Un itinerario letterario: la Lecce di Vittorio Bodini

Il rifiuto della sua città continua anche durante gli anni trascorsi, tra il 1937 e il 1940, a Firenze dove si laurea in Filosofia e riprende la sua attività letteraria, avvicinandosi alla corrente dell’ermetismo e aprendosi alla grande cultura europea (non a caso in un’altra poesia della raccolta Dopo la luna, dal titolo Troppo rapidamente,scriverà: “Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa”). A questo proposito, in uno scritto memoriale intitolato proprio Firenze, scrive così: “M’ero lasciato dietro Lecce ancora troppo giovane e pieno di polemiche contro la immobilità della sua vita, e ora mi ero posto per intero dalla parte di Firenze, accettando il rozzo errore che la prima fosse una forma sbagliata rispetto alla seconda…; mi ci volle non poco tempo per rendermi conto che si trattava di due ipotesi altrettanto motivate e legittime dell’universo”.

Quando, allora, Bodini si accorge che la sua città, è un’“ipotesi altrettanto motivata e legittima dell’universo” come Firenze e decide anzi di metterla al centro del suo interesse umano e letterario? Nell’immediato dopoguerra, allorché alla sua immaginazione si affaccia, più in generale, il Sud, il Meridione d’Italia, che era sì una precisa realtà storica e geografica con tutti i suoi problemi di natura sociale ed economica, ma che si prestava benissimo a una reinvenzione fantastica, a diventare un motivo nuovo di poesia, e che gli permetteva di aprirsi al reale e uscire fuori da quella “prigione di parole” rappresentata dalla poesia ermetica che rifiuta definitivamente. E infatti al 1946 risalgono le prime poesie e i primi racconti di Bodini nei quali balza in primo piano il tema del Sud, come nella poesia iniziale della Luna dei Borboni, “Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado”, in cui il Sud è già associato a una condizione esistenziale.

         Ma in questi anni dell’immediato secondo dopoguerra egli scrive anche un romanzo di carattere autobiografico, Il fiore dell’amicizia, tutto ambientato a  Lecce, dove all’inizio degli anni Trenta si svolgono le vicende di un gruppo di giovani, quasi dei vitelloni ante litteram. E in queste pagine la piccola città di quegli anni viene accuratamente descritta in molteplici luoghi, tanto che non sarebbe difficile tracciarne una sorta di topografia letteraria. Ci sono, ad esempio, la piazza principale che “era molto vasta (ora lo è di più ma non è più una piazza, è un vuoto)”, il castello di Carlo V, le strade del centro, come la scomparsa via San Marco, gli alberghi, come il Grand Hotel, i caffè, la villa comunale e ancora il collegio dei Gesuiti, il viale della stazione, ecc.

         La vera e propria riscoperta di Lecce e del Salento avverrà però soltanto dopo un’esperienza fondamentale della sua vita, la permanenza in Spagna, dove egli si trattiene dal novembre del 1946 all’aprile del 1949. Qui egli scopre un altro Sud, che gli serve per capire meglio anche il suo. In Spagna infatti, con la guida ideale di Federico García Lorca, si immerge nella realtà profonda di quella nazione alla ricerca del suo “spirito nascosto” e scopre le numerose affinità che la legano al Salento, come si può vedere nei bellissimi reportage che ho raccolto nel Corriere spagnolo.

         Una volta tornato a Lecce nel 1949, Bodini si dedica all’appassionata esplorazione della propria terra, un po’ come aveva fatto con la Spagna, andando anche qui alla ricerca delle sue radici, attraverso l’individuazione di alcune costanti storiche, artistiche, sociali, economiche, antropologiche e di alcuni fenomeni, vicende e personaggi identitari (il barocco, il tarantismo, san Giuseppe da Copertino, il sacco di Otranto, il lamento funebre delle prefiche). E infatti ai primi anni Cinquanta risalgono alcune splendide prose, nelle quali Bodini elabora la “sua” immagine di Lecce e del Salento, attraverso uno scavo nella storia, nell’arte, nella società, nel costume e nelle tradizioni meridionali. Questi scritti costituiscono, per così dire, la base teorica, gli antecedenti più immediati dei suoi primi due libri di poesia, La luna dei Borboni (1952) e Dopo la luna (1956), nei quali, come s’è detto, balza in primo piano il motivo del Sud, che in lui equivale principalmente al Salento, e che arriva a diventare metafora di una tragica condizione umana ed esistenziale.

