Luigi Pirandello e la «Rivista d’Italia» (1918-1920) (Parte seconda)

Se accettate in tal senso e per tal compenso, lo faccio e molto, molto seriamente, e in maniera definitiva, altrimenti proprio non posso. D’altro canto dovrete considerare che avrete non parole, ma sangue del mio sangue migliore. Scrivetemi, vi prego con la stessa franchezza con la quale vi scrivo: ormai siamo veramente fraterni.

E grazie per la vostra novella: Purché non superi le due colonne e mezza. O se così potete senz’altro inviarmela.

Vi saluto cordialmente

Vostro

Rosso di SSecondo

Rivista d’Italia

Per motivi che ignoriamo, o forse proprio a causa delle condizioni poste dallo scrittore[3], il quale d’altra parte, come accenna anche in questa lettera, appena due anni prima aveva pubblicato un lungo saggio su Pirandello[4], sulla «Rivista d’Italia» non uscì il profilo di Rosso di San Secondo, bensì quello steso da un giovanissimo e promettente scrittore, Orio Vergani, destinato a diventare uno dei più noti giornalisti italiani del Novecento.  Questo  nome  venne suggerito a Saponaro dallo stesso Pirandello,  come risulta anche dalla seguente lettera, inviata da  Milano il  4  novembre 1918 su foglio intestato «Società “L’Editricie” [sic] / Il Messaggero»,  nella quale Vergani si impegnava a completare il suo articolo non appena ritornato a Roma. Si riproduce qui la lettera:

Gentilissimo Signor Saponaro


Orio Vergani.

Milano

credo che il mio nome non le riesca nuovo. Pirandello anzi le ha promesso un mio ‘profilo’ per la rivista.

Vuole essere tanto gentile da dirmi dove mi sarebbe possibile vederla? Sono libero dalle 5 ½ alle 8 ½ d’ogni sera.

Il mio indirizzo è questo: Orio Vergani. Via S. Andrea 9 – Milano

Ringraziandola distintamente la saluto

Orio Vergani

Io non ho potuto ultimarlo negli ultimi giorni a Roma, e adesso sono qui a Milano, soldato d’artiglieria a cavallo. Spero di tornare entro il mese a Roma e completare così il mio articolo.

Nato a Milano nel 1898,  dopo aver interrotto gli studi,  il giovane scrittore si era trasferito a Roma e qui, secondo la testimonianza del figlio Guido,  «lavorava, come redattore tuttofare, al “Messaggero Verde”, il supplemento culturale del quotidiano romano, insieme a Federigo Tozzi e a Rosso di San Secondo. L’ispiratore, il direttore ombra di quel foglio era Luigi Pirandello. Orio aveva trovato in lui un maestro-padre»[5]. Questi,  a sua volta,  lo stimava e lo considerava il più promettente dei suoi allievi. 

D’altra parte,  com’è noto, Orio Vergani fu vicino a  Pirandello anche negli anni seguenti. Egli fu, infatti, uno dei dodici fondatori del «Teatro d’Arte» di Roma, di cui il drammaturgo siciliano assunse la direzione nel 1925. Ma anche altri componenti della sua famiglia ebbero rapporti con Pirandello. La sorella maggiore di Orio, Vera, negli anni Venti divenne una delle attrici pirandelliane più apprezzate. Fra l’altro, il 10 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma fu l’interprete della Figliastra nella prima dei Sei personaggi in cerca d’autore rappresentata dalla compagnia di Dario Niccodemi.

