguettio”, Penitenza [51]; “che vano sogno fu di nostra infanzia”, Non era mai sera [52]; “Vento fila nei baratri”, Vento fila [53]); plurali, spesso anche qui senza articolo, in luogo di singolari (“Alberi spiccano dissotterati”, Calore [54]; “Ancora vividi rossori annunciano la sera”, Ultimo ottobre [55]; “Mi premono parole urgenti”, La bugia [56];  “Risvegliati antichi ricordi”, E nel cervello straripa [57]); uso indistinto della preposizione a (“Mi premono parole urgenti / a una fonte di luce, La bugia [58];  “Negletti i morti alle loro pareti / le tombe agli effimeri nomi”, Mezzogiorno [59]; “Tarda luce s’accese a qualche ora di notte […] / di quel mesto sorriso di donna / che fece sera alla mia strada”, Trepide ali [60]); locuzioni prepositive metaforiche (“un fresco di vesti di edere”, Villa d’Este [61]; “… sotto il cielo di fuoco”, Calore [62]; “è l’onda del sole”, Ultimo ottobre [63]; “in uno specchio di nevi”, Abbandoni [64]; “L’evento è il sordo fulmine del sole”, Solitaria natura [65]); analogie (“Stanotte il cielo è un mandorlo fiorito”, Primavera [66]); uso della sintassi nominale (“Questi frantumi di pietra / e la polvere nelle gronde!”, Riposante [67]; “Voci rauche, al sommo dell’estate, / e cortei con stendardi / dai vicini borghi // Così i prati e così / variopinte le donne”, Festa alla stazione [68]; “Una passeggiata / senza ritorno la nostra. / Cose nitide e brulle, il cielo incerto. / Un antro di luce tra le nubi”, Abbandoni [69]).

            Nelle poesie del periodo 1946-1949 si ritrovano i motivi più caratteristici dell’opera di Scotellaro. Esse infatti sono ispirate, in massima parte, alla realtà del paese, di cui si incontrano i personaggi (carrettieri, fabbri, calzolai, contadini, pastori, muratori), osservati e descritti nei loro gesti consueti, nella fatica, nella sofferenza di ogni giorno. Emergono così i problemi del duro lavoro quotidiano (Muratori per la siesta, Noi non ci bagneremo ), ma anche le tradizioni popolari (Quaresima ‘48, Le magiare attaccano ), le usanze, sempre strettamente legate alla civiltà contadina. C’è adesso un senso di coralità, di affratellamento da parte del poeta con la sua gente, come dimostra anche l’uso frequente della prima persona plurale. Questo senso di affratellamento, di mistica comunanza investe anche gli animali, che collaborano alla fatica quotidiana degli uomini. E come, in Vico Tapera , le bestie sembrano quasi partecipare alla morte di un contadino, così, in E’ lutto in casa, tutta la famiglia del carrettiere “è in lutto” per la morte del mulo. Anche qui però, accanto a queste poesie, non mancano quelle che sviluppano temi di carattere più intimista: il senso di solitudine provato nelle città forestiere, il rapporto sempre problematico con le donne conosciute.

             Le composizioni degli anni 1950-’53 riprendono questi motivi, ma ne presentano ancora altri, legati alle dolorose esperienze vissute dal poeta in questi anni: il carcere, l’ “esilio” dalla sua terra, il “disamore”. E sono motivi sempre intrecciati tra di loro, perché Scotellaro vive il “disimpegno” politico quasi come un tradimento rispetto alla sua gente. Significativa, a questo proposito, è Il posto. E quasi una punizione per il suo “tradimento” è la mancanza d’amore, legata, a sua volta, alla città forestiera, dove “l’arsa solitudine delle anime abitua / a colpi più efferati, al disamore / estremo, al doppio amore per / un dissetamento continuo” (L’amore in città [70]). Non a caso ora affiorano anche i simboli alienanti della civiltà moderna,  (“Fiori dell’autostrada / freddi e giganti. Prati di legno / garofani di cartone”, Fiori dell’autostrada  [71]). Mentre, ancora una volta, è solo il suo paese, la sua terra, la sua gente che gli riportano la serenità. E una vera e propria dichiarazione d’amore per il Sud è Appunti per una litania.