          Centrale, ad esempio, deve essere considerata una prosa intitolata Barocco del Sud (poi pubblicata sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” nel 1951, col titolo di Psicologia del barocco leccese) in cui egli comincia a costruire l’immagine della città borbonica e  barocca “vedova del suo tempo” (cioè del Seicento), “condizione dell’anima” più che “luogo della geografia” dove s’arriva solo casualmente “scivolando per una botola ignorata della coscienza”. Ma per Bodini il barocco, sulla scia del saggista spagnolo Eugenio d’Ors, è inteso come categoria che si oppone al “classico” e trascende quindi il tempo e anche il mondo delle arti, cioè non è solo uno stile architettonico e artistico, storicamente determinato e limitato appunto al secolo XVII.  Non a caso esso si estende dalle arti e dall’architettura all’artigianato, al paesaggio (il barocco “naturale”) nonché all’anima stessa degli abitanti di Lecce. Il barocco leccese arriva a diventare quindi per Bodini una condizione dello spirito in cui si riflette un disperato senso del vuoto (l’horror vacui), che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza decorativa, tipica delle facciate delle chiese e dei palazzi leccesi.

Ed è ancora la sua città che gli ispira alcune delle liriche più alte di questo periodo, comprese in questo itinerario, come Lecce, dove Bodini interpreta Lecce attraverso la chiave di lettura del barocco, inteso però nel senso che ho cercato di chiarire poc’anzi, cioè come condizione dell’anima. Un’altra lirica ispirata a Lecce è Col tramonto su una spalla, dove il poeta, dopo essere passato sotto l’Arco di Carlo V  “con un gelato / di corvi in mano”, cioè in preda a cupezza d’animo, a un umor nero,  dice:“Questa è la mia città / le mura le avete viste: / sono grige grige. / Di lassù cantavano / gli angeli nel Seicento, / tenendo lontana la peste / che infuriava sul Reame”. E ancora, la straordinaria Via De Angelis, uno dei vertici, a mio avviso, della lirica italiana del Novecento, dove c’è un sentimento di completa immedesimazione con gli abitanti e con l’anima stessa di una strada, la “via / senza eguali”, dove Bodini ha abitato per alcuni anni, nel civico 33, dopo il suo ritorno dalla Spagna nell’aprile del ’49 e allora popolata da umili artigiani (ciabattini, carbonai, fruttivendoli): “Questa strada sbilenca traballante / fu dunque la mia pelle, / pietre e lastrici umani / di cui m’entrò nel sangue / l’odore e la gaia tristezza […].”.

Insomma in questi anni c’è in lui una profonda comprensione della sua città, anche se Bodini non rinuncia mai all’ironia, presente soprattutto in alcuni racconti come innanzitutto nel più bello di tutti, Il Sei Dita (1955), che si può definire la vera “summa” della leccesità di Bodini, dove protagonista alla pari dei personaggi diventa la città, amata-odiata, “sola e incomunicata – scrive – su un orizzonte così uniforme che scoraggia la vista; e le pietre e gli alberi e temo anche i pensieri degli uomini ne vengono irrimediabilmente appiattiti”.

E a Lecce sono ambientati ancora alcuni degli ultimi racconti che egli scrisse, come Il giro delle mura (1961), dove c’è una gustosa rievocazione della città  fin de siecle e delle passeggiate dei leccesi di quel tempo (“Attraversava il Corso, le Spezierie, la piazza principale, ma soprattutto i Villini. I Villini sono dei lunghi viali che costeggiano su due fianchi le mura della città”) e Il duello del contino Danilo, composto nel 1970, l’ultimo anno di vita, il suo racconto più astratto e metafisico, dove l’horror vacui del protagonista, alter ego dell’autore, si riflette nel “vuoto regno di polvere, di scogli e di pietre” dell’arida campagna circostante la città.

Bodini insomma, per concludere, è stato in assoluto il maggiore interprete di Lecce come “luogo dell’anima”, l’inventore anzi dell’immagine letteraria della città e quindi dell’immagine più alta, preziosa, nobile che una città possa vantare e che, a mio avviso, è importante salvaguardare e valorizzare. È giusto quindi che oggi questa città, la “sua” città, nel giorno del cinquantesimo anniversario della scomparsa di Bodini, gli renda questo omaggio.

[Discorso letto  in occasione dell’inaugurazione dell’Itinerario bodiniano, realizzato dall’Amministrazione comunale di Lecce in coincidenza col cinquantesimo anniversario della morte di Vittorio Bodini (Lecce, 19 dicembre 2020), già pubblicato in visitLecce]

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