Due riviste sperimentali degli anni Settanta: “Gramma” e “Ghen”

            È  il caso di “Gramma”, che deve essere considerata uno dei primi periodici italiani di “poesia visiva” e, al tempo stesso, anche di  editoria alternativa o di “esoeditoria” come era allora chiamata[2]. Venne fondata a Lecce  nel 1971 da tre giovani artisti salentini provenienti dalla pittura, Giovanni Corallo, Bruno Leo e Salvatore Fanciano, i quali, insieme col critico Toti Carpentieri,  nel 1964 avevano dato vita al PrismaGruppo e nel 1970 al Centro culturale Gramma. Di questo “bollettino trimestrale di cultura contemporanea”, in quell’anno, uscirono in tutto quattro fascicoli per complessivi cinque numeri. Secondo l’organigramma apparso sul primo numero, Salvatore Vergari ne era il direttore responsabile,  Corallo, Fanciano, Leo e Francesco De Blasi i redattori,  Enzo Panareo il coordinatore, e Vittorio Balsebre e Vittorio Dimastrogiovanni i “coadiutori”.

            La poesia visiva era una delle novità più rilevanti di quegli anni[3]. Nacque a Firenze nel 1963 ad opera di alcuni poeti (Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti), pittori (Antonio Bueno e Alberto Moretti) e musicisti (Sylvano Bussotti e Giuseppe Chiari), i quali diedero vita al cosiddetto  “Gruppo 70”. Essa era basata sull’integrazione tra parola e immagine, tra elemento verbale ed elemento iconico, i quali costituivano una sorta di intercodice che permetteva di sfruttare inedite possibilità espressive e trarre insospettati effetti estetici, sull’esempio delle avanguardie primonovecentesche e, in particolare, del futurismo.    

            Nel 1969 Miccini fonda a Firenze il Centro Techne, che si apre alla sperimentazione teatrale, oltre che poetica, e al dibattito culturale e politico di quegli anni. Legata al Centro è la rivista omonima, “Techne”, che incomincia ad uscire lo stesso anno e va avanti fino al 1976 per complessivi diciannove numeri e cinquantaquattro “quaderni”[4]. In questo periodo la poesia visiva si diffonde anche in altri centri della penisola, come a Taranto, ad opera di un poeta pugliese, Michele Perfetti, che organizza alcune mostre a Massafra e nel capoluogo ionico nel 1968 e nel ‘69. Ed è proprio in una di queste occasioni che Corallo, Fanciano e Leo entrano in contatto con Miccini e decidono di fondare la  loro rivista “in collaborazione  con il Techne di Firenze”.

            “Gramma” ricalca fedelmente la prima serie del modello fiorentino sia nell’aspetto esterno che nei contenuti. Come “Techne”, infatti, essa si presenta come un assemblaggio di materiali eterogenei (fogli ciclostilati non numerati, locandine, serigrafie, inserti, collage, depliant), tenuti assieme da alcuni punti metallici e con una copertina di cartoncino bianco. Un foro nella parte inferiore di essa permette di leggere alcuni termini, tutti col suffisso “gramma”, che sono elencati su un foglio di colore diverso per ogni  numero. Questo suffisso (dal greco “gràphein”, che significa scrivere), scelto come testata della rivista, vuole alludere probabilmente alla possibilità di utilizzare qualsiasi forma di “scrittura” e quindi di comunicazione a fini estetici.

            D’altra parte, nel breve e un po’ oscuro editoriale del primo numero, a firma di F. De Blasi,  che riprende quasi alla lettera quello di Bianca Garinei apparso sul primo numero di “Techne”, si sottolinea la volontà dei redattori di scegliere questo tipo di operazione come mezzo di comunicazione, con lo scopo di “creare una dimensione umana ed estetica” fra di loro e “con la presunzione di riuscire ad indicare uno spazio di possibile convivenza”.

            Sempre nel primo numero vi sono alcuni interventi programmatici, che contribuiscono a chiarire il senso dell’operazione intrapresa. Lo scrittore fiorentino Franco Manescalchi, ad esempio, in un articolo dal titolo Il ciclostile fra antieditoria e gesto privato, apparso contemporaneamente anche  sul  numero 2-3 di “Collettivo R” (giugno-dicembre 1970), un’altra rivista di “esoeditoria”, rivendica l’importanza dell’uso del ciclostile per la poesia, in funzione “anticapitalistica e disalienativa”. A questo proposito fa il nome di due poeti italiani di primo piano, come Andrea Zanzotto e Roberto Roversi, i quali in quegli anni avevano fatto questa scelta alternativa rifiutando i canali consueti offerti dall’editoria borghese.

