Un narratore pugliese del Novecento: Salvatore Paolo

            In questa direzione non posso fin da ora accennare all’operazione altamente meritoria, degna di attenzione e sostegno da parte delle istituzioni, che sta svolgendo Mario Calcagnile con le sue Edizioni Calcangeli, nelle quali finora sono stati stampati tre romanzi di Paolo, uno dei quali completamente inedito e un altro inedito in volume. E speriamo appunto che si possa arrivare a pubblicare tutta l’opera di questo nostro scrittore, di questo “narratore del Salento”, come ho voluto intitolare questo mio intervento: “narratore del Salento” in duplice senso, sia nel senso che Paolo è uno scrittore che è nato e ha operato nel Salento sia nel senso che ha narrato il Salento, la nostra terra, la nostra storia, la nostra gente, i nostri costumi, ma anche le strutture profonde della società salentina, certe costanti di natura antropologica. Ma, prima di passare all’esame dell’attività letteraria, fornisco ora qualche notizia di carattere biografico.

            Salvatore Paolo nacque a Carmiano il 5 febbraio 1920, settimo degli otto figli di Cosimo e Eugenia Caione, entrambi proprietari terrieri. Terminata la scuola elementare, frequenta il quinquennio del ginnasio presso il Seminario vescovile di Lecce, spinto dal padre. Dopo aver portato a termine il primo anno di liceo presso il Seminario superiore di Molfetta, rinuncia però a proseguire sulla strada del sacerdozio e abbandona il seminario, proseguendo gli studi, dal secondo anno, nel Liceo classico “G. Palmieri” di Lecce, dove nel 1940 consegue la maturità. Intanto in questo periodo incomincia il suo apprendistato letterario. Le sue prime prove letterarie sono costituite da trentuno poesie, due novelle e da una tragedia in versi, Virginia De Leyva, finita di scrivere nel settembre 1939.

            Nel 1940 si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. All’inizio del ‘43 è chiamato alle armi, ma reso abile ai servizi sedentari, non viene mandato  al fronte, bensì a svolgere lavori di ufficio presso il Distretto militare di Ascoli Piceno, dove conosce il poeta Andrea Zanzotto, con il quale resta anche in seguito in rapporti epistolari.

            Dopo la guerra riprende gli studi e si laurea a Napoli il 26 aprile 1946, discutendo una tesi dal titolo Il naturalismo nell’opera di Luigi Pirandello. E dal grande drammaturgo siciliano sono influenzate due commedie in tre atti, rimaste inedite, intitolate La marchesina e La gioia del male. Il 22 marzo 1947 intanto porta a termine il suo primo romanzo, I Melcari, che nella stesura definitiva diventerà Il canale. E qui non si può non osservare che quest’opera d’impianto realista (o neorealista) viene composta proprio nel periodo culminante di questa tendenza letteraria, cioè nell’immediato dopoguerra, anche se per le consuete vicissitudini editoriali e per il lavoro correttorio a cui verrà sottoposta dall’autore sarà pubblicata col nuovo titolo soltanto quindici anni dopo.

            Dal 1949 intanto ha inizio la sua attività di docente in scuole di vario ordine e grado: dal 1949 al ‘54 insegna presso la Scuola media “A. Oriani” di Lecce; poi, fino al 1966 in quella di Carmiano; nell’anno scolastico 1966-67 diventa ordinario di italiano e storia nell’Istituto tecnico industriale “E. Fermi” di Lecce. In tutti questi anni Paolo non partecipa alle vicende letterarie salentine, nemmeno a quelle che più potevano interessarlo. E qui mi riferisco soprattutto alla rivista “Il campo” fondata da Francesco Lala nel 1955, d’impostazione neorealista e meridionalista, e andata avanti per una decina di anni. Lo scrittore infatti non collaborava neppure a questa rivista che era vicina ai suoi ideali, ai suoi orientamenti letterari e che venne condiretta da suoi amici e colleghi come Giovanni Bernardini e Nicola Carducci. Paolo preferiva lavorare in solitudine, tanto è vero che Tommaso Fiore, in una lettera a Bernardini e da lui conservata, datata “6 ottobre 1966”, lo definì “il solitario di Carmiano”. Ma, come ha precisato proprio lo scrittore di Monteroni, “la solitudine non fu una scelta, per lui fu forse soprattutto una sofferenza subita”[3].

