La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino. Filosofie film narrazioni 9. La traslitterazione del dubbio: dalla fede all’ateismo religioso. “Gertrud” di Carl Th. Dreyer

Infatti, se in Ordet, la costanza del credere è l’asse tematico, si può già leggere un ribaltamento o, meglio, uno slittamento per il quale la fede teologica viene intesa come fede laica[110]. Ma anche il lessico cambia: se prima Dreyer parlava di animo e di anima, poi parlerà, come avviene in Gertrud, di psiche. Per il critico che dirigeva “Cinema nuovo”, anche in Gertrud, opera del 1964 che concluderà la produzione parca e pensosa del danese, l’affinità tra i due registi è visibile. Inoltre il rinvio a Lukács, secondo Aristarco, è doveroso perché per l’ultimo Dreyer, come per l’ultimo Bergman, si potrebbe ripetere quanto affermava il filosofo ungherese sulle origini dell’attuale “ateismo religioso”. L’assenza di Dio, nella sua dimensione totalizzante, sembrava aver sostituito la fede in un Dio: con la parola “nulla” si chiude il monologo di Persona econ il “niente”, che rappresenta il vuoto e con cui termina Gertrud, che èmaterializzato dalla porta chiusa dalla protagonista quando tronca il colloquio con l’ex-amante[111]. Nondimeno questo contesto lascia un messaggio molto forte e culturalmente eversivo che, sicuramente, non è inseribile in alcuna forma di nichilismo. Infatti, rimane nella protagonista un punto interiore di riferimento.

E per quanto Sartre, l’ateo per antonomasia, abbia affermato che anche l’ateismo è una fede e se parlare di “ateismo religioso” può apparire un ossimoro, nondimeno quell’elemento farebbe riconoscere in Dreyer la permanenza di una sensibilità idealistica e non realistica[112]. Ma in cosa consisterebbe la religiosità di una visione atea, di una cultura basata sull’assenza di Dio? Sarebbe in una visione, non ideologica ma vissuta e concreta, per la quale l’esistenza è totalizzata e compresa in un valore primario: in questo caso l’eros. Dreyer dirà nel 1964, anno in cui si gira Gertrud,che “misticismo e realismo sono nozioni e definizioni limitate e l’una non comincia dove l’altra finisce”[113].

Ma, a parer nostro, c’è qualcosa di più. In Bergman e in Dreyer è presente qualcosa di egualmente specifico, importantissimo e determinante, cioè il ruolo della donna come elemento che cerca di equilibrare il soggetto e di fargli scorgere, insieme, vuoti dell’anima e uscite dai labirinti esistenziali. Forse sarebbe anche da verificare, su questo tema, un influsso del norvegese Ibsen. La narrazione di Ingmar Bergman, al cui interno troviamo le autoanalisi di Antonius Block e Isak Borg, parte dall’angoscia dovuta al silenzio di Dio che si fenomenizza nella paura della morte, e giunge alla costruzione di una significazione pacificante con gli altri e con se stessi.

In questi film il ruolo delle donne è portante ed emblematico. È qualcosa di più del ruolo di una speranza: è il ruolo della concretezza esistenziale, della saggezza, del rispetto dei valori minimi che ognuno deve esercitare nei confronti di se stesso e degli altri. Le parole di Mia, Marianna e della giovane Sara liberavano dall’angoscia il Cavaliere de Il settimo sigillo e lo scienziato de Il posto delle fragole, anche andando oltre l’insufficienza della fede, della filosofia e della scienza, in quanto la figura femminile materializzava la ragionevolezza degli affetti[114].

