Gioacchino Toma, indagine a cavallo di due secoli – da Sofia Stevens alla Scuola salentina-

di Massimo Galiotta

«Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza, la mia Galatina […]

Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo»[1].

Il mercato dell’arte definisce come «Scuola napoletana» tutte quelle esperienze artistiche che nell’Ottocento meridionale ebbero modo di manifestarsi all’ombra del Vesuvio. Queste mutevoli espressioni della creatività stabilirono una propria identità peculiare, e che a volte tese, distaccandosi dall’Accademia di Belle Arti di Napoli, ad assumere sotto il sostantivo «Scuola» un carattere tipico in cui si sperimentavano visioni diverse dagli accademismi in voga. Nacquero così, come fossero cenacoli culturali, prima la «Scuola di Posillipo», sugli insegnamenti paesaggistici dell’olandese Anton Sminck van Pitloo e di Giacinto Gigante, e poco tempo dopo (nel 1863) a breve distanza da Napoli(ad Ercolano, allora chiamata Resina) la «Scuola di Resina»,conosciuta anche come «Repubblica di Portici». Entrambe presero il proprio nome dal luogo in cui erano soliti ritrovarsi gli artisti appartenenti a questi due gruppi. Ma ai partenopei di nascita si aggiunsero altri artisti meridionali di diversa provenienza regionale, spesso giunti a Napoli in età ormai matura e portandosi sulle spalle il proprio retaggio culturale (erano diversi per territorio d’origine e vissuto). Uno di questi, senza dubbio tra i maggiori dell’Ottocento italiano, è il salentino Gioacchino Toma (Galatina, LE, 1836 – Napoli, 1891), autore di una vera e propria corrente pittorica che nacque grazie alla sua opera, artistica e d’impegno sociale, durante i 35 anni di permanenza a Napoli. Ma descrivere la figura di Gioacchino Toma è un compito decisamente complesso e, come spesso avviene in questi casi, non si può farlo scindendo dall’artista l’uomo. Così com’è necessario comprendere la situazione storica in cui Toma si inserisce, è altresì utile capire quale uso fare delle numerose fonti bibliografiche disponibili. A tal proposito è essenziale, ai fini di una migliore analisi dei testi che a esso fanno riferimento, scrollarsi di dosso il pesante fardello del suo autobiografico Ricordi di un orfano relegandolo al ruolo primigenio, che lo stesso autore gli conferì, una raccolta di aneddoti e confidenze indirizzati dall’artista al figlio Gustavo, quale monito a non darsi mai per «vinti» di fronte alle dure prove della vita. Data alle stampe per la prima volta nel 1886, questa pubblicazione costituisce un nucleo di memorie che il padre scrive al figlio prima di morire, e allo stesso tempo la prima fonte bibliografica alla quale attingerà la critica dell’arte che si distinse per quell’approccio per certi versi appesantito da pregiudizi e stereotipi, per altri da un atteggiamento ostile all’opera sua.

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