            Il 21 aprile 1954 intanto si sposa con Raffaela Mele, insegnante, che da allora sarà la compagna della sua vita. Nel 1959 con  Il canale, che, come s’è detto deriva da I Melcari, ed era stato condotto a termine intorno al 1956-’57, arriva secondo alla quarta edizione del Premio “Città di Bari” per un romanzo inedito. Quest’opera, finalmente, viene pubblicata nel 1962 dalla Casa editrice Nuova Accademia di Milano, con una prefazione di Ettore Mazzali, che era il direttore della collana “I gabbiani”.

            Da questo momento Paolo continuerà a scrivere altri romanzi ma non riuscirà più a pubblicarne nessuno, nonostante i giudizi positivi espressi spesso da critici ed editori. Attraverso il materiale conservato nell’Archivio familiare a Carmiano (lettere, documentazione relativa a concorsi, premi, ecc.), ho cercato di ricostruire la cronologia delle opere composte da Paolo, che dovrebbe essere la seguente: nel 1960 finisce di scrivere il suo secondo romanzo, Innamorati e dritti, che poi diventa Lia; nel 1962 Il picchio al portone (poi I Fibbia); nel 1966 L’attesa e subito dopo Venditore di posti (poi Il roccolo); nel 1971 Il romanzo di Mbuy; nel 1975 L’età del ferro. In tutto, quindi, sette romanzi che diventano di più se si considerano anche i rifacimenti, le riscritture a cui venivano sottoposti dall’autore. Il romanzo dunque è la misura ideale di questo scrittore, perché qui ha modo di manifestarsi pienamente la sua abilità nella costruzione di robusti impianti narrativi, nel ritmo serrato, nell’uso sapiente e insistito del dialogo, nell’analisi, a volte anche troppo sottile, dei personaggi. Anche la scrittura scabra e asciutta, che così poco concede a indugi descrittivi o calligrafici, si adegua perfettamente alle vicende narrate.

            Dopo Il canale, Paolo pubblicherà soltanto racconti sparsi e l’altro libro che ho  citato poc’anzi. Nel 1966, nell’antologia scolastica da lui curata insieme con Mario Sansone, Narratori di Puglia e Basilicata[4], figurano tre suoi racconti, mentre due altri sono presenti nel volume del 1969, Prosatori e narratori pugliesi del Novecento[5], curato da Ferruccio Ulivi e Elio Filippo Accrocca. Nel 1971 esce appunto I millepiedi e altri animali, in una collana scolastica dell’editore Mursia.

            Salvatore Paolo muore a Carmiano il 30 settembre 1976, stroncato da un tumore allo stomaco.

            Dopo la morte, lo scrittore è stato ricordato da alcuni studiosi, come Michele Dell’Aquila, Gianni Custodero, Michele Tondo, Donato Valli in panorami della cultura letteraria pugliese e salentina[6], ma è stato soprattutto Giovanni Bernardini a tenerne desta la memoria con alcuni interventi, fra cui il primo pubblicato sul “Quotidiano” di Lecce[7]. E fu proprio Bernardini, a cui sono legato da una lunga amicizia, che mi diede lo spunto a occuparmi di Paolo. Così nel 1984, dopo una visita a casa dello scrittore, a Carmiano, dov’è conservato l’Archivio, e una lettura di tutti i suoi romanzi inediti, pubblicai una nota su Paolo con un suo brano, tratto dal racconto Frido, sulla rivista “L’immaginazione”[8], e subito dopo decisi di dare alla luce un intero romanzo, I Fibbia, sulla rivista “SudPuglia”, grazie anche alla sensibilità del suo direttore Aldo Bello. Sul numero 4 del dicembre 1984 uscirono dunque I Fibbia accompagnato da una mia Storia de “I Fibbia”  e da un profilo tracciato da Bernardini, dal titolo, Approccio a un narratore salentino: Salvatore Paolo. Sulla rivista “L’immaginazione”, nel 1995, uscì anche un articolo di Maria Corti, dal titolo Un fantasma salentino[9]. Oltre a I Fibbia, dopo la morte di Paolo videro la luce soltanto i racconti  Venditore di posti[10] e La morte di Valiò [11].

            Bisogna aspettare il 2004 perché Mario Calcagnile incominciasse la sua opera di recupero e di valorizzazione dell’opera di Paolo con la pubblicazione del Canale, che due anni dopo viene ristampato con una breve presentazione di Nicola Carducci, uno dei primi recensori del romanzo quando apparve nel 1962. Nel 2005 escono inoltre L’età del ferro, l’ultimo dei romanzi di Paolo, completamente inedito, con una prefazione di Giovanni Invitto, e I Fibbia, con una mia presentazione.