Per continuare a parametrare con categorie di Kierkegaard questo panorama antropologico, dobbiamo adottare le sue tre categorie: il piano estetico, il piano etico e il piano della fede. Sia beninteso che si parla di una fede che, per il filosofo in questione, è passione, anzi è la più alta delle passioni. Visto che non stiamo procedendo per enigmi, conviene cominciare dalla fine di Gertrud. Nel rammentare il suo incontro con Lipman, intellettuale di successo, già suo amante, Gertrud ricorda quando, entrando nella casa dell’altro, aveva trovato un profilo di donna che rappresentava lei, a cui era aggiunto un testo tutto scritto a stampatello: “L’amore della donna e il lavoro dell’uomo – sono nemici in partenza”. Gertrud commenta e ricorda:

Oh, allora capii tutto… e il mio cuore invecchiò. Avevo vergogna e schifo di essere donna. Meditai su molte cose e capii che avevi ragione. Mi guardai intorno e vidi che fra tutti gli uomini che diventano dei grandi neppure uno sa cosa sia l’amore. Non disprezzano il… “desiderio della carne”. È l’amore che disprezzano. E tu sei diventato come loro. E io non ti amo[115].

Che per il maschio il lavoro, e non il rapporto amoroso,  sia il modo privilegiato di realizzazione e di esaltazione risulta anche dalla banale lamentela del marito, divenuto ministro, nel momento in cui la moglie lo abbandona. A Kanning che, malinconico, lamenta: “E proprio ora, Gertrud… quando più avevo bisogno di te. Tu sei la sola donna con la quale posso parlare di politica”, lei, con molta ironia, controbatte: “Ma sì, carissimo… allora ci possiamo incontrare ogni tanto e ‘parlare di politica’. Ciao”.[116]

Gertrud, aveva già aveva detto a suo marito, innanzi alle sue ripetute dichiarazioni di amare la moglie:

amare… è una parola talmente grande. Sono tante le cose che ami. Ami il potere e gli onori. Ami te stesso: la tua saggezza, i tuoi libri. E i tuoi sigari avana. E non dubito che di tanto in tanto abbia amato anche me[117].

Una nuova etica dell’eros? Gertrud passa al piano etico, cioè al piano del valore universale o del Generale, come la chiamava Kierkegaard in Timore e tremore,e lascia agli uomini, ai maschi, la responsabilità della inimicizia ontologica e divaricante tra amore e lavoro. La donna opta per l’eros o amore (i due termini, nell’uso che ne fa Gertrud, sono sinonimi) totalizzante, per quanto sia consapevole che l’amore non ha niente a che fare con la ragionevolezza e col buon senso[118]. È evidente che l’amore non è godimento, consumazione, estasi irrazionale, in quanto non c’è felicità nell’amore: “Devi credere a me che ho amato più di te. Perché sono donna. L’amore è sofferenza. L’amore è infelicità. C’è uno spazio vuoto nel tuo cuore, ma io non posso venirti in aiuto. Non chiedermi niente”[119].

Eppure l’intellettuale Lipman era stato accolto dalla comunità e dalla popolazione studentesca come colui che, in teoria, aveva ribaltato la nozione di amore. Lo studente anziano, nel discorso di saluto, lo esalta dicendo:

A nome degli studenti e della gioventù siamo venuti qui stasera per rendere omaggio a lei, il grande poeta dell’amore. La maggior parte dei giovani di oggi sono stati educati da genitori sposati in chiesa e dediti a una vita abitudinaria che niente ha a che fare con l’amore. A lei invece la concezione dell’amore come qualcosa di triviale e sordido, propria della vecchia generazione, è sempre stata estranea. La sua teoria è che il vero amore è pensabile solo come unione della mente e dei sensi. La sua opera drammatica non tratta di come la donna debba esser “conquistata” o “sedotta”, ma di come si vive insieme . […] Nei loro [degli uomini ] occhi le donne leggono fin troppo chiaramente la rozzezza senza fondo dei loro cuori. La sua teoria dell’amore creò una nuova donna e una nuova morale[120].