Sul fascicolo di febbraio 1919 venne pubblicato, dunque,  lo scritto di Vergani, in cui egli tracciava un sintetico, ma informato e acuto, profilo dell’uomo e dello scrittore, anche se – sostiene all’inizio ‒ «l’unico scrittore che potrebbe scrivere di Luigi Pirandello degnamente sarebbe, sicuro, Luigi Pirandello»[6]. Dopo averlo definito «uno tra i maggiori scrittori nostri»[7] e aver giudicato Il fu Mattia Pascal, pubblicato appena quindici anni prima, «un’opera quasi classica»[8], individua giustamente  «il concetto informatore della sua arte»[9] nell’umorismo che

è forse il primo passo verso l’assoluto, in arte. Ed ecco ‒ continua Vergani ‒ l’umorismo di Pirandello diventare non più contrasto di spirito e di forma, di reale e irreale, di logico e assurdo, ma assurgere alla linea della essenza classica, alla rarefazione della realtà e dell’irrealtà in uno, alla distruzione del naturalismo e dell’estetismo, per raggiungere, in alcune pagine dove la vibrazione è di una intensità tale da esser pressoché insensibile, quasi la linea perfetta dell’assoluto. Del vero fuori del vero. Raggiungere, infine, la totalità della costruzione nuova, omogenea, compatta, inintaccabile in ogni sua parte, fatta di mille esperienze nel conosciuto e di mille sbalzi nello sconosciuto, assoluto dentro lo spazio e fuori dello spazio[10].

Successivamente stabilisce un confronto con Verga, che «ha dato il concetto realista del romanticismo d’una sensibilità  e d’una razza», mentre Pirandello «ha affinato questa sensibilità romantica e passionale coll’analisi cerebrale, e ha raggiunto l’equilibrio classico della visione del dissidio, traverso la dolorosa esperienza umoristica della realtà materiale riflessa nella realtà immateriale»[11].

Nell’ultima parte del saggio, Vergani ritorna sull’uomo Pirandello e  immagina, quasi anticipando lo schema dei Sei personaggi, della cui stesura probabilmente era al corrente, che egli venga raggiunto nel suo studio dai suoi personaggi: Mattia, Baldovino, le dolenti madri, i bambini, gli uomini, qualche zolfataro, Ciaula, qualche pazzo e qualche donna innamorata. Alla fine preannuncia la pubblicazione, che però sarebbe avvenuta solo nel 1926, di Uno, nessuno e centomila, «che dovrà contenere ‒ scrive Vergani ‒ tutta l’essenza migliore della sua arte»[12].

Ma il nome di Pirandello, sulla «Rivista d’Italia», ricorre anche in varie altre occasioni. Saponaro dimostra,  infatti, un’attenzione costante per l’opera teatrale dello scrittore nel triennio in cui fu responsabile della rivista. Nella rubrica Rassegna drammatica, infatti, da lui curata, il nome del drammaturgo siciliano è spesso presente[13]. Nel primo fascicolo, ad esempio, sosteneva già, senza mezzi termini, che Pirandello era «il fatto nuovo e inconsueto, accaduto, in teatro, nel 1917» e lo definiva «l’autore drammatico dell’anno che oggi si chiude»[14]. Egli sottolineava la novità del teatro pirandelliano che induce il pubblico a riflettere, a ripiegarsi  su se stesso, a comprendere le umane debolezze della natura umana:

Questo teatro senza vicende drammatiche o comiche, ‒ continuava ‒ senza rilievo di caratteri, questo teatro di filosofia in azione, di massime viventi e parlanti, pur tra l’artifizio evidente della sua struttura paradossale e didascalica, ha dato al pubblico la sensazione di trovare ciò che in questi giorni dolorosi affannosamente va cercando: un po’ di verità. Il pubblico se n’è appagato ed è tornato a riaverla[15].

E concludeva il suo intervento con la certezza che Pirandello  non sarebbe stato mai un autore alla moda, « un dominatore di platee»[16], ma avrebbe conservato intatto il suo posto nel teatro che aveva  definitivamente conquistato.

Nella Rassegna drammatica del 28 febbraio 1919, dopo aver scritto che i giovani commediografi italiani (Chiarelli, Antonelli, Veneziani) ammettevano essi stessi di derivare da Pirandello, sottolineava le profonde differenze esistenti con gli altri autori teatrali. Mentre, infatti, egli era  giunto al teatro dopo una lunga esperienza d’arte e di riflessioni durata trent’anni, portandovi «una propria originale visione della verità, nella sua apparenza e nella sua essenza» e  cogliendo «il paradosso della vita al centro dell’anima umana»[17], gli altri la cercavano nelle convenzioni più viete dei palcoscenici.  Per questo, anche un lavoro, a suo giudizio, meno riuscito, come L’innesto, sovrastava  nettamente «la media e la mediocrità del teatro consueto»[18].