            Ecco, questa è la situazione editoriale dello scrittore a tutt’oggi. Restano quindi da pubblicare gli altri romanzi inediti, da ripubblicare I millepiedi e altri animali e da raccogliere i racconti sparsi. E speriamo che ciò possa davvero avvenire quanto prima perché l’opera di Paolo, come di qualsiasi altro scrittore di una certa importanza ovviamente, deve essere considerata alla stregua di un bene culturale da  salvaguardare e valorizzare. Per questo essenziale è il sostegno delle istituzioni, il Comune di Carmiano innanzitutto, ma anche la Provincia di Lecce, la Regione Puglia e altri eventuali sponsor, che potrebbero promuovere una Giornata di studi dedicata a Paolo con la presenza anche di studiosi di altre parti d’Italia e poi con la pubblicazione degli Atti. Inoltre è opportuno conservare attentamente il materiale dell’Archivio, procedendo a un inventario di esso, di fondamentale importanza per poter studiare questo scrittore.

            Ma passiamo ora ad esaminare, sia pure rapidamente, le opere di Salvatore Paolo insieme con le vicissitudini editoriali che le hanno sempre accompagnate. E a questo proposito si rivelano preziosi alcuni carteggi, in particolare quello con il narratore pugliese Nino Palumbo che abbiamo ricostruito integralmente recuperando le copie delle lettere di Paolo grazie alla gentilezza della vedova Palumbo. Il carteggio con questo scrittore, che gli fu fatto conoscere proprio da Bernardini, è in assoluto il più consistente (va dal 1959 al 1974), ma anche quello più ricco di indicazioni e risulta fondamentale  per ricostruire l’attività letteraria di Paolo. Ma ugualmente interessanti risultano anche gli scambi epistolari con la signora Giancarla Mursia, proprietaria dell’omonima casa editrice, e con alcuni critici come Giorgio Barberi Squarotti, Giuliano Manacorda e Ettore Mazzali. Anzi mi proverò a tracciare un profilo di Salvatore Paolo in questa occasione principalmente attraverso la corrispondenza conservata nell’Archivio dello scrittore.

            Dunque, abbiamo detto che dopo aver completato I Melcari nel 1947, Paolo negli anni successivi rielaborò questo romanzo portando a termine nel 1956-‘57 Il canale. Nel 1959 quest’opera venne segnalata come inedito al Premio “Città di Bari” da una giuria di cui facevano parte nomi prestigiosi della letteratura contemporanea come Bonaventura Tecchi e Adriano Grande. Subito dopo Paolo si mette alla ricerca di un editore. Prova con Feltrinelli, Bompiani, Rizzoli ma senza risultato. Poi, seguendo un consiglio di Palumbo, spedisce una copia del dattiloscritto alla redazione della casa editrice Nuova Accademia e il 30 maggio del 1962 ottiene una risposta di Ettore Mazzali che gli accennava già a un accordo per la pubblicazione. Allora Paolo il 14 giugno 1962 scrive a Palumbo ringraziandolo per l’interessamento con queste significative parole:

Quanto a te, non so come esprimerti la mia gratitudine per quanto stai facendo per me. Ti confesso, caro Nino, che il muro di silenzio che mi si era chiuso intorno mi aveva dato tanta amarezza che non speravo più in nulla. Perciò ti dicevo nella mia prima che ormai continuavo a scrivere solo per un bisogno spirituale. Tanto più insperata e forse non meritata  mi giunge ora la mano che tu mi porgi. Ma voglio assicurarti sin d’ora che, qualunque sarà il risultato di questo tuo interessamento, considererò il tuo aiuto sempre come una prova di vera amicizia da parte tua.

            Così nel 1962 finalmente esce Il canale presso la Nuova Accademia di Milano e suscita un certo interesse con le recensioni positive, in campo nazionale, di critici come Giuliano Manacorda, Mario Lunetta e altri e, nel Salento, di Nicola Carducci. Il canale si inserisce nettamente nel filone del neorealismo, per la volontà dell’autore di rappresentare una precisa realtà senza deformazione e con uno spirito di denuncia di certe situazioni sociali. In particolare, si colloca in quella linea meridionalistica del neorealismo che può contare su tanti nomi illustri di narratori, da Jovine a Silone ad Alvaro a Bernari, i quali hanno come lontano capostipite il Verga. Dicevo all’inizio che bisogna tenere conto che questo romanzo, che può sembrare arretrato rispetto alle vicende letterarie dell’epoca, deriva da I Melcari, completato nel 1947 e fu poi portato a termine nel 1955-‘56. In ogni caso esso presenta  anche elementi di novità rispetto ai canoni neorealistici.