            Il poeta bresciano Sarenco, dal canto suo, che era stato tra i primi a sperimentare la poesia visiva con un forte impegno politico, in un intervento  dal titolo La poesia degli anni 70,  dopo aver affermato che “storicamente la poesia concreta è finita”, in quanto essa “è la poesia dell’epoca storica in cui il poeta è al servizio totale del capitalismo”, auspicava, anzi esigeva “l’unità di politica e arte, l’unità di contenuto e forma artistica il più possibile perfetta”. Alla fine sosteneva senza mezzi termini che “la nostra posizione ‘poetica’ d’avanguardia non può non essere posizione fondamentalmente ‘politica’ d’avanguardia”. Il critico e scrittore salentino E. Panareo, infine, nel suo articolo intitolato Dell’irrisione, vedeva nell’irrisione “una forma di difesa”, una “ribellione, difesa-offesa, ad un sistema che solo una storia falsificante è riuscita ad imporre”. E in questa linea si collocano tutti i suoi interventi apparsi sul periodico.

            Sempre nel primo numero di “Gramma”, quasi a indicare degli ideali punti di riferimento, sono riprodotte le opere di alcuni maestri della sperimentazione artistica novecentesca, come Lucio Fontana, Enrico Baj e Ettore Colla, mentre Ermanno Migliorini dedica un intervento a Duchamp e al suo “scolabottiglie”. La poesia visiva vera e propria è presente, in “Gramma”, con  composizioni del caposcuola Miccini (Rebus ) e di altri operatori, spesso legati all’ambiente fiorentino, come  Perfetti, Achille Bonito Oliva, Roberto Malquori, Giusi Coppini, Andrea Granchi e Renato Ranaldi. Ma nelle pagine del periodico non mancano nemmeno alcuni esponenti stranieri delle ricerche verbo-visive, come Jean Claude Moineau, Jochen Gerz, Miguel Lorenzo, Timm Ulrichs, Alain Roussel, Jirí Valoch, Clemente Padìn, Paul De Vree. Accanto alla poesie visive, comunque, si possono trovare anche quelle puramente verbali, accomunate per lo più da contenuti di tipo ideologico-politico. Tra gli autori, ricordiamo Tomaso Kemeny, Pietro Civitareale, Massimo Grillandi, Ottavio Panaro, lo stesso Panareo, Manescalchi, e i “visivi”  Perfetti e  Coppini, che figurano anche in questa veste .

            Gli argomenti affrontati nei vari articoli non si limitano al campo letterario o artistico ma spaziano dal cinema  alla musica, dal teatro all’architettura, alla filosofia. Da sottolineare la presenza di altri gruppi d’avanguardia, con i quali il centro Gramma era collegato, come il Collettivo R di Firenze, con Marescalchi, il gruppo Stanza, di umorismo grafico, e l’Antigruppo di Palermo con Ignazio Apolloni e Nat Scammacca, presenti con alcune poesie.

            L’apporto degli operatori salentini è vario e costante sui quattro fascicoli. Essi figurano con poesie “concrete”, composte, in taluni casi, con la macchina dattilografica (V. Balsebre e Beppe Piano), poesie visive (Alberto Buttazzo, Piano, De Blasi, Francesco Pasca), sculture astratte (Salvatore Spedicato, Cosimo Damiano Tondo) e composizioni optical (V. Dimastrogiovanni e Giovanni Valletta). Da notare, ancora, sul n. 2: la presenza di Sandro Greco e Corrado Lorenzo, che avevano già alle spalle esperienze di land art, con due interventi di arte concettuale rispettivamente sul tema dello spazio e del tempo; la “poesia trovata” di V.  Balsebre, che con la macchina fotografica fissa  alcuni segni tracciati da una mano anonima sulla neve; una “scheda-inchiesta per una ricerca sulla comunicazione extra-linguistica” di Enzo Miglietta, allora in procinto  di abbandonare la poesia verbale a favore di quella visiva.

