Piero Manni e il suo Salento dalle “millanta facce”

Ma quando scrive Piero Manni ha la nitida consapevolezza  che soltanto alla scrittura deve dar conto, che la scrittura pretende la sua vita. Quando scrive lo fa perché l’infanzia nottetempo gli bussa ai vetri della finestra, e domanda e comanda di essere raccontata proprio in quel momento, senza differimenti, senza esitazioni.  Allora volti antichi si radunano intorno alla finestra, rivendicano la loro appartenenza alla memoria, si portano dietro le loro storie. 

La narrazione di Piero Manni trova i suoi motivi e i suoi moventi prevalentemente in due condizioni. La prima è quella della memoria:  il  riaffiorare di un’atmosfera, di un odore, un sapore, una fisionomia d’uomo , una scena. Il frammento di un’esistenza. Una nostalgia. Un rimpianto. Un confronto con il tempo di dentro e con quello che gli gira intorno. Una domanda sul senso che hanno le storie di ciascuno, che ha la Storia di tutti.

Al confronto con il proprio tempo e con il tempo della Storia si annoda la seconda condizione, che è costituita dalla visione del mondo, dal fitto tessuto ideologico che avvolge, accorda, configura, connota   e sostanzia   ogni movimento della narrazione.  Ma, soprattutto, è dalla visione del mondo che si genera il linguaggio di cui hanno detto con affettuosa e precisa argomentazione  Carlo D’Amicis e Antonio Prete nei loro contributi che chiudono “Millanta facce”. Da quella visione proviene la sovrapposizione dei nessi logici, la disarticolazione sintattica, la deviazione improvvisa dal percorso cronologico, il ritmo che ad un punto si impenna e a quello successivo va in picchiata, l’interruzione della trama, come se improvvisamente gli si spalancasse davanti un vuoto e con la scrittura non potesse fare altro che scaraventare lo sguardo nel buio di quel vuoto.

Ma si apre davvero un vuoto nella visione del mondo di Piero Manni, ad un certo punto. Accade quando assume consistenza di senso la scomparsa di quell’ universo contadino, metaforizzato nel luogo mentale del Salento,  dove tutto accade per una condizione di apparente fatalità, dove tutto diventa misura di una dimensione del vivere, e del morire. Allora la scrittura si ritrova a  confrontarsi  con il razionale e l’irrazionale, con l’eterno e il transeunte, con la realtà e la fantasticheria, con la religione e la superstizione, l’immaginario individuale e collettivo. 

In quel vuoto galleggiano immagini che hanno perso ogni concretezza, figure che convergono in una struttura testuale che rimescola il sacro e il profano, impasta  musicalità, antropologia, memoria, storia, ritorno all’esperienza del tempo e a tutto quello che il tempo comporta: le verità,  le menzogne, gli amori, i disamori,  le leggerezze, le stravaganze, le tenerezze, le ferite. Le paure.

Nel corso del suo raccontare, Piero Manni prende sempre, esplicitamente, posizione. Rifiuta ogni neutralità, mette a disposizione elementi per l’analisi e la formulazione di giudizio. Assume la funzione del testimone, di colui che c’era e quindi può riferire com’è stato quel mondo, può consentirsi la possibilità e il rammarico del confronto.

Avrei potuto scrivere di “Millanta facce” anche leggendo soltanto gli inediti che contiene. Il resto lo ricordavo tutto alla perfezione. Ma se avessi fatto così, se non avessi approfittato della possibilità di attraversare  il territorio  della sua opera per come si distende in questo libro, non avrei potuto avere cognizione di quello che è stato il cominciare e il maturare di tutta la sua storia di uomo e di intellettuale.   

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 15 maggio 2022]

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