Saponaro, come s’è detto,  figura come redattore della rivista fino a luglio del 1920, in quanto poco prima si era dimesso dall’incarico a causa di contrasti sorti con la Direzione a cui imputava la  scarsezza costante di mezzi finanziari a disposizione per retribuire i collaboratori. Subito dopo le dimissioni egli promosse una vertenza nei confronti dell’Amministrazione per vedersi riconosciuta la funzione di redattore-capo, quale in effetti aveva svolto. A tale scopo venne chiesta la testimonianza ad alcuni collaboratori, i quali infatti, inviarono dichiarazioni autografe in tal senso, come dimostrano alcune missive conservate nell’Archivio dello scrittore. Anche Pirandello inviò una lettera datata «Roma, 15. VI. 1920» nella quale  dichiarava di avere trattato sempre con Saponaro per quanto riguardava la sua collaborazione con la «Rivista d’Italia». Eccone il testo:

Preg.mi Signori,

            mi arriva soltanto oggi, 15, la lettera in data 9 giugno a me diretta in nome di codesto On.le Collegio per rispondere quale testimone nella pendenza Saponaro – Società «Unitas».

Rispondo che ebbi sempre a trattare col Saponaro e non con altri nella richiesta della mia collaborazione alla «Rivista d’Italia».

Con ossequio

Luigi Pirandello

Ma Saponaro continuò ad occuparsi del teatro di Pirandello anche dopo il triennio in cui fu redattore al punto che si può considerare  uno dei critici che più assiduamente lo hanno seguito  per tutti gli anni Venti. Dopo un’interruzione di tre anni, infatti, nel marzo del 1923, egli riprende la Rassegna drammatica, ritornando ancora una volta sul drammaturgo siciliano e facendo notare che dopo sei o sette commedie scritte negli ultimi tre anni, ormai «il nome di Pirandello autore di teatro s’è sovrapposto al nome di Pirandello autore di novelle»[19] e il pubblico era disposto ormai a lasciarsi trascinare «nel labirinto di tutte le sue costruzioni cerebrali»[20]. Poi passava ad esaminare Vestire gl’ignudi, che, a suo giudizio,  non valeva le commedie precedenti, perché, pur essendo «bellissima di luce spirituale nella concezione», nella realizzazione scenica appare talvolta «frantumata in uno studio forse eccessivo di particolari pittorici e dialettici, e offuscata dalle tinte grigie di un panorama crepuscolare»[21]. Ciononostante,  anche qui «la sua arte, tutta interiorità – e dolorosamente, amaramente interiorità ‒ lavora di scavo nell’anima dei personaggi»[22], anche se la tecnica, secondo Saponaro, prevaleva sulla fantasia.

Anche nelle  cronache teatrali, da lui pubblicate sul quotidiano milanese «La Sera» dal 1924 al 1927[23], egli  prende spesso in esame sia  prime rappresentazioni di opere pirandelliane, sia repliche dei capolavori messe in scena da prestigiose compagnie, italiane e straniere. Anche in queste recensioni l’elemento costante della sua interpretazione sembra essere la ‘cerebralità’ che caratterizzerebbe i testi dello scrittore siciliano. Nella recensione a La vita che ti diedi, ad esempio, Saponaro sostiene che Pirandello ha avuto il torto di rappresentare il dramma potente della maternità «con mezzi puramente cerebrali», mentre «il dramma materno è sempre un dramma di sentimenti: nella madre il cuore soverchia la forza del pensiero»[24]. Anche in Ciascuno a suo modo, a giudizio di Saponaro, la riflessione sull’inconsistenza della realtà che è «il nucleo centrale della concezione pirandelliana della vita»[25], prevale sul dramma reale che si svolge sul palcoscenico, secondo un procedimento in lui consueto. Ma l’interesse che il pubblico prova per  il dramma umano fa passare in secondo piano il dramma dialettico. La signora Morli uno e due, infine, sembrerebbe la meno pirandelliana, almeno per tre quarti, tra le sue opere, dal momento che l’autore ha voluto rappresentare il «dualismo d’anime» e non esclusivamente teorie[26]. Anche qui però, a suo giudizio, l’introspezione inaridisce la sorgente dei sentimenti.

