Su Il Lucerniere di Pasquale Geusa

Comunque bisogna avvertire che questa sommaria esposizione non dà l’idea della varietà di temi affrontati nell’intera raccolta e che esprime con forti accenti le sue pulsioni: per fare un solo esempio ved.  “trafitto da spada/ pel desio d’avere accanto una donna” (IX, v. 1).

E’ dunque una prima caratteristica della raccolta il fatto che il poeta abbia voluto mettere a nudo dei sentimenti e dei comportamenti che di solito vengono tenuti celati. Egli pertanto ha concepito un canzoniere petrarchesco, ma intriso di accenti decisamente boccacceschi o propri di Cecco Angiolieri.

Un secondo aspetto che si coglie nella raccolta è che essa emerge da un humus di cultura nazional-popolare veramente pervasivo. Come dichiara lo stesso poeta nella Introduzione, egli è fortemente influenzato dalla canzonetta popolare e dai suoi autori (Baglioni, Renato Zero, i Pooh ecc.) e, sebbene non manchino nei componimenti accenni ‘dotti’ (alle letterature classiche e moderne, puntualmente segnalati nelle note), gli snodi principali delle vicende sono segnati dalla musica leggera (oltre al momento iniziale, già segnalato, un altro momento significativo è legato alla canzone “L’ultima poesia”, di Gianni Bella, cantata da Marcella Bella: CIII). E’ interessante notare come questo tipo di letteratura possa essere di stimolo ‘poetico’.

Ma, detto ciò su alcuni pregi del libro, è necessario parlare anche di alcuni suoi limiti.

E’ certamente ardito e ambizioso il progetto di comporre 111 sonetti alla maniera di Dante e Petrarca. Si tratta di un progetto notevole, data la difficoltà di coltivare una forma letteraria così rigida come il sonetto, con la costrizione del numero dei versi e della rima. Ma proprio questo vincolo ha portato a risultati non sempre convincenti e soddisfacenti. Lasciando da parte la misura ritmica dell’endecasillabo, che spesso è approssimativa, quello che soffre maggiormente è la lingua. Già è opinabile la scelta di riprodurre forme dell’italiano trecentesco (ad es. “aveo” per avevo), ma la necessità di far quadrare i versi porta all’adozione di forme linguistiche senza un criterio visibile (ad es. “mi'” per mio, mia, miei; “no” generalizzato per non; “‘l” per il) anche quando l’uso della forma corrente non avrebbe avuto ripercussioni ritmiche (ad es. VI v. 11 “e, scuro ‘l ciel, su non vedea le stelle”). Altre volte ne risente la sintassi verbale con l’alternarsi di forme del presente e del passato senza una necessità espressiva: si veda ad es. “Io ci diedi anche in fondo, con impegno,/ affinché ‘l pensier indietro rimandi” (XVIII); “Giammai in amor trovai la via di svolta,/ sempre in disparte sto e gli amanti ammiro,/ di quella fresca aria non c’è respiro/ per me ch’aveo da Amor ogne spè tolta” (XLV). Ma soprattutto lasciano perplessi i numerosi troncamenti intesi a stabilire la rima (ad es. II, vv. 6-7: “rapide, intense e via poi sen van/ e mai alla mi’ alma han recato il suo pan”) e l’introduzione di forme scorrette sempre per necessità di rima (ad es, X v. 4 “splendida che di più un uomo mai godi” per la necessità di rima con “lodi”, v. 1; oppure XII v. 8 “e da bambin chiedeo: «Quand’è il mio tunno?», per “turno”, ” a causa della rima con “Unno”, v. 5).

Insomma, un progetto ambizioso, che ha richiesto notevole sforzo (durato qualche anno) da parte del poeta e che dimostra, oltre al coraggio dell’impresa, anche un certo mestiere nel cercare le soluzioni concrete, ma che nella realizzazione fallisce in parte il suo scopo e ci consegna un’opera che raramente riesce perspicua nella stesura e che ha bisogno di note (messe a piè di pagina) per spiegare espressioni spesso fortemente criptiche. Così vanno disperse alcune soluzioni felici che riguardano interi componimenti (ad es. IV, VII, XXXIX, XLVI, XLVII, XCII) o singoli versi (ad es. XII v. 14 “e ‘l corpo esplodea como vulcan lava”; XVI v.6 “l’animo avea più sangue d’un macello”; XXXV v. 14 “como se avessi scalato aspro monte”; LX v.  13 “Coi sentimenti più freddi che ‘n frigo”).

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