Per Dreyer e per Hjalmar Söderberg, l’autore del romanzo da cui fu tratto il film, sarebbe stata, quindi, una teorizzazione nuova a cambiare l’immagine e il ruolo della donna all’interno del rapporto amoroso, nonché il suo ruolo morale. Ma Lipman pare onesto quando riconosce la possibilità di una doppiezza nel suo dire e nel suo pensare:

Vorrei formulare il concetto di verità a questo modo: “Io sono libero di dire che due per due fa cinque, se mi pare di poterne trarre vantaggio, ma non sono assolutamente libero di pensarlo”. Pensarlo non è neppure in mio potere. Sono contento che nessuno mi domandi: quale è il senso della vita? Ma se qualcuno me lo domandasse, risponderei: “Che mania di grandezza: credere che la vita per noi uomini dovrebbe avere un senso particolare – un altro senso che non sia la vita stessa – un senso diverso dalla vita dell’albero o della bestia! Domandare del senso della vita è insensato”[121].

Lo scarto esistenziale e culturale di Gertrud, però, spiazzerà gli uomini, a cominciare dal marito Kanning che considerava i rapporti della moglie con altri uomini come scherzi o atti dovuti ad una donna artista “libera e indipendente” quando incontrava uno scrittore celebre[122]. E sicuramente Gertrud, lo ridicolizza rispondendo: “Non rido, sorrido. Mi sono venuti in mente tutti quei poveretti che si permettono di amare pur non essendo né artisti né celebrità”[123].

Dreyer è consapevole di aver messo sullo schermo figure femminili robuste, credibili, nel loro ruolo “rivoluzionarie”, non intimorite da niente pur di essere coerenti con il proprio vissuto. Il regista sottolinea che neanche Anna, protagonista di Dies irae, probabilmente avrebbe voluto accettare un accordo, pur sapendo che l’alternativa era la morte, perché voleva mantenere la propria pretesa d’amore, voleva avere per sé il giovane e, all’abbandono di lui che la smentì e l’accusò, vedeva crollare tutto. Il regista aggiunge: “Ma voglio anche dire che Gertrud, a mio parere, tiene meglio la situazione in pugno; è una donna superiore agli uomini, sia come intelligenza, che come forza di carattere e di sentimento”[124].

Gertrud ha superato il dubbio. Non così gli uomini che dicono di amarla, che l’hanno circuita e che, dinnanzi alla scelta esistenziale, fuggono: ancora dubbi su ciò che è giusto (o conveniente?) e ciò che non lo è. Come anticipato prima, è paradossalmente la donna che, col primato riconosciuto all’amore, all’eros, al desiderio carnale, si mostra molto più conseguente, leale, quindi “etica” nei confronti di coloro che non hanno il coraggio della scelta e vivono nell’ipocrisia e nell’ambiguità.

Erland Jansson è un cantante che ama vivere l’attimo e le occasioni. Anche con lui Gertrud ha un rapporto forte, ma anche questa relazione porta la donna ancora al disincanto:

Gertrud: Erland, c’è tanta di quella musica in te che vuol venire al mondo, in mezzo agli uomini. Vivendo come vivi la farai morire. Forse presto. Forse prima di quanto credi. Le tue ispirazioni in una bettola puzzolente di birra… dopo una notte bianca. Erland, non valgono gran che. Ti prego, Erland. Ti prego come se si trattasse della mia stessa vita, non andarci.

Jansson: Vivo come posso e devo vivere. Ce l’ho nel sangue. Anche se ti promettessi di restare a casa stasera, finirei per andarci lo stesso.

Gertrud: Sì, sì, allora è meglio che non prometta niente[125].

La conclusione della protagonista è conclusione etica, quella che tutti debbono accettare. È opportuno ricordare la distinzione, di origine hegeliana, tra la morale, che concerne la coscienza del singolo, e l’etica che riguarda i valori interpersonali di una comunità. Il maschio cerca scappatoie banali ed evita la scelta, l’impegno, il sacrificio, la fedeltà.

Gertrud: Devi dirlo.

Jansson (ridendo) Ti amo.

Gertrud: Dillo di nuovo.

Jansson: Io… io ti amo, ma che cosa posso essere io per te? Lasciami andare per la mia strada. Essa non può mai essere la tua.