            I tre redattori, Corallo, Fanciano e Leo, lanciano una sorta di singolare manifesto, tra pop e neodada, quello della Pomologia, che vuole essere un invito a liberarsi dai conformismi e dalle convenzioni borghesi nel campo dell’arte. Qui si servono, con una certa ironia, di un  simbolo carico di antichissimi significati mitici e religiosi come la mela (il “pomo” del titolo), che però viene “astoricizzato” e “rifeticizzato” al fine – sostengono – di “ristrutturare le arti visive”, come “mezzo stimolante dei cervelli pigri”. E infatti questo simbolo ritorna costantemente, ma come banalizzato e serializzato, nei loro interventi inseriti nel periodico, come un tovagliolino di carta, un cartoncino quadrettato da album di disegno e  un collage  con un “santino”.

            Nell’ottobre del 1971, nell’ambito delle Manifestazioni artistiche fiorentine, si svolse presso la galleria “I Tigli” di Firenze una esposizione di grafica del Centro Gramma, alla quale parteciparono Corallo, Fanciano, Leo, Dimastrogiovanni, Pasca, Piano e Valletta. In quell’occasione Miccini scrisse una breve presentazione a una cartellina di opere del gruppo, in cui fra l’altro sosteneva che la “virtù segreta di questi ragazzi di Lecce” era “la loro segretezza, il coraggio di agire in contropiede, la volontà non già di misurarsi con nessuno, ma di far sentire la voce e – cosa assai singolare – perfino il bisogno di mutare rotta, di ricominciare tutto da capo”.

            Anche in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di “Gramma”, Miccini, facendo quasi il bilancio della loro breve esperienza, dava atto a questi giovani artisti di avere avuto la forza di “respingere, di revocare in dubbio, se non proprio di smitizzare ricorrendo all’esercizio dell’ironia e della satira, le proprie come le nostre matrici estetico-culturali, di rivolgersi contro se stessi, di accettare l’avventura di un’estetica che stenta a farsi etica, che logora in sé gli antichi strumenti della iperbole e della metafora per aggredire se non proprio le ‘cose’, almeno quella rappresentazione di esse che la nostra cultura stava per vivere nella più colpevole cosmesi”.

            Con la fine di “Gramma” non si esaurisce però la ventata avanguardistica degli anni Settanta nel Salento. Il vessillo dello sperimentalismo  infatti verrà ripreso e tenuto alto, qualche anno dopo, da un’altra rivista, “Ghen”, che percorre una strada inversa rispetto alla prima. Mentre infatti la prima nasce a Lecce come una sorta di filiazione della fiorentina “Techne”, “Ghen”, come si dirà più avanti, dal capoluogo salentino trova un’inaspettata continuazione a Genova con “Ghen res extensa Ligu”. Questo periodico era l’organo ufficiale di un vero e proprio movimento, il “Movimento arte genetica”, fondato a Lecce da Francesco Saverio Dodaro il 19 marzo 1976, (alle ore 21, 37, come indica con precisione il primo manifesto). Di esso  faceva parte un cospicuo numero di operatori estetici, salentini e non, provenienti da settori diversi (arte concettuale, land art, poesia sperimentale, “nuova scrittura”), ma accomunati dall’ipotesi di profonde implicazioni genetiche all’origine di ogni manifestazione artistica. L’ipotesi genetica sulle origini dell’arte e del linguaggio venne formulata proprio da Dodaro che, nel manifesto di fondazione del gruppo, sosteneva che “le prime manifestazioni d’arte sono suoni, ottenuti da percussioni, riproducenti il tempo genetico, cioè il battito materno – scansione cardiaca che è l’unità di misura dell’armonia” e ancora che il “linguaggio è una congiunzione, il tentativo di riunificazione con la madre”.

            Anche Dodaro, che è nato a Bari, proveniva dalla pittura e si era fatto apprezzare già negli anni Cinquanta alle mostre del Maggio barese, dove nel 1958 aveva ottenuto anche una segnalazione. Ma l’insoddisfazione verso un modo  tradizionale di fare arte lo aveva spinto a bruciare, in un falò rigeneratore, i suoi lavori e ad abbandonare tele e cavalletto, quasi in anticipo sulle tendenze concettuali e comportamentistiche degli anni Sessanta-Settanta. Da allora egli ha rivolto prevalentemente l’attenzione all’analisi del fenomeno artistico e dei rapporti tra di esso e la realtà del proprio tempo, sviluppando un’originale riflessione che va di pari passo con l’attività creatrice propriamente detta.

