Cesare Giulio Viola poeta (Parte prima): Viola e i crepuscolari romani

Cesare Giulio Viola (Taranto, 1886 – Positano, Salerno, 1958) compie gli studi nella città natale fino al conseguimento della maturità classica presso il Regio Liceo-Ginnasio «Archita». Nel 1903 si iscrive all’Università di Roma dove si laurea in Giurisprudenza, ma qui frequenta soprattutto gli ambienti letterari e artistici entrando ben presto in contatto con il gruppo crepuscolare. Successivamente si dedica prevalentemente all’attività teatrale, affermandosi come uno dei commediografi di maggior successo operanti in Italia dagli anni Venti ai Quaranta. Tra le sue numerose commedie ricordiamo: Il cuore in due (1926), Fine del protagonista (1931), “Quella” (1933), Poveri davanti a Dio (1947), Vita mea (1950), Nora seconda (1954).  Viola  ha collaborato anche, come critico drammatico, a vari periodici e dal 1926 al 1931 è stato redattore capo della “Nuova Antologia”. Ha pubblicato inoltre i romanzi Pricò (1924), Quinta classe (1953) e Pater (1958), due raccolte di novelle, Capitoli (1922) e Perché? (1946), e ha scritto  alcune sceneggiature per vari registi italiani. In particolare ha collaborato con Vittorio De Sica alla realizzazione di due film, I bambini ci guardano (1943), tratto dal suo Pricò,  e Sciuscià (1946).

            Numerosi, come s’è detto, sono gli scritti memoriali e i contributi che lo menzionano, insieme a tanti altri, tra gli amici di Corazzini, tutti puntualmente  ricordati dalla Villa[5]. Oltre a questi, però, se ne possono aggiungere anche altri più specifici.  Preziosa innanzitutto è  la testimonianza di Lucio D’Ambra che nel 1929, tracciando un ritratto di Viola, allora  agli inizi della sua carriera di commediografo e di romanziere, così scriveva a proposito dei primi anni romani del giovane scrittore:

            Uscito dalla soggezione paterna e da un mondo di scavi e di musei, di statue e di colonne, venuto a Roma per laurearvisi avvocato, Viola volta le spalle ai libri e corre alla vita. Si getta sùbito, anima e corpo, in un gruppo di giovani poeti. Più che conoscerla dai libri, vuole vita ed uomini conoscer da sé, direttamente, coi suoi occhi, nel suo cuore […]. Erano gli anni d’anteguerra in cui a Roma i decadenti francesi echeggiavano ancora, tra misticismo e rinunzia, nei così detti «poeti crepuscolari» della giovane scuola italiana. Erano costoro, nei caffè del Corso o di via Condotti, i quotidiani amici, gli inseparabili sodales del giovane romanziere. Tuttavia la sua robusta sanità provinciale e antiletteraria lo difendeva dal contagio della loro ipersensibile morbosità che si divideva ancora tra l’insufficiente ardore di un’alcova viziosa e il vano anelito mistico ai piedi d’un altare. Di là da questo stato d’animo d’un momento letterario in cui agonizzava, con pallide voci e morenti sospiri, il romanticismo pervertito e svuotato dal suo sangue generoso ed ardente, il Viola guardò, nel suo spirito, nel suo cuore, lo spettacolo della vita cercandovi e trovandovi, senza scuole letterarie e servitù di programmi, un suo personale senso del mondo[6].

            Nel 1950 inoltre, il critico teatrale Nicola Porzia  incominciava così  un articolo su Viola, rievocando proprio i suoi lontani esordi poetici:

            Il nome di Cesare Giulio Viola affiorò una delle prime volte nell’elenco dei collaboratori de «La vita letteraria»: una rassegna la quale, se non ebbe importanza dal punto di vista dell’arte e della critica, funzionò egregiamente, nel primo decennio del corrente secolo, come centro di raccolta e smistamento di un folto gruppo di giovani scrittori.