            Intanto vediamo quali sono le caratteristiche. Il canale narra una vicenda ambientata in un paese del Salento, che non è difficile individuare in Carmiano, durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Al centro della storia  c’è una famiglia di poveri caprai, i Mangialerba, che richiama il nome dei  Malavoglia verghiani, ma qui Paolo abbandona la poetica dell’oggettività per sostituirla con la narrazione in prima persona che gli permette di vedere fatti, uomini e cose, attraverso la sensibilità e il punto di vista della protagonista, Assuntina. E questo è un elemento di novità rispetto al neorealismo, come dicevo.

            Nel romanzo quindi è rivolta l’attenzione sia all’aspetto sociale sia alle psicologie, ai drammi individuali. La società meridionale di quegli anni è vista da Paolo rigidamente divisa tra i ricchi e gli oppressi, gli umili. In mezzo ci sono i “sanguisuga”, gli approfittatori. Sullo sfondo, le vicende storiche di quegli anni: la seconda guerra mondiale, la presenza dei sindacati e dei partiti politici, l’occupazione delle terre dell’Arneo. Per mancanza di tempo non posso fare qui un’analisi minuziosa di questo come delle altre opere di Paolo, ma dirò solo che questo romanzo venne apprezzato anche da uno dei maggiori narratori del Novecento, lo scrittore fiorentino Vasco Pratolini, il quale, dopo la pubblicazione del romanzo, scrisse una lunga lettera a Paolo complimentandosi con lui, anche se esprimeva qualche riserva.

            Dopo Il canale Paolo nel 1960 portò a termine un’ altra opera, Innamorati e dritti, poi divenuto Lia, che si colloca su questa stessa linea realistica. Ne dava notizia all’amico Palumbo con una lettera del 4 marzo 1960:

Il romanzo (il cui titolo è “Innamorati e dritti”) è già finito da più d’ un mese. È un romanzo breve, anche se un po’ più lungo del primo. Ho scritto a Bompiani se desideravano leggerlo e mi hanno risposto che sono impegnati per tutto il 1960 e parte del ‘61. Ho scritto a Feltrinelli (alla casa) e non ho avuto risposta. Ho scritto a Venturi e niente […] In ogni modo penso di partecipare al “Deledda”.

In effetti nell’Archivio dello scrittore, a proposito di questo romanzo, risultano anche altri contatti senza esito con  editori come Rizzoli e Longanesi. Lia dunque si colloca nel filone neorealista del Canale, è ambientato, come quello, in un paesino del Salento nel periodo tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra, ma più che  problemi di tipo sociale narra vicende sentimentali, anche se non manca nemmeno qui uno sguardo dell’autore agli avvenimenti di quel tempo.

            Tra il 1960 e il ‘62 Paolo si chiude in un profondo isolamento. Anche il carteggio con Palumbo si interrompe, ma in questi due anni lo scrittore porta a termine un nuovo romanzo che rappresenta una svolta nella sua narrativa. A mio avviso, si tratta della sua opera più riuscita e originale, I Fibbia, che nella prima stesura era intitolato Il picchio al portone. Così scriveva a Palumbo il 27 aprile 1962, dopo essersi giustificato con lui del suo lungo silenzio:

            In effetti, come ho accennato prima, I Fibbia segna una svolta nella narrativa di Paolo perché qui egli abbandona il neorealismo e si inserisce in un filone più problematico e moderno del romanzo novecentesco, che ha nel nome di Kafka soprattutto ma anche in Pirandello, Svevo, Tozzi, Camus, Buzzati i suoi rappresentanti maggiori. Questo fatto mise un po’ in allarme Palumbo che invece voleva che Paolo proseguisse sulla strada del realismo. Allora Paolo così gli scriveva in una lettera del 30 maggio 1962:

            La verità è che non volevo far più nulla e mi sono isolato per due anni. Ma l’isolamento ha portato, contro ogni mia aspettativa, il suo frutto ed è venuto fuori un nuovo romanzo che forse rispecchia questo mio nuovo stato d’animo. S’intitola Il picchio al portone e l’ho finito in questi giorni. veramente attende ancora qualche rielaborazione, ma siccome nel frattempo è arrivato il bando del Premio Deledda, l’ho battuto così com’è e ho deciso di mandarlo.

Più avanti, nella stessa lettera, informava l’amico scrittore di certi cambiamenti che erano avvenuti in lui: “Di me ho da dirti che sono diventato indifferente a molte cose. Sono cambiati anche i miei gusti letterari, il neorealismo non mi attira più […] E questo mutamento spirituale è stato forse la causa principale del mio isolamento”.