Non bisogna meravigliarsi eccessivamente di queste osservazioni. La cerebralità, com’è noto, è una delle accuse più frequenti che venivano rivolte  al teatro pirandelliano in quegli anni da quasi tutti i suoi critici[27]. D’altra parte Saponaro, in un pezzo sul Teatro di Stato, definirà Pirandello «il nome più alto del teatro contemporaneo, l’uomo e l’artista che in questi anni ha dato un’eco europea alla voce della nostra arte umiliata sino ad oggi alla parte della serva»[28].  E, a parte il curioso accento nazionalista, emergono qui, ancora una volta, tutta la stima e l’ammirazione che egli provava per il grande drammaturgo agrigentino.

[In A.L. Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020]


[1] In «Rivista d’Italia», II vol., 31 maggio 1918, pp. 71-75.

[2] I termini sottolineati nella lettera sono stati da noi posti in corsivo.

[3] In una lettera successiva inviata a Saponaro, datata «Roma, 28 – 7 ‒ 918»,  Rosso scriveva, fra l’altro:  «Ho ricevuto la vostra novella,  ma ancora nessuna  risposta alla mia ultima lettera. Se m’aveste scritto, è andata smarrita».

[4] Cfr. P. M. Rosso di San Secondo, Luigi Pirandello, in «Nuova Antologia», 1° febbraio 1916, pp. 390-403.

[5] G. Vergani, L’allegra epopea d’una famiglia: la mia, in «La Repubblica», 13 gennaio 1990.

[6] O. Vergani, Luigi Pirandello, in  «Rivista d’Italia», I. vol., fasc. II, 28 febbraio 1919, p. 220.

[7] Ibid.

[8] Ivi, p. 221.

[9] Ivi, p 224.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ivi, p. 226.

[13] Sull’attività svolta da Saponaro in campo teatrale, come critico e autore, si rinvia a E. Catalano, La faticosa tristezza del poeta moderno. Saponaro critico drammatico e autore teatrale, in Michele Saponaro cinquant’anni dopo, cit., pp. 299-313; ora in Id., I cieli dell’avventura. Forme della letteratura in Puglia cit.,  pp. 55-72.

[14] M. Saponaro, Rassegna drammatica, in «Rivista d’Italia», I vol., fasc. I, 31 gennaio 1918, p. 91.

[15] Ivi, p. 92.

[16] Ibid.

[17] M. Saponaro, Rassegna drammatica, in «Rivista d’Italia», I vol., fasc. II, 28 febbraio 1919,  p. 230.

[18] Ibid.

[19] M. Saponaro, Rassegna drammatica, in «Rivista d’Italia», I vol.,  fasc. III, 15 marzo 1923, p. 376

[20] Ivi, p. 377.

[21] Ibid.

.

[22] Ibid.

[23] Di queste recensioni di Saponaro,  in A. Barbina, Bibliografia della critica pirandelliana,  Le Monnier, Firenze 1967,  figura però  soltanto quella relativa  a Ciascuno a suo modo.

[24] M. Saponaro, La vita che ti diedi. Tragedia in tre atti di L. Pirandello, in «La Sera», 15 gennaio 1924.

[25] Id.,. Ciascuno a suo modo. Commedia di Luigi Pirandello, in «La Sera», 24 maggio 1924.

[26] Id., Due in una. Commedia in tre atti di Luigi Pirandello, in «La Sera», 7 aprile 1926.

[27] Sulla fortuna critica di Pirandello  cfr.  G. Ferroni, Luigi Pirandello, in I classici italiani nella storia della critica. Da Fogazzaro a Moravia, vol. 3, La Nuova Italia,  Firenze 1977, pp. 57- 129.

[28] M. Saponaro, Il Teatro di Stato,  in «La Sera», 2 dicembre 1926.

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