            Nell’elenco Cesare Giulio Viola figurava titolare di una rubrica «Lettere provinciali», perché in quel torno di tempo la provincia era la gran moda della della letteratura nostrana. Forse per questo: forse perché le prime liriche del Viola ― L’altro volto che ride ― furono pubblicate dall’editore Ricciardi quasi contemporaneamente alla raccolta dei versi di Sergio Corazzini e di Fausto Maria Martini, i fratelli maggiori dei poeti cosiddetti provinciali o intimisti o crepuscolari; forse perché lo stesso Viola fu visto deambulare nelle ore piccole, o far merenda in alcune caratteristiche osterie romane in compagnia di quei due amici e di altri i quali, appunto, si provavano a riecheggiare, più o meno felicemente e con notevole ritardo, Rimbaud e Rodenbach, Verlaine e Samain, Jammes e Laforgue; forse per tutti questi esteriori accostamenti messi insieme, i critici orecchianti e scansafatiche non esitarono ad assegnare all’adolescente Viola un posticino fra gl’intimisti di belle speranze. «Dimmi con chi pratichi e ti dirò chi sei».

            Ma Viola, anche allora, un crepuscolare non era […]. Basta dare uno sguardo al volumetto L’altro volto che ride e alle prime narrazioni in prosa del Viola per accorgersi che quelle iniziali espressioni d’arte ― solidamente costruite e oltremodo evidenti per precisione di colori e impeto lirico ― nulla hanno di comune con le composizioni commoventi sì, ma invertebrate ed evanescenti dei nostri intimisti[7].

            Come si vede, entrambe queste testimonianze sono concordi nell’inserire Viola nella cerchia corazziniana, ma anche a sottolineare le differenze di fondo esistenti tra la poetica crepuscolare e la sensibilità dello scrittore tarantino. A questo riguardo anzi Porzia, nel suo scritto, arriva a sostenere che «Viola mentalmente, spiritualmente e oso dire anche fisicamente, è un soggetto anticrepuscolare per eccellenza»[8].

            Lo stesso scrittore, d’altra parte, ha rievocato varie volte  quella giovanile stagione, soffermandosi in particolare  sui tre maggiori esponenti del gruppo crepuscolare romano, ai quali egli era maggiormente legato, vale a dire Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, che erano anche suoi coetanei,  e Tito Marrone. Del primo, incominciò a occuparsi già un anno dopo la scomparsa,  in un articolo dall’ eloquente titolo La necessità di morire, pubblicato su un periodico tarantino purtroppo irreperibile, «La Tribuna Pugliese», al quale collaborò tra il 1907 e il 1908.  Qui scrisse che conobbe Corazzini quando entrò a far parte della redazione delle “Cronache latine”, rivista ultradecadente e rivoluzionaria, per un poemetto che non vide mai la luce, poiché l’effemeride tra il dileggio e l’ironia della terza sala d’Aragno, morì al terzo numero uccisa da un sonetto wagneriano di Donatel Zarlatti, che sin d’allora rivelava quelle tendenze che l’han condotto qualche mese fa al manicomio. […] Si era ― continua Viola ―  un gruppo di giovani armati di entusiasmo e di ironia, irriverenti verso i vecchi, convintissimi di possedere un grande valore e di essere destinati a un grande avvenire (i superstiti non sono per nulla cambiati), disdegnosi del facile plauso, se non altro persone di ottimo gusto che stimarono più colui che sa ideare una bella lirica di chi, commerciando in generi diversi, possa aspirare al non commendevole titolo di Re dei latticini[9].

Più avanti accennava per la prima volta alle singolari abitudini del gruppo:

            La sera, immancabilmente, ci si trovava da Aragno, donde in folta comitiva si partiva per lunghe passeggiate, peregrinando per le località più strane e deserte di Roma: i dintorni del Foro, S. Saba, l’isola di S. Bartolomeo…[10]

                Ma anche nel 1922 Viola tornò a ricordare l’amico scomparso in un lungo scritto, ben noto e spesso citato dagli studiosi del crepuscolarismo, dal titolo Sergio, dove d’altra parte emerge tutta la distanza che lo separava da Corazzini e dagli altri poeti della sua cerchia. Non a caso l’autore sottolinea in più punti la sua “diversità” rispetto a tutti loro («Un che di fiato corto, d’asma, di vecchiaia precoce, me li faceva intimamente diversi, direi quasi nemici»[11]), una sostanziale «incomprensione» reciproca con Corazzini («Noi non ci comprendemmo mai»[12]; «E richiesi ostinatamente a me stesso il perché della nostra irreparabile incomprensione»[13]), nonché  un «dissidio» tra loro due che resta fino alla sua prematura scomparsa («E mi parve che il dissidio tra me e Sergio s’illuminasse d’improvviso in quel nostro diverso destino»[14]).