Gertrud (calma e sommessa) Tu per me sei tutto. La mia nuova vita… nella passione e nel dolore.[126]

Il regista è sempre presente e vuole ricostruire un clima estetico ed estetizzante che dia le coordinate di quello che sta presentando. Quando Gertrud bacia Jansson, la sceneggiatura recita: “La scena dovrebbe ricordare Il bacio di Edward Munch”[127], e nella stanza da letto della casa di lui è una tenda con il dipinto di Leda e il cigno[128]. Riferimenti ben precisi a “miti” d’amore ben caratterizzati nella loro e laicità e autosufficienza culturale.

Ma con questo film Dreyer avvertiva di esser passato dalle tematiche religiose a quelle psicologiche, nella quale l’anima è  momento nodale. Egli rispondeva ad una intervista di Henrik Stangerup, nel giugno 1964, alla domanda se Gertrud, che non era ancora finito,differisse molto dai film che aveva realizzato fino ad allora:

Non al punto che non entri nella logica delle mie creazioni cinematografiche. Come ho fatto di Ordet un film religioso, così spero di fare di Gertrud un film psicologico. Tratta dell’erotismo. È una storia che si svolge a Stoccolma agli inizi del secolo; l’eterno conflitto dell’uomo assorbito dal lavoro e la donna dall’amore. Come si può evitare il tragico isolamento delle coppie? “Il lavoro dell’uomo e l’amore della donna sono nemici, fin dagli inizi”, dice Hjalmar Söderberg, l’autore svedese da cui è tratto il mio film. E Gertrud lancia questo grido doloroso: “Io credo al godimento della carne e alla solitudine irreparabile dell’anima”[129].

L’anima è chiusa nella sua solitudine, quindi, e questo si nota anche nel marito abbandonato che, in carrozza, dopo la riunione con il sindacato, parla da solo: “Mi viene in mente una vecchia poesia: ‘Bada al tesoro che Dio ti donò, che dalle mani piano non ti scivoli’. Non siamo mai abbastanza attenti alle cose che possediamo e che non vorremmo perdere”[130]. È qualcosa di più di un pentimento. È ancora la paura della solitudine dell’anima.

Discorso psicologico, dice Dreyer. Nel film è anche Nygren che da giovane aveva scritto un libro sul libero arbitrio e che ora stava studiando psichiatria. Gertrud lo stuzzica proprio sul libero arbitro, sulla libertà di scelta. E non perde l’occasione per ostentare la propria libertà erotica:

Gertrud: Mi fa piacere sentire che credi ancora al libero arbitrio. Mio padre era un mesto fatalista e ci insegnò che nella vita tutto è predestinato. Mi ricordo che dicevi Volere è scegliere, mio padre invece diceva che non c’è nessuna scelta. Non si sceglie, diceva, né la propria moglie né i propri bambini. Uno li ha e se li tiene. Non si sceglie. È il destino che decide tutto.

Nygren: Bene, allora sai come regolarti.

Gertrud: Sì, grazie, ma i miei uomini me li voglio scegliere da me.

Nygren: Al plurale?

Gertrud: Sì. (con un sorriso di scusa) Tu eri a Parigi.[131]

L’ipocrisia maschile imperversa. Quando Gertrud dice a Lipman che è tornato da vincitore, egli risponde: “Vincitore? Proprio. Evidentemente non parliamo della stessa cosa. Nell’unica battaglia che veramente mai mi abbia importato sono stato sconfitto. Gertrud, perché mi hai lasciato?” Allorché la donna gli chiede se sia andato ad un incontro con persone poco raccomandabili, la sua scusa è risibile e vile: “No. Insomma, ci sono andato… uomini più santi di me hanno pure seduto al tavolo di cortigiane”[132]. Ma ancora più dura è la protagonista quando ricorda a Lipman che la sua “dichiarazione di fede” suonava così: “Credo al desiderio della carne e alla irrimediabile solitudine dell’anima”. Aggiunge che con quelle parole l’aveva “svegliata”. E quando tra loro crollò tutto, lei aveva seguito il desiderio della carne, solo quello.