            “Ghen” esce dunque il 28 febbraio 1977 e continua per altri due numeri, che appaiono rispettivamente il 17 giugno 1978 e il 25 giugno 1979. Nella Direzione-Redazione, accanto a Dodaro, troviamo i nomi di Toti Carpentieri e Ilderosa Laudisa, ai quali poi si aggiungono quelli di Carlo Alberto Augieri, Franco Gelli e Fernando Miglietta. Anche questo periodico è assai originale sia nella veste tipografica esterna (a struttura modulare, ideata dallo stesso Dodaro) sia nei contenuti. Esso infatti non ricalca gli schemi consueti delle tradizionali riviste di letteratura e arte, ma, in sintonia con le esperienze di ricerca più valide di quegli anni, si colloca in uno spazio intermedio, interestetico, nel quale sono annullate le distinzioni fra le varie arti (la cosiddetta “perdita dello specifico”).

            Nei tre numeri il fondatore del movimento è presente con articoli e interventi teorici, i quali impostano il problema dell’ “arte genetica”. Nel pezzo pubblicato sul primo numero, dopo aver passato in rassegna numerose teorie di psicologi, psicanalisti e scrittori, giunge alla conclusione che alla base dell’arte c’è l’ “ambivalenza genetica”, la quale –  sostiene – “è la lotta fra l’istanza genetica e lo spirito dell’io alla ricerca della propria identità”. Ma Dodaro non si ferma qui e si chiede quale debba essere, date queste premesse, il compito dell’artista e dell’intellettuale. Ebbene, l’arte, a suo avviso, deve svolgere una importante funzione sociale, perché “può e deve entrare negli ospedali con il compito di ricevere, accogliere le cariche affettive, deve vivere nella strada, nella scuola, nelle fabbriche, dove si è perso ogni suono del profondo poetico. Un’arte, una catarsi sociale, quindi, – scrive l’autore – così come è sociale in ‘inquietitudine nella civiltà’ l’appello che Freud fa a tutte le forze possibili della cultura per erigere delle barriere contro gli istinti aggressivi di una ostilità primaria che indirizza gli uomini gli uni contro gli altri”.

            Sul secondo numero, nell’articolo Legami,  conduce un’indagine comparativa basata sulla ricerca etimologica di tre termini (arte, religione e vita sessuale), accomunati, a suo avviso, dallo “stesso senso primario”, cioè il legame con la madre. Nel terzo numero infine, in un lungo scritto, dal titolo Codice di Yem, Dodaro riprende il problema del rapporto tra origine del linguaggio e componente genetica, sostenendo alla fine, dopo rapide incursioni nei territori della psicanalisi, della linguistica, dell’antropologia, che il codice fonematico viene appreso dal bambino nel ventre della madre, essendo il codice primario proprio il battito materno. L’autentica radice dell’arte sarebbe quindi, secondo lui, nel meccanismo della ripetizione, che cerca di ricongiungere, di rifondare la coppia originaria. Collegata a questa singolare elaborazione teorica è la Dichiarazione onomatopeica dello stesso autore, vergata con inchiostro rosso sulla prima pagina del quotidiano parigino “Le Figaro”, su cui apparve, com’è noto, il manifesto di fondazione del futurismo, al quale, in tal modo il “Movimento arte genetica” mostra di volersi, sia pure idealmente, riallacciare.

            I tre numeri di “Ghen” contengono numerosi interventi ispirati al concetto di arte genetica, più o meno fedelmente interpretato. Tra questi ricordiamo: l’inconscio genetico, la nenia eTheo, il gatto genetico, presentati a volte con sottile senso dell’ironia da Gelli; i reperti e i diari intimi di V. Balsebre, una sorta, si potrebbe dire, di “prosa visiva” o di “narrative art” sui generis; le operazioni  strettamente legate al proprio corpo di Antonio Massari, realizzate con l’ausilio della macchina fotografica; le contaminazioni tra paesaggio urbano e umano di  Laudisa; i rimpicciolimenti delle immagini fotografiche, in direzione genetica, di Armando Marocco; le opere concettuali di Greco e Lorenzo. Nel campo della poesia verbale, sia pure sperimentale, si collocano le composizioni di Augieri e Walter Vergallo con la loro attenzione ai “diversi”, agli emarginati e al loro linguaggio, mentre E. Miglietta presenta vari tipi di lavori, che rientrano nell’ambito della poesia visiva e della “nuova scrittura”, in cui egli ormai operava. Giovanni Valentini, Luigi Lezzi e ancora Augieri, infine, rivolgono la loro attenzione al rapporto tra l’antropologia e le arti, il teatro e la poesia.