            Fin dall’inizio inoltre emerge lo scetticismo e la diffidenza con cui Viola guardava agli altri componenti del gruppo a causa del loro atteggiarsi che gli sembrava intimamente falso. E infatti descrive con pungente ironia le consuetudini dei poeti (o «poetini» come li definisce) del cenacolo corazziniano, come  le declamazioni di versi al buio nella casa di uno di loro e i vagabondaggi notturni per le vecchie vie di Roma:

            Vivevano lui e gli altri in un immutabile bagnomaria spirituale. Mi pareva che un rammollimento collettivo li prendesse pian piano, certe sere, in cui si andava in comitiva per le vecchie vie di Roma, e ci si indugiava a sedere sugli orli delle fontane, nelle piazze solitarie e si dicevan versi. La mia anima ironica s’appuntiva e brillava in me come una miccia incendiaria. E a guardarmi quei cinque sei ragazzi che stavan lì, estatici, le mani in grembo, le gambe a cavalcioni, il naso all’aria, intorno ad un poeta che sciorinava alla notte il suo pianto lirico, io più non udivo le parole delle strofe […].

            E non osavo oppormi a taluni sdilinquimenti soavi che a volte facevan tremare, come ricotte, i cuori dei poetini. Si andava a S. Saba, a piedi, d’estate, scendendo per la via di Santa Sabina […].

            Macché! Quelli cantavano al buio e alla luce irrimediabilmente. Non credevo che al ritorno dai vagabondaggi notturni, a fissare, in gruppetto, traverso le grate d’una finestrella bassa, un lumino, come una stella, nell’ombra del soccorpo alla Galleria di S. Luca, si dovesse tremare fin nel fondo delle viscere[15].

            Poi il tono si fa più commosso nella rievocazione degli ultimi mesi di vita di Corazzini e della sua morte. Ecco allora l’ultima visita a Sergio steso «pallidissimo» nel suo letto:

            Mi strinsi al braccio d’un amico per salire le tue scale. Trepidavo. Ah! non oltre l’uscio che primo m’apparve di fronte, era la tua stanza; e quasi mi compiacqui che un corridoio lungo ritardasse la mia apparizione sulla tua soglia. Riconobbi, entrando, la finestra aperta: spalancata all’aria, al cielo. E Sergio vidi, pallidissimo, nel bianco dei lini e nella luce […]

            Con terrore, dal suo volto emaciato, dal suo collo sottile, dalle sue mani ceree sentivo diffondersi per la magrezza appena intravista di tutte le membra, quel suo pallore quasi trasparente.

            Come presi tra le mie le sue mani, a notar la mia pelle bruna di sole a contrasto, avrei voluto ritrarle, e celarle al suo sguardo; ma m’indugiai nella stretta, ché lui mi teneva, ora, quasi volesse, col mio calore, vincere nelle sue dita la diaccezza madida[16].

 E, alla fine, l’omaggio che gli rende nella camera funebre:

            Nella casa, sui letti intatti, riposavano i parenti; nella stanza da pranzo qualcuno scriveva indirizzi sulle grandi buste listate di nero; io fui solo nella camera funebre, vigilata dalla lampada, che sbatteva sbatteva come per entro s’avesse un cuore in pena;

            ― Che ho fatto io di te, dell’anima tua, del tuo dolore?

            Finalmente, ora, eravamo noi due, Sergio, faccia a faccia, per l’ultima volta[17].

            Ma Viola, come s’è detto, ha rivolto l’attenzione anche a due altri noti esponenti del gruppo crepuscolare romano, Martini e  Marrone, che continuò a frequentare anche dopo la scomparsa di Corazzini  e ai quali era accomunato  dall’attività teatrale.