Questo è il mio matrimonio. […] Non credere che io abbia dimenticato ciò che ti devo. Mi trascinavo per la vita con due mete: da una parte la morale e dall’altra le piccole gioie dell’amore. Ma poi ti incontrai. […] Gabriel, credi davvero anche tu a quella leggenda che fui io a lasciarti? Davvero non sai che fosti tu ad allontanarmi da te… piano, con delicatezza?[133]

Era stato il maschio a sfilarsi dal rapporto quando si era reso conto che esso comportava una scelta etica e lasciava la donna nella doppiezza tra carne e anima. Ma la lucidità della donna è salvezza, per chi la vuol cogliere. L’uomo, “che lavora”, vive di compromessi e di falsità. Sicuramente non a caso, quando in altra situazione parlano due uomini, Kenning e Lidman, il regista introduce il suono dell’orchestra del ristorante che intona la strofa introduttiva dei Pagliacci di Leoncavallo: “Prendi la giubba e la faccia infarina, la gente paga e vuol ridere”[134].

Il problema è quello millenario. La donna libera e che manifesta i propri sentimenti, se non la propria passione, quella che fa lei “il primo passo”, è giudicata una poco di buono[135]. Ma troviamo qualcosa di più radicale, nel cinismo ed egoismo del giovane musicista: quando uno ha conquistato un trofeo, quel trofeo non conta più niente, conta solo quello che ancora non ha conquistato:

Jansson: No, io non ti amo. Se ti amassi partirei con te infischiandomi di qualunque altra cosa. Io sogno… una donna. Ma tu non sei quella donna. Essa dovrà essere innocente e pura. Dovrà ubbidirmi ed esser proprietà mia. Tu sei così orgogliosa. Prima pensavo che fosse il solito orgoglio della gran signora… ma è anche peggio. È il tuo carattere che è orgoglioso. […] Io te ti ho già posseduto. Ciò che già si è vinto è niente. Ciò che è da vincere è tutto.

Gertrud (quietamente): Lasciami sola, Erland,

Jansson (esitando) Perdonami, Gertrud. Non dobbiamo lasciarci da nemici. Perdonami[136].

La richiesta di perdono e, soprattutto, l’egoistico “non dobbiamo lasciarci da nemici”, chiudono la storia di Gertrud, donna appassionata e forte come una roccia.

Qui finiva il romanzo dell’autore svedese, ma non finisce il film. Dreyer presenta ancora Gertrud il giorno del suo compleanno: settant’anni. Va a trovarla Nygren, uno degli ex-amanti. Insieme bruciano le lettere del vecchio amore e lei ricorda che a sedici anni aveva scritto una poesia conservata in una vecchia Bibbia: definisce quella poesia il “suo vangelo d’amore”:

Guardami dunque.

Son bella?

No.

Ma ho amato.

Guardami dunque.

Son giovane?

No.

Ma ho amato.

Guardami dunque.

Son viva?

No.

Ma ho amato.[137]

L’anziana Gertrud non rimpiange nulla, anzi afferma che quando sarà sull’orlo della tomba e si guarderà indietro nella vita, dirà a me stessa: ho molto sofferto e spesso ho sbagliato, ma ho amato. Sulla tomba non vuole neanche il proprio nome ma solo due parole: “Amor omnia”[138].

Gertrud ha risolto il dubbio dell’esistenza? Forse sì. E Dreyer? Egli ripercorre, nella varie interviste. le sue opere fermandosi sui personaggi protagonisti. A proposito de La passione di Giovanna d’Arco, del 1928, egli afferma che voleva cantare il trionfo dell’anima sulla vita e che non a caso aveva scelto come attori elementi espressivi che, da singolari primi piani, “parlano all’animo forse commosso dello spettatore”[139].