            Non più di un mero valore documentario hanno, infine, certe poesie di evidente contenuto ideologico (Ai giovani comunisti, L’uomo ), tra le più caduche e datate della raccolta.   

[In Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013]


[1] R. SCOTELLARO, Uno si distrae al bivio, con una prefazione di C. Levi, Roma- Matera, Basilicata editrice, 1982 (I ed. 1974), p. 4.

[2] C. LEVI, Prefazione  a R. SCOTELLARO, Uno si distrae al bivio, cit., p. VI.

[3] R. SCOTELLARO, Uno si distrae al bivio, cit., p. 3.

[4] Ibid.

[5] R. SALINA BORELLO, A giorno fatto. Linguaggio e ideologia in Rocco Scotellaro, Roma-Matera, Basilicata editrice, 1977, p. 119.

[6] R. SCOTELLARO, Uno si distrae al bivio, cit., p. 7.

[7] Ivi, p. 8.

[8] Ivi, p. 28.

[9] Ivi, p. 21.

[10] Ibid.

[11] Ivi, p. 22.

[12] Ivi, p. 31

[13] Ivi, p. 37.

[14] Ivi, p. 35

[15] Ibid.

[16] Ivi, p. 40

[17] R. SCOTELLARO, Giovani soli, a cura di R. Toneatto, Roma-Matera, Basilicata editrice, 1984, p. 6.

[18] Ivi, p. 7

[19] Ibid.

[20] Ivi, p. 6.

[21] Ivi, p. 16.

[22] Ivi, p. 10.

[23] Ivi, p. 11.

[24] Ivi, p. 18.

[25] Ivi, p. 59.

[26] C. MUSCETTA, Rocco Scotellaro e la cultura dell’ “Uva puttanella” [1954], in AA. VV., Omaggio a Scotellaro, a cura di L. Mancino, Manduria, Lacaita, 1974, p. 201.

[27] M. DELL’AQUILA, Funzione e valore della componente dialettale nella poesia di Rocco Scotellaro, in Giannone De Sanctis Scotellaro. Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981, p. 152.

[28] R. SCOTELLARO, È fatto giorno, edizione riveduta e integrata a cura di F. Vitelli, Milano, Mondadori, 1982, p. 42.

[29] Ivi, p. 43.

[30] Ivi, p. 52.

[31] Ivi, p. 141.

[32] Ivi, p. 55.

[33] Ibid.

[34] Ivi, p. 56.

[35] Ivi, p. 58.

[36] Ivi, p. 56.

[37] Ivi, p. 72.

[38] Ivi, p. 63.

[39] Ivi, p. 89.

[40] Ivi, p. 87.

[41] Ivi, p. 146.

[42] R. SCOTELLARO, Margherite e rosolacci, a cura di F. Vitelli, con una prefazione di M. Rossi-Doria, Milano, Mondadori, 1978, p. 29.

[43] Ivi, p. 37.

[44] Ivi, p. 24.

[45] Ivi, p. 25.

[46] Ivi, p. 33.

[47] Ivi, p. 22.

[48] Ivi, p. 24.

[49] Ivi, p. 85.

[50] Ivi, p. 24.

[51] Ivi, p. 25.

[52] Ivi, p. 32.

[53] Ivi, p. 33.

[54] Ivi, p. 21.

[55] Ibid.

[56] Ivi, p. 23.

[57] Ivi, p. 24.

[58] Ivi, p. 23.

[59] Ivi, p. 25.

[60] Ivi, p. 90.

[61] Ivi, p. 20.

[62] Ivi, p. 21.

[63] Ibid.

[64] Ivi, p. 37.

[65] Ivi, p. 86.

[66] Ivi, p. 20.

[67] Ivi, p. 23.

[68] Ivi, p. 34.

[69] Ivi, p. 37.

[70] Ivi, p. 116.

[71] Ivi, p. 115.

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