            Un discorso a parte meritano gli interventi dedicati all’architettura genetica, la quale mira a stabilire dei rapporti più stretti “fra ambiente e formazione psichica dell’individuo”. E se nel secondo numero di “Ghen” F. Miglietta pubblica un manifesto (Matram psicofisica), nel terzo numero compaiono vari interventi (F. Miglietta, Ico Parisi, Luca Maria Patella, Ugo Marano, Vittorio Tolu, Riccardo Dalisi) relativi al progetto per una scuola materna da realizzare nella Commenda di Rende, in provincia di Cosenza.

            Non mancano infine, nemmeno su questo periodico, i collaboratori stranieri, come Rickard Bottinelli, Amelia Etlinger, Pierre Restany, Klaus Groh, Tina Keane, Gerard P. Päs, presenti con testimonianze e interventi, mentre, tra gli italiani, spicca il nome di un capostipite della sperimentazione artistica novecentesca  come Bruno Munari. Contributi di carattere teorico sul concetto di arte genetica sono quelli di Arrigo Colombo, Carpentieri, Manlio Spadaro, Cesare Chirici, Tonino Sicoli, Daniele Giancane, mentre Giorgio Barberi Squarotti e Enrico Crispolti offrono due testimonianze.

            L’esperienza di “Ghen” prosegue, come s’è detto, a Genova, dove, tra il 1981 e l’85, uscirono cinque numeri di “Ghen res extensa Ligu”, diretti da Rolando Mignani. Non è casuale questo collegamento. Genova è stato uno dei centri italiani più attivi nel campo delle ricerche poetico-visuali, prima con i lavori pionieristici di Martino e Anna Oberto, di  matrice filosofica, che risalgono agli anni Cinquanta e poi con le realizzazioni di Ugo Carrega, Rodolfo Vitone, Vincenzo Accame, Rolando Mignani e altri. L’attività di Mignani, in particolare, è contrassegnata da una spiccata tendenza alla teorizzazione, che caratterizza anche le pagine di “Ghen res extensa Ligu”. Qui infatti prevalgono gli interventi di tipo teorico  dedicati a movimenti e ad autori  che hanno rivoluzionato il linguaggio artistico e letterario, come il simbolismo, il surrealismo  il lettrismo, Edward Estlin Cummings, approfondito proprio da Mignani, Marcel Duchamp, René Daumal e Dylan Thomas. Su ogni numero del periodico genovese sono presenti  i “genetici” salentini, Dodaro, Gelli, Massari e F. Miglietta, i quali proseguono coerentemente il loro discorso anche su questa sede.

[In A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]    


[1] Per un panorama  della cultura salentina di questo periodo ci sia permesso di rinviare a A. L. GIANNONE, L’attività letteraria nel Salento (1970-2005), in AA.VV., La saggezza della letteratura, a cura di E. Catalano, Bari, Edizioni Giuseppe Laterza, 2005, pp. 109-125.

[2] Su questo specifico argomento cfr. E. MONDELLO, Gli anni delle riviste. Le riviste letterarie dal 1945 agli anni Ottanta, Lecce, Milella, 1985, pp. 57-69 e G. MAFFEI-P.PETERLINI, Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni sessanta/settanta in Italia, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2005.

[3] Cfr., in particolare, AA.VV., La poesia visiva (1963-1979),  catalogo a cura di L. Ori, Firenze, Vallecchi, 1980; L. PIGNOTTI-S. STEFANELLI, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del Novecento tra parola e immagine, Espresso Strumenti, Roma, 1980, pp. 167-218; E. GIANNI’, Poiesis. Ricerca poetica in Italia,  Arezzo, Istituto statale d’arte, 1986.

[4] Sull’attività di Miccini cfr. AA.VV., Eugenio Miccini. Poesia visiva  1962-1991, Verona, Adriano Parise,  1991.

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