Dopo Anna di Dies irae (1943), è Johannes di Ordet. Qui la spiegazione dell’autore è più complessa. Siamo nel 1955 e Dreyer si dichiara maturato dopo la rivoluzione culturale e scientifica  introdotta da Einstein che di per sé, a dire il vero, – ed è solo una nostra parentesi – non era antireligiosa se lo scienziato aveva dichiarato che alla religione appartiene anche la fiducia nella possibilità che le leggi del mondo, valide per l’esistenza, sono razionali, cioè comprensibili con la ragione: “Io non posso concepire uno scienziato vero senza una fede profonda”[140].

Il personaggio di Johannes, nel dramma di Kaj Munk da cui era stata ricavata la trama del film, si presentava da un angolo di visuale diverso, perché Kaj Munk presentiva tutto questo, quando nel 1925 scriveva nel suo dramma che il pazzo Johannes era forse più vicino a Dio di tutti i cristiani che lo circondavano[141].

La scienza aveva allora risolto “il dubbio” sul “Soggetto Assoluto”? Il regista non lo dichiara, ma afferma di essersi allora avvicinato alla psicologia:

Io non ho rifiutato la scienza moderna per il miracolo della religione. Anzi. L’opera di di Kaj Munk ha assunto per me un nuovo e più ampio significato, perché i pensieri paradossali e le idee espresse nel dramma sono stati dimostrati dai recenti studi di psicologia, sono stati esposti da pionieri come Rhine, Uspenskij, Dunne, Aldous Huxley, ecc. le cui teorie spiegavano nel modo più semplice le vicende apparentemente inesplicabili del dramma, e stabilivano una coesione naturale dietro agli avvenimenti sovrannaturali che si trovano nel film”[142].

Nel 1965, l’intervistatore Borge Trolle gli chiede se, nella presentazione del film, si sia voluto fare di Gertrud un film cristiano. La risposta di Dreyer è drastica:

Lo so, e questo mi ha molto sorpreso perché, se tale fosse stato il mio scopo, avrei fatto di Gertrud una cristiana. Ma lei stessa, nel suo ultimo incontro con Erland Jansson, afferma di non credere in Dio. Così è scritto già nel testo di Söderberg, ma che io abbia conservato intatto nel film questo punto del dialogo, è del tutto voluto e intenzionale. Se non fosse così avrei potuto cancellare queste due battute[143].

Il passaggio citato è quando il non molto coraggioso Jansson, lasciando – o “lasciandosi  lasciare” da Gertrud, chiede di non farlo da nemici e, soprattutto, di essere perdonato:

Gertrud: Perdonarti? Mi piacerebbe credere in un Dio al quale chiederti di proteggerti.

Jansson (a bassa voce) Non credi in Dio, Gertrud?

Gertrud: E tu?

Jansson (esitando): Non so. Un essere supremo deve pur esistere da qualche parte. Altrimenti troppe cose sarebbero inspiegabili.

Gertrud: Hmm. Ma ora vattene.[144]

L’hmm è risposta significativa. Gertrud non ha risposto dicendo di non credere, né la convince la motivazione della presunta fede dell’interlocutore che sarebbe basata sulla inspiegabilità di “troppe cose”, se Dio non esistesse.

Dreyer, in maniera assolutamente inconsapevole, accoglieva quanto scritto da Bergson nel 1932, in Les deux sources de la morale et de la religion, quando aveva affermato che, attraverso la tecnica, l’uomo ha ampliato la sua azione sulla natura e il corpo dell’uomo si è ingrandito. Tutto ciò “attende un supplemento d’anima, e la meccanica esigerebbe la mistica”. Il dubbio, metodico, si potrebbe riaprire proprio con quel “supplemento d’anima” a cui l’ultimo Dreyer pare richiamare in maniera pungente e forte.

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Note

[109] Cfr. G. Aristarco, Introduzione, in Carl Th. Dreyer, Cinque film. La passione di Giovanna d’Arco, Vampiro, Dies irae, Ordet, Gertrud, Einaudi, Torino 1967, p. XVIII.

[110] Cfr. Ivi, p. LIII.

[111] Cfr. Ivi, p. LV.