È esatto che il mio nuovo orientamento estetico è d’ispirazione kafkiana, perché la lettura di Kafka ha esercitato su di me una forte influenza. […] Comunque io non credo che lasciarsi influenzare da un autore (da un grande autore, dico) sia un male. Non c’è niente di male che uno faccia propri i mezzi espressivi di un altro scrittore quando sente che corrispondono al proprio mondo poetico. L’importante è che appunto questo mondo sia originale e non sia una ripetizione di quello del quale si sian preso a prestito i mezzi espressivi. Del resto anche essere sulla linea del realismo, come di qualunque altro indirizzo, comporta necessariamente l’uso di determinati mezzi espressivi che [sono propri di altri] autori. Quanto poi alla linea kafkiana che sarebbe oggi “finita come formula valida”, io credo che nessuna formula, in quanto tale finisca mai d’essere valida, e anche la formula realistica è e rimarrà, come formula, sempre valida […]. Io dico semplicemente che le formule sono i mezzi che uno si sceglie per esprimersi, e sono tutte buone quando sono sentite. Se uno poi riesca o non riesca a dire quello che vuol dire, questo è un altro discorso ed è quello che tocca il fondo della questione.

Nella lettera del 5 novembre 1962 poi così precisava, quasi scusandosi per queste scelte invece così innovative:

Colgo questa occasione per comunicarti che l’altro ieri ho spedito a Mazzali il mio ultimo lavoro che non s’intitola più Il picchio al portone ma I Fibbia. L’ho riveduto tutto ed è cresciuto di pagine, per cui non è più precisamente come l’hai letto tu, e credo che in questo modo s’è venuto attenuando anche il sapore kafkiano. Del resto io penso che all’infuori di questo elemento, non c’era altro che tu disapprovassi o su cui non fossi d’accordo. E voglio aggiungere anche un’altra cosa che ho detto pure a Giovanni [Bernardini]: che quella chiave mi ha permesso di scrivere il romanzo che diversamente non usciva e forse non sarebbe mai uscito.

            Anche qui lo sfondo su cui si svolgono le vicende resta sempre un piccolo paese del Sud, ma cambia completamente il metodo d’indagine seguito dallo scrittore il quale ora non è più interessato ai problemi sociali della sua terra, come nel Canale, o a vicende sentimentali dei personaggi, come in Lia, bensì alle strutture profonde che sono alla base della sua società, alle convenzioni, ai codici che regolano una piccola comunità e che a volte limitano la libertà individuale e soffocano l’autenticità dei sentimenti. E infatti qui il tema principale è proprio il contrasto tra individuo e società. Non a caso, come ho avuto modo di scrivere, in questo romanzo, vengono sviluppati i motivi tipicamente novecenteschi, della estraneità, dell’inettitudine attraverso la figura del protagonista, don Gegè, il quale interviene nella storia quasi per caso e poi ne resta come impigliato. Don Gegè è un inetto, incapace di vivere secondo le  regole della “buona società paesana”, un antieroe che alla fine preferisce continuare a vivere nella solitudine piuttosto che accettare compromessi.

            L’antagonista, o meglio, gli antagonisti di don Gegè sono i Fibbia, una straordinaria invenzione di Paolo, che fa luce però su certe strutture profonde della società meridionale, come quello che è stato chiamato da un antropologo inglese il “familismo amorale”. I Fibbia rappresentano l’opposto di don Gegè, cioè il rispetto delle convenzioni sociali, delle norme fino al punto da diventare oppressori di coloro che non si adeguano ad esse. I Fibbia, com’è noto per chi ha letto il romanzo, sono un raggruppamento di individui legati tra di loro da vincoli di parentela, cioè un vero e proprio clan familiare che aveva il compito di regolare i rapporti sociali nella comunità. Essi perciò hanno determinate caratteristiche, come la compattezza, la solidarietà, pensano e agiscono nello stesso modo al punto da sembrare dei cloni, uno perfettamente uguale all’altro.

            Ebbene, questo romanzo di Paolo andò più vicino di ogni altro alla pubblicazione. Nel 1964 Mazzali l’aveva proposto per la collana “Le quattro stagioni” della Nuova Accademia, la quale però venne meno per la cessazione dell’attività della casa editrice. L’anno successivo Barberi Squarotti, in qualità di consulente di Mursia, giudicava pubblicabile il romanzo dopo che lo stesso autore gli aveva dovuto chiarire le sue intenzioni, ma anche stavolta non si fece niente. Ancora nel 1967 Guido Macera scriveva a Paolo che era disposto ad accogliere il suo romanzo nella collana “Parallelo 40” dell’editore Cappelli, ma anche qui senza alcun esito.