            Di Martini, che gli dedicò due poesie[18], si occupò la prima volta in occasione della morte in un articolo nel quale ne rievocava  la figura e l’opera  sulla base dei ricordi personali. Passava così in rassegna i momenti principali della sua vita, dai tempi della esuberante giovinezza alla tragica esperienza della guerra, durante la quale venne gravemente ferito alla testa, fino alla produzione teatrale. Non manca, nemmeno qui, un fugace accenno a  Corazzini:

Fausto Maria Martini

            Si andava, allora, per le strade di campagna, verso santa Sabina, e c’era Sergio: ed era come un confessarsi cuore a cuore. Converrebbe tornare, per meglio comprenderlo e onorarlo alle pagine del suo ultimo libro, che è un pieno tuffo nella sua adolescenza perduta e non mai dimenticata[19].

            In un brano ricorda anche il periodo trascorso insieme a Martini a Città Ducale, in convento, per scrivere insieme l’atto unico Mattutino  nel 1907:

            Quando scrivemmo quel nostro primo atterello, il Mattutino, si andò a Città Ducale, a chiudersi in un convento, come se si dovesse liberare al mondo La figlia di Jorio. Ma gli piaceva tanto quel dormire in cella, e quel desinare assai modesto nel refettorio dei monaci. L’anno prima s’era portato Arturo Onofri ― un altro scomparso, anche lui ― cui nacquero, in quel convento, quei primi freschi accenti di natura che sarebbero fioriti, poi, nelle pagine di Arioso. Ma Arturo era inviso al frate cuciniere, poiché stava sempre chiuso nella sua camerella a spandere inchiostro, mentre Fausto ed io eran più l’ore che si passavano sul poggiolo al rezzo, che quelle dedicate alle fortune del teatro di prosa[20].

            Su Martini ritorna l’anno successivo delineandone un ritratto «a ciglio asciutto» e sostenendo che oltre che il fanciullino pascoliano, c’era in lui l’ «omaccio» cioè un «senso virile della vita»[21]. Alla fine lancia uno sguardo anche alla sua opera, in cui rinviene «un’ansia d’eterno: un affanno di contro al mistero: e un’attenzione meravigliata sul mondo, che dalla foglia d’erba sale fino alla stella»[22].

            In occasione del decimo anniversario della sua scomparsa, infine, pubblica un lungo scritto in cui riprende quasi per intero il pezzo precedente e successivamente si sofferma soprattutto sulla produzione teatrale e, in particolare, sulla commedia Il fiore sotto gli occhi, che, a suo parere, «era la sua migliore opera di teatro: quella in cui si era più precisamente segnata la sua malinconia e la sua ironia»[23].  


Tito Marrone

            Anche a Tito Marrone Viola dedicò vari articoli, contribuendo a farlo riscoprire dopo tanti anni in cui questo scrittore, vissuto in completo isolamento, era stato quasi dimenticato. In Tito Marrone scrittore segreto delineava un ritratto completo del vecchio amico, riconoscendogli apertamente la primazia tra i crepuscolari:

            Dopo i primi volumetti di liriche dell’adolescenza, che testimoniavano di una eccezionale perizia tecnica, egli era l’iniziatore di quella poesia donde più tardi sarebbero nati i Corazzini, i Palazzeschi; e tutti i poeti tra ironici e crepuscolari che ebbero in Guido Gozzano l’esponente maggiore. Nudrito di studi classici aveva, anche, tradotto l’Orestiade di Eschilo in collaborazione con Antonio Cippico, e gli spettatori del Teatro Argentina l’avevano acclamato alla ribalta. Molti lo conoscevano per aver letto sulle maggiori riviste italiane le sue liriche; e molti quale dicitore di versi, in quelle tornate che a quel tempo si usavano, dove i poeti che avevano un loro pubblico (beati loro!) si abbandonavano alla lettura dei loro componimenti[24].

            Ma qui Viola, più che della  poesia di Marrone, parla del suo teatro, che è «il teatro della provincia e della periferia delle grandi città, lì dove ancora si annida, staccata dagli interessi mondani, tutta legata alle nostre tradizioni familiari e ai nostri vecchi pensieri, quel mondo che molti chiamano ironicamente borghese»[25].