[112] “Che Dreyer sia insomma più un ‘idealista’ che un ‘realista’ lo conferma proprio l’ateismo religioso cui approda in Gertrud”, ivi, p. LIV.

[113] In un’intervista del 1964, a cura di Henrik Stangerup, ivi, p. 447.

[114] Ci permettiamo di rinviare al ns. Il ruolo della donna e la ragionevolezza degli affetti. A proposito di Ingmar Bergman, in G. Invitto, Idee e schermi bianchi, cit., pp. 117-130.

[115] Gertrud, cit., p. 323.

[116] Ivi, p. 290.

[117] Ivi, p. 288.

[118] Cfr. Ivi, p. 313.

[119] Ivi, p. 324.

[120] Ivi, p. 301.

[121] Ivi, p. 302.

[122] “Certo che scherzavi, come sai ho sempre considerato la tua relazione con Gabriel Lidman come qualcosa che non mi riguardava. Eri una donna libera e indipendente: tu un’artista e lui uno scrittore celebre, e questo cambia tutto”; Ivi, p. 284.

[123] Ivi, p. 284.

[124] Intervista di Borge Trolle del maggio 1965, in Cinque film, cit., p. 454.

[125] Gertrud, cit., p. 294.

[126] Ivi, p. 291.

[127] Ivi, p. 295.

[128] Cfr. Ivi, p. 296.

[129] In Cinque film, cit., pp. 446-447.

[130] Gertrud, cit., p. 297.

[131] Ivi, p. 306.

[132] Ivi, pp. 310-311.

[133] Ivi, p. 321.

[134] Ivi, p. 309.

[135] Gertrud a Jansson: “Poco fa dicevi che avremmo potuto amarci senza che per me fosse necessario il divorzio. Suonava male. Ogni tanto mi viene in mente che l’amore è una cosa diversa per te e per me, che non significa la stessa cosa. Stanotte avevo l’insonnia e mi domandavo cos’è in fondo che tu pensi di me. E all’improvviso ebbi la certezza che tu pensi di me esattamente la stessa cosa che la maggioranza pensa delle donne che… fanno il primo passo”; Ivi, p. 316.

[136] Ivi, p. 318.

[137] Ivi, p. 332.

[138] Ivi, p. 333.

[139] E aggiunge: “Rudolf Maté, che era alla camera, seppe piegare i primi piani a tutte le sfumature della psicologia drammatica e mi dette quello che era il mio intendimento, il mio modo di sentire e di pensare: il misticismo fatto realtà”; traduzione dell’articolo Misticismo fatto realtà pubblicato in Film-Photos wie noch nie, Kind und Bucher Verlag, 1929, in Cinque film, cit., p. 356.

[140] A. Einstein, Ideas and Opinions, New York 1954, p. 46. Einstein aveva anche scritto: “L’esperienza più bella e profonda che un uomo possa avere, è il senso del Mistero. Esso è il principio alla base della religione come di ogni altro serio sforzo nell’arte e nella scienza. Chi non ha mai avuto questa esperienza mi sembra, se non morto, almeno cieco. Sentire che dietro ogni fenomeno che si può provare, c’è qualcosa che la nostra mente non può afferrare e la cui bellezza e sublimità ci arrivano solo indirettamente e come un flebile riflesso, questa è religiosità. In questo senso sono religioso. Mi basta stupirmi per tale segreto e tentare umilmente di afferrare con la mia mente una vera immagine dell’alta struttura di tutto ciò che esiste”; A. Einstein, Come io vedo il mondo, Londra 1935.

[141] Cfr. intervista di Dreyer a c. di Johannes Allen del 27 settembre 1954, mentre Ordet era in lavorazione. In Cinque film, cit., p. 407.

[142] Metafisica di “Ordet”, pubblicato su “Film Culture”, 1956, n. 1; Ivi, p. 424.

[143] Intervista di Borge Trolle del maggio 1965, in Cinque film, cit., p. 451.

[144] Gertrud, cit., p. 318.

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