            Ma andando rapidamente avanti, anche L’attesa, il romanzo che Paolo scrive dopo I Fibbia, si colloca in questa linea, cioè nella linea di una narrativa più problematica e inquietante rispetto a quella neorealista. Qui, ad esempio, c’è la descrizione di una società in profonda trasformazione nella quale restano alcuni residui arcaici che sembrano ormai privi di senso. Per questo il tono dominante in quest’opera è il grottesco e i modelli a cui Paolo si ispira, a mio avviso, sono altri protagonisti della modernità letteraria e teatrale, come Beckett e Jonesco, i due maggiori rappresentanti del cosiddetto “teatro dell’assurdo”. Al centro della vicenda c’è sempre il paese con le sue consuetudini, i suoi personaggi, ma è come se il normale meccanismo della vita di ogni giorno si fosse inceppato. Anche qui, come nei Fibbia, c’è un avvenimento mancato che dà origine alla vicenda: lì un mancato matrimonio, qui un mancato fidanzamento ufficiale. Il romanzo allora si trasforma in una ricerca, o meglio in un tentativo di ricerca, da parte della protagonista, del fidanzato scomparso. Questo dà modo a Paolo di delineare un ambiente e certi costanti antropologiche di questo ambiente. Come nei Fibbia, non c’è più alcun interesse  per l’aspetto sociale, le condizioni di vita delle classi subalterne, i problemi del lavoro, i conflitti di classe. L’attenzione va ora ai rapporti interpersonali, ai ruoli ricoperti da ciascuno all’interno di quella società. Tutto sembra svolgersi però all’insegna dell’assurdo, del  nonsense. Siamo perciò assai lontano dai canoni della narrativa realista, a cui però Paolo si riavvicina con i racconti e le opere successive.

            A questo proposito è singolare che, mentre Paolo era impegnato nella ricerca di nuove strade, Palumbo lo consigliasse a proseguire sulla via del realismo, come gli scriveva in una lettera del 24 maggio 1963: “Manacorda è un uomo molto serio e spero che vorrai ascoltare il suo indiretto consiglio a scrivere ancora di narrativa ‘realistica’. Come ebbi occasione di dirti a voce, mi pare che sia la strada a te più congeniale, e poi abbiamo bisogno di narrativa meridionalistica”. E in un’altra lettera ancora del 21 marzo 1964, nella quale gli chiedeva un racconto per un’antologia che doveva curare per Laterza: “Deve essere un racconto realistico, che dia uno spaccato della condizione sociale ed umana del nostro Sud”. Non capiva, Palumbo, che Paolo, scegliendo una strada diversa, riusciva a dare una rappresentazione molto più profonda del Sud, perché in tal modo emergevano le costanti antropologiche del Meridione, la mentalità, i costumi, le tradizioni della gente del Sud.

            Ed è assai significativa la lettera che lo scrittore di Carmiano scrive un po’ risentito all’amico il 15 agosto 1964, dopo che questi gli aveva espresso le sue riserve sul racconto, intitolato Frido, che gli aveva mandato per l’antologia. Questo infatti, secondo Palumbo, si muoveva “in un’atmosfera quasi da favola”, mentre gli ripeteva di aver bisogno di un racconto che “dia una condizione del nostro Sud di oggi” (lett. del 2 agosto 1964). Ma ecco che cosa gli rispondeva Paolo, dimostrando una sicura coscienza del suo lavoro:

Caro Nino,

come mi hai suggerito, sto lavorando a un secondo racconto. Tuttavia devo dirti che il sud che ti ho proposto in “Frido” è il vero Sud di oggi (almeno quello del Salento che è poi l’unico che io conosco e che devo rappresentare). E’ vero che mi son servito di una “favola” (ma non dovevo fare un racconto?) per aprirmi una via, ma intorno a essa girano tutti i motivi essenziali della realtà del Sud di oggi: L’esodo dei contadini dalla campagna, il disamore per essa dei giovani attratti dal miraggio dell’emigrazione al Nord o all’estero, la crisi dell’agricoltura con la più drammatica delle sue espressioni, quella dell’industria vinicola; il ritorno degli emigranti pieni di soldi (i Dadda!) con le loro ambizioni piccolo-borghesi miranti ad accaparrarsi la roba dei vecchi proprietari dissanguati, la minacciosa avanzata delle costruzioni che ingoiano le campagne; l’irrompere di una nuova società spregiudicata e senza scrupoli, la società delle “teste di lucertola” di Memo Memi e di sua moglie con l’esercito delle sue figlie: una società da cui uomini onesti e alla buona come massaro Carmine vengono travolti e schiacciati. In questo quadro il cavallo non è immagine oziosa o pittoresca o evasiva, ma è esso stesso un personaggio o mondo, del peso di un massaro Carmine o di un Bruno o di un Memo Memi. Il cavallo è uno dei simboli più caratteristici del vecchio Sud rurale che va scomparendo, e la fine del cavallo rappresenta, per noi che di questa violenta trasformazione siamo i testimoni diretti, la fine stessa del vecchio Sud. Da qui l’attaccamento quasi irragionevole di massaro Carmine a esso. Del resto la storia del cavallo è il pretesto per penetrare nel cuore di quella realtà; nel contrasto cioè tra il vecchio e il nuovo, tra il cavallo e la motozappa di Marco Raeli: una gara in cui la sorte del cavallo e di massaro Carmine è segnata. Massaro Carmine col suo Frido è, rispetto al vecchio Sud, un po’ come (con le dovute distanze!) è don Chisciotte col suo Ronzinante rispetto al mondo cavalleresco. La rivoluzione economica e sociale ha investito in pieno ormai anche noi, e i lettori critici di Laterza dovrebbero conoscere questa nuova realtà così come la conosco io che ci sono immerso fino ad affogare. Comunque, dopo alcuni giorni di ricerca, ho avuto un’altra idea e ci sto lavorando sopra.

            Per completare questa vicenda, dirò che Paolo invia a Palumbo un nuovo racconto, Venditore di posti, che stavolta gli piace, anche se  poi l’antologia per Laterza non si farà più.

            Ma per continuare ancora rapidamente nella delineazione dell’attività di Paolo, prima di passare agli ultimi due romanzi, vorrei dire qualcosa su I millepiedi e altri animali che pubblica nel 1971 in una collana scolastica della casa editrice Mursia. Si tratta di trentadue favole dedicate ad altrettanti animali, unite da una costante, la presenza dell’uomo, che dà unitarietà a quest’opera, giudicata frammentaria dalla signora Mursia quando Paolo gliela mandò la prima volta. E questo fatto richiama, alla rovescia, un’opera importante del nostro Novecento, Bestie di Federigo Tozzi, dove invece la costante dei vari “frammenti” raccolti nel libro è rappresentata dalla presenza di un animale. Qui emerge la visione pessimistica della vita di Paolo, che cambia il punto di vista e fa vedere tutta la crudeltà, la violenza, la cattiveria, l’egoismo degli uomini dalla parte degli animali.

            Nel 1971 porta a termine Il romanzo di Mbuy, una delle sue opere più riuscite, che narra una delicata storia d’amore tra due giovani, Teresa e Berto, dalla fanciullezza fino alla laurea e al matrimonio. Qui il personaggio più riuscito, ancora una volta, è quello della protagonista, Teresa, che, fin da piccola, ama raccontare le storie che legge e poi, da grande, le inventa e le scrive lei stessa. Tra queste c’è la storia di Mbuy, che è il nome di una ragazza negra, quasi un romanzo dentro il romanzo, speculare della stessa storia di Teresa. Quest’opera ebbe la stessa sorte degli altri romanzi di Paolo ma venne particolarmente apprezzata da Giancarla Mursia che in due lettere fa dei riferimenti lusinghieri per lo scrittore di Carmiano. In quella del 24 giugno 1971 scrive così:

Il romanzo si inserisce nettamente sulla linea della letteratura meridionalistica e a tratti fa pensare a Seminara e a Vittorini per l’aderenza (soprattutto nel linguaggio) alla realtà e al tempo stesso per un suo sottile lirismo. I personaggi essenziali sono tutti tratteggiati con grande maestria e campeggiano con bel risalto sulla folla curiosa e pettegola del piccolo paese. In sostanza si tratta di un bel romanzo e, ad esempio, la figura di Teresa non ha nulla da invidiare alle ‘Anne’ di Carlo Cassola. Purtroppo però il libro non è adatto ai ragazzi sia perché manca di una trama avvincente sia perché dopo i primi capitoli ha inizio l’amore di Teresa per Berto: un tema analizzato a fondo, ma che è estraneo ai ragazzi, soprattutto per il modo con cui è trattato. È il classico libro che piace a noi ma non ai ragazzi. In sostanza resta un libro per adulti che per la sua pulizia e il suo tono – con i tempi che corrono – sarebbe un fiasco. È un ottimo libro che non sappiamo dove collocare.