            In un breve articolo scritto dopo l’assegnazione all’amico del Premio Siracusa, si sofferma invece soprattutto sulla sua produzione poetica, narrando un episodio dal quale risulta che lo stesso Corazzini riconosceva  lealmente  di avere ripreso da Marrone certe tematiche, come quella delle maschere e delle marionette:

            Nei giorni scorsi è stato assegnato il premio internazionale Siracusa per la poesia a Tito Marrone. È un nome che pochi ricorderanno; eppure il Marrone è ben degno di essere conosciuto. Sergio Corazzini quando incontrava Tito Marrone si chinava e battendogli con un bastoncello tra ginocchio e ginocchio, gli chiedeva: ― Chi le farfalle coglie sotto l’Arco di Tito? ― E, una volta ― aveva da poco pubblicato il suo Libro per la sera della domenica ― gli si accostò e gli disse: «Sai… Io debbo scusarmi con te… Il mio Dialogo di marionette  è nato dalla tua poesia…». Tito lo abbracciò e gli rispose: «È nato dal tuo cuore, Sergio mio!»[26].

            Più avanti storicizzava l’esperienza poetica di Marrone, considerandolo un precursore dei crepuscolari perché aveva reagito tra i primi all’imperante dannunzianesimo:

            Partito da quel clima che fu definito dal Borgese crepuscolarismo, sappiamo che tale clima fu anticipato dal Marrone, precedendo egli il Gozzano su quella strada che segnava il primo distacco dal dannunzianesimo allora imperante. La poesia italiana tentava di affrancarsi da taluni atteggiamenti prevalentemente esteriori: si intimizzava: più che agli archi di Tito si voleva badare alle farfalle che passavano sotto gli archi di Tito. Primo moto di reazione, che se si fosse esaurito nel suo conato iniziale, come accadde per alcuni poeti minori, non avrebbe condotto a opere di alta significazione[27].

[In A.L. Giannone, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013]

Note


[1] G. Farinelli, Perché mi dici poeta? Storia e poesia del movimento crepuscolare, Roma, Carocci, 2005, p. 23.

[2] A. I. Villa, Neoidealismo e rinascenza latina tra Otto e Novecento. La cerchia di Sergio Corazzini. Poeti dimenticati e riviste del crepuscolarismo romano (1903-1907), Milano, LED, 1999, p. 252.

[3] Ibidem, p. 257.

[4] Cfr. L. Scorrano, Il polso del presente. Poesia, narrativa e teatro di Cesare Giulio Viola, Modena Mucchi, 1996, pp. 9-12.

[5] Cfr. Villa, cit., pp. 253-255, che riporta le testimonianze, tra gli altri di Ettore Veo, Filippo Donini e Adone Nosari.

[6] L.  d’Ambra, Ritratti letterari. Cesare Giulio Viola, “Comoedia”, n. 8, 1929, p. 23

[7] N. Porzia, Autori italiani. Cesare Giulio Viola, “Teatro”, n. 12-13, 1950, p. 22.

[8] Ibid.

[9] C.  G. Viola [V], La necessità di morire, “La Tribuna Pugliese”,  n. 9, 20 giugno 1908.

[10] Ibid.

[11] V, Sergio, “Le Cronache d’Italia”, 5 agosto 1922, p. 175.

[12] Ibid., p. 176.

[13] Ibid.,, p. 179.

[14] Ibid., p. 178.

[15] Ibid., p. 175.

[16] Ibid., p. 178.

[17] Ibid., p. 179.

[18] Si tratta, esattamente, di Ode all’architetto, in Panem nostrum e di Consiglio dell’alba, in Poesie provinciali, in F. M. Martini, Tutte le poesie, a c. di G. Farinelli, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1969, rispettivamente alle p. 110 s e 129.

[19] V, Corona per il poeta, “L’Italia Letteraria”, n. 16,  19 aprile 1931.

[20] Ibid.

[21] V, Anniversario della morte di Fausto Maria Martini, “Rivista di Cultura”, fasc. 3-4, marzo-aprile 1932, p. 159.

[22] Ibid., p. 160.

[23] V, Nel decennale della morte. Fausto Maria Martini, “Scenario”, n. 4, aprile 1941, p. 147.

[24]  V, Tito Marrone scrittore segreto, “Scenario”, n. 10-11, novembre 1943, p. 353.

[25] Ivi., p. 354.

[26] V, Dopo l’assegnazione del Premio Siracusa. Un poeta umile che ha lavorato in silenzio, “Il Messaggero”, 26 ottobre 1949.

[27] Ibid.

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