            In un’altra del 2 febbraio 1972 chiarisce ancora meglio la logica delle scelte delle case editrici:

Purtroppo i tempi che viviamo non concedono molto spazio alla letteratura che non sia… utilitaristica, che abbia cioè un suo esito commerciale se non sicuro, altamente probabile. Noi abbiamo sospeso tutti i programmi di narrativa e di poesia, nell’attesa di giorni migliori. Ci tengo a dirLe, in ogni caso, che Lei è uno dei non molti capitati qui, che sa scrivere. forse è proprio per questo che ha difficoltà a trovare una strada, cioè un editore.

            Poi Paolo tenta anche con Rizzoli attraverso Mazzali che si rivolge a Sergio Pautasso consulente della case editrice, ma anche qui va male. Mazzali infatti gli scrive così il 21 novembre 1972:

Carissimo, io e Ferrante abbiamo fatto il possibile. Pautasso loda il romanzo ma teme la struttura diciamo neo-realistica, oggi poco gradita. È il suo un discorso assolutamente commerciale: non appartiene al libro, ma editorialmente lo blocca. Mi dispiace…

            L’ultimo suo romanzo, che risale al 1975, è L’età del ferro, pubblicato, come s’è detto, dalle Edizioni Calcangeli nel 2005 con una prefazione di Giovanni Invitto. Anche qui, al centro della vicenda c’è una storia d’amore tra Giulio e Rosaria, la quale si svolge sullo sfondo delle vicende post sessantottesche (la contestazione studentesca, i movimenti religiosi influenzati dal Concilio Vaticano II), tra la fine del mondo agricolo e patriarcale, di cui il rappresentante è Padron Pompilio, il padre di Giulio, e una nuova società che sta nascendo, rappresentata nella parte positiva da Rosaria, una giovane donna anticonformista e aperta al nuovo, e da don Giovanni, un giovane prete “conciliare”. Nella parte negativa invece il simbolo è un’autocarrozzeria, che viene aperta a pochi metri dalla casa della coppia e  produce un rumore insopportabile e continuo disturbando i protagonisti del romanzo. Essa  è la metafora di un mondo ormai disumanizzato (“l’età del ferro” appunto) che ha perso i suoi valori più autentici e si avvia verso la fine. Non a caso il romanzo termina tragicamente con la morte del protagonista durante un alterco col proprietario dell’autocarrozzeria. Questa forse è l’opera più cupa e pessimista di Salvatore Paolo che riflette lo stato d’animo dell’autore ormai gravemente malato e destinato a scomparire l’anno successivo.

[Testo della conferenza tenuta a Carmiano il 13 luglio 2007 in occasione della cerimonia di intitolazione della Biblioteca Comunale a Salvatore Paolo; poi in A.L. Giannone, Modernità del Salento, Galatina, Congedo, 2009]


[1] Milano, Nuova Accademia, 1962.

[2] Milano, Mursia, 1971.

[3] G. Bernardini, Il romanzo contadino di Salvatore Paolo, in “Quotidiano”, Lecce, 6 febbraio 1980.

[4] Milano, Mursia, 1966.

[5] Bari, Adriatica, 1969.

[6] Cfr.: M. Dell’Aquila, Parnaso di Puglia nel ‘900, Bari, Adda, 1983, pp.146-147; G. Custodero, Puglia letteraria nel Novecento. Poeti e prosatori, Ravenna, Longo, 1982, pp. 135-136; M. Tondo, Profilo della narrativa salentina, in “Sallentum”, a. II, nn. 1-2, gennaio-agosto 1979, pp. 107-113; Novecento letterario leccese, a cura di D. Valli e A. G. D’Oria, Lecce, Manni, 2003.

[7] Cfr. G. Bernardini, Il romanzo contadino di Salvatore Paolo, in “Quotidiano”, cit. Sullo stesso numero v. anche F. MARTINA, La volontà di resistere.

[8] S. PAOLO, Dal buio, un cigolio di uscio, con una presentazione di A. L. Giannone, in “L’immaginazione”, 25 marzo 1984.

[9] M. CORTI, Un fantasma salentino, in “L’immaginazione”, n. 121, giugno-luglio 1995, p. 22.

[10] S. PAOLO, Venditore di posti, in 2° Premio “Giovacchino De Giorgi”, Lecce, Arte Grafica, 1978, pp.23-49.

[11] ID. , La morte di Valiò, in Narratori salentini, a cura di A. G. D’Oria, Galatina, Editrice Salentina, 1987, pp. 13-16.

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